mercoledì 29 ottobre 2008

Il fallimento degli Stati uniti? «Non è più solo un'ipotesi di scuola»

Il fallimento degli Stati uniti? «Non è più solo un'ipotesi di scuola»

di Parvus

Il Manifesto del 19/10/2008

L'euforia di borsa seguita agli interventi del G7 e dell'Unione Europea è durata poco. I listini di borsa sono di nuovo in profondo rosso, e la crisi sembra ormai avvitarsi in una spirale di svalutazioni patrimoniali, razionamento del credito e fallimenti. A questo punto anche la parola «recessione», a lungo bandita dalle cronache e tornata di prepotenza sui titoli dei giornali nelle ultime settimane, rischia di suonare eufemistica. Le dighe erette dagli stati si rivelano insufficienti contro la marea del debito. Anche perché è lecito il sospetto che le mirabolanti cifre stanziate siano un bluff. Un operatore di borsa che ha titoli bancari in portafoglio può essere felice di apprendere che il governo italiano pone a disposizione per ricapitalizzare banche in difficoltà sino a 20 miliardi di euro (la cifra è stata fatta filtrare ma non confermata ufficialmente). Ma può anche essere tentato di chiedersi dove diavolo potrebbero essere reperiti tutti questi soldi se servissero sul serio: soprattutto in un paese come l'Italia, dove il governo ha appena deciso di tagliare le spese destinate alla scuola di 3 miliardi di euro nei prossimi anni.
Anche ammesso che quelle cifre siano realmente disponibili, si apre un altro capitolo: la crescita del debito pubblico. A cominciare da quello degli Stati Uniti, per i quali l'ipotesi di un fallimento non è più solo un'ipotesi di scuola. Lo dice impietosamente il prezzo dei credit default swaps (cds), che coprono chi detiene obbligazioni dal rischio di fallimento dell'emittente. I cds sul debito Usa costano il doppio di quelli sul debito tedesco, perché il rischio di fallimento degli Usa è ritenuto due volte più probabile. In prospettiva, problemi simili a quelli degli Stati Uniti rischiano di averli diversi degli stati che lo scorso fine settimana si sono uniti nella Santa Alleanza contro la crisi finanziaria.
Ma ci sono anche paesi in cui il rischio di default è addirittura imminente. In Asia, Corea del Sud e Thailandia. Ma molti si trovano in Europa. Islanda, Ucraina e Ungheria hanno già chiesto l'aiuto del Fondo monetario internazionale. In Islanda il sistema dei pagamenti è praticamente bloccato, da quando il governo ha intrapreso misure d'emergenza a difesa della valuta locale (sono stati anche congelati i conti in valuta estera aperti nelle banche islandesi). In Ungheria, dove l'85% del mercato creditizio è nelle mani di sussidiarie di banche straniere, la Bce ha dovuto aprire una linea di credito di 5 miliardi per evitare il deflusso di euro. Ma più o meno tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale si trovano in difficoltà. Destinatari di finanziamenti esteri per oltre 1.000 miliardi di dollari soltanto lo scorso anno (in buona parte procurati da banche dell'Europa occidentale quali Unicredit, Erste Bank e Swedbank), questi paesi hanno enormi deficit di bilancio, un credito interno in forte espansione e notevoli bolle immobiliari. Con casi limite come quello di Kiev, dove gli immobili per uffici sono affittati agli stessi prezzi di Londra. Non solo: in Polonia e Ungheria il 50% dei mutui sono stati contratti in valuta straniera (in genere euro), in Croazia addirittura il 75%. E una marcata svalutazione delle valute di questi paesi è già in atto. Questa settimana in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania e Ucraina le cose sono andate molto male non soltanto per i listini azionari, ma anche per le valute locali: il fiorino ungherese, ad esempio, nella sola giornata di mercoledì ha perso oltre il 7% nei confronti dell'euro. Non diversa è la situazione dei paesi baltici. Per molti di questi paesi non sono da escludere scenari da crisi dell'Asia del 1997/8: rapido deflusso dei capitali stranieri, forte svalutazione, crisi economica più o meno generalizzata. Se questi rischi si materializzassero, sarebbe minacciata la convergenza delle monete locali verso l'euro e la stessa stabilità politica dell'Europa a 27 sarebbe sottoposta a forti tensioni. La debolezza dell'euro nelle ultime settimane ha verosimilmente anche questa origine. Lo storico spauracchio dell'Unione Europea - shock asimmetrici e differenziali tra le economie che si ampliano anziché ridursi - è già una realtà se confrontiamo i paesi della zona euro con quelli che ne sono fuori. È tutt'altro che escluso che la stessa situazione si riproponga anche all'interno dell'eurozona. Inutile dire che il candidato numero uno al ruolo di peggiore performer economico è l'Italia del cav. Berlusconi, completamente impallata e ormai gestita da un comitato d'affari di arroganza pari all'incapacità. Si pensi alle sparate contro il presunto pericolo rappresentato dai fondi sovrani per le imprese italiane, a un giorno di distanza dall'ingresso della Libia nel capitale di Unicredit (e a poche settimane dal viaggio di Berlusconi in Libia). «Il patriottismo», diceva Samuel Johnson, «è l'ultimo rifugio dei mascalzoni».

lunedì 20 ottobre 2008

DESENZANO. Avanza il parco dei colli morenici.

DESENZANO. Avanza il parco dei colli morenici.
Domenica 19 Ottobre 2008 BRESCIA OGGI

L’area protetta entra nella fase operativa

Ben 600 ettari da tutelare e valorizzare tra Monte Corno, Vò, Vallio e Monte Mario

Con l’approvazione definitiva del programma di interventi, il nuovo Plis di Desenzano (parco locale di interesse sovraccomunale) entra in piena funzione.
«Siamo soddisfatti di aver concluso l’iter procedurale cominciato nel 2006 del futuro grande parco di Desenzano - tiene a sottolineare il vicesindaco e assessore all’urbanistica, Tommaso Giardino -: adesso si passerà alla seconda fase, che è quella della redazione del regolamento che ne fisserà alcune misure, come il monitoraggio e il controllo continui».
Esteso per 600 ettari, il parco locale denominato «Corridoio morenico del basso Garda», comprende il Monte Corno fino alla marina del Vò, il Montecroce con l’ospedale, quindi la località Vallio e Montemario, e ancora la aree a nord e ad est di Desenzano. Il parco presenta caratteri ambientali e paesaggistici di rilevante qualità. Per questo, l’amministrazione ha voluto coinvolgere i privati, oltre al comitato del parco presieduto da Flavio Guala.
Un’intesa che, come spiega a Bresciaoggi il vicesindaco, tenderà a valorizzare le attività agricole esistenti, la conservazione del paesaggio naturale, la promozione di colture biologiche e dei prodotti tipici, quindi lo sviluppo di attività didattiche, ricreative e culturali per sensibilizzare i cittadini alla conoscenza del «loro» parco.
Proprio da un vasto movimento di oopinione, che aveva mobilitato negli scorsi anni oltre 100 associazioni, era nata l’idea del parco. Recepita prima dalla giunta di centrosinistra, e poi portata avanti con impegno dall’attuale amministrazione di centrodestra. C’è una forte e condivisa volontà di preservare paesaggio e tipicità ambiantali.
«Tra gli interventi previsti - annuncia Giardino - c’è la creazione di una grande piazzola panoramica che contribuirà parecchio a rendere più fruibile l’area».
Il lancio del plis prevede il progetto di una foresta di pianura estesa 20 ettari, la stampa e distribuzione in 10 mila copie di una pubblicazione divulgativa dell’area, l’installazione di un’adeguata segnaletica e la realizzazione di un convegno.
Le altre prescrizioni riguardano la pulizia di tratti di campagna, la creazione di accessi sicuri e di un parcheggio raso in erba di 2.300 metri quadri, l’incremento dei canneti per circa 1.100 mq, la costruzione di una struttura in legno più un deposito di biciclette per un totale di 100 mq, la sistemazione di alcuni posteggi e di percorsi ciclo-pedonali. M.TO.

martedì 14 ottobre 2008

Segnalazione Convegno Laico

Salve,
vi inoltro una comunicazione relativa ad un interessante Convegno Laico.
Il fenomeno dell'invadenza delle religioni monoteiste in ogni campo della società è sotto gli occhi di tutti.
Ogni giorno che passa vediamo le religione monoteiste impegnate a produrre e concretizzare nuove sofferenze.
La violenza del monoteismo viene applicata con metodo.
In Italia stiamo assistento all'impegno costante dei cristiani nell'imporre la loro visione del mondo.
I peccati, inventati e generati dalla follia cristiana, rischiano di diventare legge dello stato.
Le persone rischiano di perdere ogni diritto, anche quello sulla loro esistenza.
La sofferenza viene esalta ed imposta, il caso Welby e quello di Eulana sono la dimostrazione di come i cristiani applichino il loro gusto sadico.
La legge sulla fecondazione assistina ci fornisce un'ulteriore prova della considerazione che i cristiani nutrono nei confronti delle donne.
I politici italiani fanno a gara per dimostrarsi i più sottomessi alle richieste vaticane.
AL momento non esiste un nessun "fronte" che rivendichi in maniera costante e pressante i diritti civile delle persone.
C'è da sperare che questo convegno possa rivelarsi com un mutamento della situazione del campo laico.
Come pagano sono ben conscio che nel paganesimo i problemi creati dalle religioni monoteiste non esisterebbero. Il paganesimo non è una visione "religiosa" che ha solo cambiato nome. Nel paganesimo non esistono verità assolute, non vi è rivelazione, non vi sono detentori del sacro. Il paganesimo non ha fede e neanche dogmi.
Relativismo è una parola che non gode di molta simpatia da parte dei figli di Abramo, relativismo è una di quelle parole che posso definire il paganesimo.
Il paganesimo non distinge e non pone pone differenze tra il sacro e il profano. Questa sua caratteristica porta i pagani ad essere sempre attenti alle condizioni politiche e culturali delle società in cui si trovano a vivere. Per un politeista mediterraneo l'esempio del comportamento dei cittadini, di due grandi città cone Roma ed Atene, è il modello della partecipazione del cittadino alla vita della società.
Quanto scritto serve a far comprendere il perchè la Federazione Pagana abbia deciso di essere presente, con una sua delegazione, a questo Convegno.
Io, Claudio Simeoni e Ferdinando ci siamo presi l'incario di essere presenti a tutte e due le giornate di convegno.
Invitiamo tutti i pagani e politeisti ad essere presenti a questo convegno e ad impegnarsi a far conoscere questo incontro. Non è difficile immaginare come un simile convegno non goda di "buona stampa".
Non conosco tutti i relatori del convegno. Solo di alcuni dei relatori ho avuto la possibiltà di ascoltarli.
Alcuni di loro, nel tempo, hanno maturato una interessante critica al monoteismo e/o alla sua variante cristiana.
Ci vediamo al convegno.
Francesco Scanagatta
cell. 349 7554994

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Primo Convegno Laico Promosso da Axteismo


Sabato 18 e Domenica 19 Ottobre 2008 inizio ore 9:00
Arpiola di Mulazzo (Massa Carrara) Palestra Comunale
a disposizione ampio parcheggio gratuito
Ingresso libero

Sabato 18 Ottobre mattina:
A causa delle distanze dei paesi da cui provengono i relatori
la scaletta del programma potrebbe subire variazioni negli orari

Giuseppe Carbotti
assistente sanitario
Contraddizioni nei Testi Sacri

Emilio Salsi
cristologo e autore del libro
“Giovanni il Nazireo detto Gesù Cristo e i suoi fratelli”
Analisi storico-critica dei vangeli
www.vangeliestoria.eu

Francis Sgambelluri
professore di lettere autore del libro
“L’Indifferenza divina - Il Testamento di Orazio Guglielmini”
Possiamo, oggi, ancora credere all'esistenza di Dio?
www.francis-sgambelluri.it

Gianni Marucelli
professore e presidente Federazione Nazionale Quadri
della formazione scientifica e della ricerca
L’ambiente nell’ottica di una crescita demografica incontrollata

Segue:
Proiezione diapositive su
“Il nostro regno la Terra”

Pausa Pranzo
Sabato 18 Ottobre pomeriggio:

Nunzio Miccoli
professore e autore dei libri “Il metabolismo cristiano”
e “I fratelli siamesi”
Le repubbliche romane del medioevo
www.clerofobia.it

Giorgio Vitali
professore
La corruzione in Italia

Biagio Catalano
professore, autore del libro “Il Dio ignoto”
Storia dell'Inquisizione
www.alexamenos.it

Attilio Vanini
professore, discendente di Giulio Cesare Vanini
Giulio Cesare Vanini (Lucilio)

Segue:
Proiezione sulle torture praticate
dalla Santa Inquisizione

Domenica 19 Ottobre mattina:

Alessio De Angelis
studente di 14 anni, autore del libro “Giovanni il Galileo”
Origine delle religioni
www.ilritornodigesu.it

Ennio Montesi
scrittore e fondatore di Axteismo,
movimento internazionale di libero pensiero
Un cancro di nome religione
http://nochiesa.blogspot.com

Fiorella Di Stefano
dottore in lettere e studiosa in Storia delle religioni
I Catari

Giancarlo Tranfo
avvocato, cristologo, autore di
“La Croce di Spine
Gesù: la storia che non vi è ancora stata raccontata”
I due Messia
www.yeshua.it

Pausa Pranzo
Domenica 19 Ottobre pomeriggio:

Sergio Martella
psicoterapeuta e scrittore, autore di
“Pinocchio Eroe Anticristiano”
“Il furore di Nietzsche - La nascita dell’eroe e della differenza sessuale”
Psicologia o religione.
Una aporia non una convivenza
www.arte-e-psiche.com

Luigi Cascioli
cristologo e autore dei libri denuncia
“La favola di Cristo” e “La morte di Cristo”
La Chiesa, un gigante dai piedi d’argilla
www.luigicascioli.it

Roberto Romanella
Maria Spagna
attori teatrali di Roma
Lettura scenica: “La favola di Cristo”

Come arrivare al congresso
Ferrovia: da Stazione di Pontremoli ad Arpiola di Mulazzo, 6 km
Con mezzo proprio
per raggiungere Arpiola autostrada Parma-La Spezia uscita a Pontremoli

Pausa pranzo presso Ristorante Manhattan tel. 0187439900
adiacente alla Palestra Comunale di Arpiola di Mulazzo
convenzionato a 10 euro a pasto col seguente menù:
primo: pasta asciutta o lasagne, secondo: fettina o cinghiale, contorni vari

Per eventuale pernottamento segnaliamo gli alberghi:
El Caracol - Via Pineta, Mulazzo tel. 0187539707
La Gerla d’Oro - Loc. Montereggio tel. 0187839318
Il Rustichello - Loc. Crocetta tel. 0187439759
Park Hotel La Pineta - Loc. Gravilla di Groppoli tel. 0187850220

Informazioni sul Convegno:
Luigi Cascioli, tel. 0761910283 - info@luigicascioli.it
Axteismo, mobile 3393188116 - axteismo@yahoo.it

lunedì 13 ottobre 2008

La casta bianca che fa male alla sanità

La Repubblica 13.10.08
Dieci anni dopo il suo primo libro cult, un altro atto d´accusa di Paolo Cornaglia Ferraris Dal business dei ricoveri alla corruzione dell´industria del farmaco fino alle parentopoli
La casta bianca che fa male alla sanità
di Maria Novella De Luca

Viaggio tra i dissesti del Sistema sanitario nazionale, un bene prezioso, un tempo tra i migliori d´Europa, oggi ammalato di una «lottizzazione politica che ha le caratteristiche di un cancro», che si diffonde e avanza con la complicità di una «casta bianca», fatta di medici, amministratori, case farmaceutiche, partiti e Regioni. Dieci anni dopo «Camici e pigiami», Paolo Cornaglia Ferraris, pediatra genovese che con quel libro-scandalo mise a nudo il «sistema» che stava corrompendo (con la complicità dei medici) la sanità italiana, torna a denunciare quanto accade tra le corsie degli ospedali e negli ambulatori delle Asl, ma anche nelle segreterie dei partiti e nelle anticamere dei ministeri.
Qui regna appunto «La casta bianca», (edito da Mondadori, dal 14 ottobre in libreria), e l´inchiesta parte dalle truffe sui ricoveri (la cui durata non sarebbe decisa in base alle esigenze del malato, ma sulla base dei rimborsi delle Regioni), svela i meccanismi di corruzione dell´industria del farmaco, per arrivare all´inestricabile parentopoli che governa le facoltà di Medicina e i Policlinici universitari.
Un vero attacco a quel sistema Sistema Sanitario Nazionale che sarebbe ancora «una grande risorsa per l´Italia - dice Cornaglia Ferraris - con 13mila ricoveri in ospedale ogni anno, oltre 79 milioni di giornate di degenza, 4 milioni e 700mila interventi chirurgici, 1337 strutture ospedaliere pubbliche e private». «Ma questa straordinaria rete, che dal dopoguerra ad oggi ha portato la salute a milioni di persone, ha ridotto ai minimi storici la mortalità infantile, ha conquistato impensabili vittorie contro il cancro, è ormai divorata da un gruppo di potere - aggiunge Cornaglia Ferraris, oggi medico dei bimbi figli degli immigrati clandestini - che in nome di due «principi», denaro e carriera, sta sfasciando tutto».
Ed è al sofisticato meccanismo del fare denaro rubando soldi pubblici che Cornaglia Ferraris dedica uno dei capitoli più interessanti di questo viaggio (allucinante) nei mali della Sanità italiana. Tutto ruota attorno ai rimborsi dei ricoveri e delle prestazioni che gli ospedali o le strutture convenzionate ottengono dalle Asl. Basta falsificarne il numero o moltiplicarne la quantità, al di là delle reali esigenze del paziente, per ottenere flussi di denaro a volte incredibili, come nel recente scandalo della clinica «Villa Pini» di Chieti. Le truffe sono note, eppure reiterate. Spiega Cornaglia Ferraris: «Le tariffe sono diverse a seconda del tipo di ricovero. Quelli con dimissione in giornata o con una sola notte valgono poco. Quelli con due o più notti valgono di più. Dopo un certo numero di giorni, che si chiama valore soglia, scatta un aumento giornaliero che non conviene quasi mai. Ecco svelate le ragioni per cui spesso, dopo dieci giorni, vi buttano fuori, oppure vi dimettono, e vi ricoverano il giorno dopo, un´altra volta».
Il tutto navigando in quella zona grigia di leggi e norme dove l´abuso può essere mascherato da prestazione regolare.
Cornaglia passa poi ad analizzare un altro grande "malaffare" consumato sulla pelle dei pazienti: le prescrizioni (drogate) di farmaci, che il medico somministra seguendo proprie logiche di mercato (regali, premi, tangenti) piuttosto che il reale bisogno dei malati. «Il 60% degli antibiotici viene assunto senza che ce ne sia reale bisogno». Sistema diffuso e corrotto, di cui Big Pharma (il cartello delle multinazionali della farmaceutica) è l´esempio eclatante. «L´investimento maggiore di Big Pharma - scrive Cornaglia - non va in ricerca e sviluppo, bensì in marketing e amministrazione». E citando uno studio americano che mette in luce i rapporti con l´industria aggiunge: «L´83% dei medici riceve pasti gratuiti, il 78% campioni di farmaci, il 35% riceve rimborsi per le spese di partecipazioni a convegni, il 28% percepisce onorari per conferenze o per l´arruolamento dei pazienti nei trial», ossia nei gruppi di sperimentazione dei farmaci.
La situazione italiana sarebbe di poco dissimile, e Cornaglia cita una seconda ricerca (made in Italy) in cui "sono state valutate le prescrizioni di alcuni farmaci prima e dopo che un certo numero di medici era stato invitato a convegni in lussuosi alberghi". Senza parlare della pubblicità che porta all´assunzione di farmaci inutili, la ricerca sponsorizzata, e il lucrosissimo mercato dei brevetti.
Un business enorme, una piaga che si allarga. Perché a tutto questo, presente anche in altri paesi, in Italia si aggiunge la lottizzazione dei partiti, della Chiesa e, addirittura, della Massoneria. I soldi della Sanità vogliono dire infatti appalti, posti di lavoro, carriere nelle aziende ospedaliere, cattedre all´università. E dall´analisi dei "poteri in campo", agli alberi genealogici delle famiglie che di padre in figlio, di parente in parente si tramandano i posti nei policlinici e nelle facoltà di Medicina, attraverso concorsi truccati e dottorati ad personam, ci si sente alla fine di questo viaggio intrappolati in una ragnatela in cui il paziente conta poco o niente.
«Questo non vuol dire che in Italia non ci siano aree sane, professionisti eccellenti - conclude Cornaglia Ferraris, che dopo l´uscita del libro "Camici e pigiami" venne licenziato dall´ospedale Gaslini di Genova - eppure noi oggi rischiamo di perdere un sistema sanitario pubblico buono come quello che ci siamo conquistati negli ultimi 40 anni. L´allarme è forte, bisogna che la gente se ne renda conto. Per questo ho creduto fosse giusto raccontare la parte malata del sistema e non quella sana».

domenica 12 ottobre 2008

Una diga sulle mille isole

Una diga sulle mille isole
di Marina Forti - 10/10/2008
Il Manifesto

Le cascate di Khone, sul Mekong, hanno affascinato gli europei per secoli: fin da quando i primi avventurieri francesi tentarono di risalire in nave il grande fiume indocinese dal delta fino alla Cina, nella speranza di farne una grande via commerciale. L'ostacolo si rivelarono proprio quelle cascate a monte di Phnom Penh, presso l'attuale confine tra Cambogia e Laos, dove il fiume si frammenta in numerosi bracci stretti e pieni di rapide che aggirano una miriade di isole piccole e grandi: non per nulla il luogo si chiama «mille isole», si-phan-don in lingua lao. Tra le due isole maggiori c'è anche quel salto tra i 20 e i 30 metri, le cascate di Khone. Oggi sulle «mille isole» arrivano ancora stranieri: ma solo per godersi le spiagge e la vista dei rari delfini dell'Irrawaddy che ancora popolano il Mekong.
Ebbene, è proprio alle Khone Falls che punta l'ultimo progetto idroelettrico della regione. La diga di Don Sahong è la prima mai progettata sul Mekong vero e proprio, almeno a valle della Cina (decine di dighe sono invece sui suoi numerosi affluenti, soprattutto in Laos). Rientra in un progetto più ampio, perché dalla metà del 2006 i governi di Cambogia, Laos e Thailandia hanno autorizzato aziende dei rispettivi paesi e della Malaysia a esplorare la fattibilità di una «cascata» di ben otto dighe sul corso principale del Mekong. La Don Sahong dunque è (sarebbe) solo la prima ad arrivare alla fase del progetto. E tutto questo con l'appoggio della Mekong River Commission, l'organismo regionale formato dai governi rivieraschi (per la verità solo Vietnam, Cambogia, Laos e Thailandia: mancano la Birmania e soprattutto la Cina, dove il fiume nasce e scorre per quasi metà dei suoi 4.350 chilometri).
Tagliare il Mekong sarebbe probabilmente la fine, per la complessa vita acquatica di questo fiume - a cominciare dalla pesca, una vera e propria industria artigianale da cui dipende la vita di milioni di persone. Il Mekong ha un ciclo stagionale unico: nella stagione delle piogge si gonfia, e l'acqua caduta dal cielo si somma a quella del disgelo dei ghiacciai del Tibet, dove il fiume nasce. Allora straripa e allaga le pianure su cui lascia un ottimo limo. Non solo: il flusso d'acqua è tale, e così rapido, che in Cambogia durante la piena l'acqua del Mekong comincia a risalire un suo affluente, il Tonlé Sap, che inverte così il suo corso fino a riempire l'omonimo lago. Il lago Tonle Sap, il più grande bacino d'acqua dolce nel sud-est asiatico, comincia così a gonfiarsi; finita la piena, l'acqua torna a scorrere verso il Mekong e il suo delta. I pesci hanno un ciclo di vita migratorio che segue queste correnti, e la fine delle piogge è anche la stagione dell'abbondanza della pesca, quando la corrente porta a valle i pesci ben pasciuti. Su questo ciclo si è fondata un'intera civiltà, oltre che un'economia locale fondata sulla pesca e la coltivazione stagionale.
Tutto questo è in pericolo. Gli scogli e le isole che costellano il fiume sono essenziali alla riproduzione del pesce, così come il ciclo stagionale delle piene e delle correnti. La diga tra le Siphondone bloccherebbe il principale canale di passaggio del pesce, oltre a ridurre il flusso d'acqua che crea le cascate di Khone. Il governo del Laos del resto riconosce il valore unico di questo habitat, tanto che ha proposto di includerlo tra le «zone di importanza» sotto la convenzione di Ramsar per la protezione delle zone umide, fanno notare gli attivisti di International rivers, rete di gruppi per la difesa degli ecosistemi fluviali (e di chi vi abita). Sono loro che hanno lanciato una campagna contro la diga.

La cura del mercato

La cura del mercato

Felice Piersanti

Il Manifesto del 01/10/2008

Il governo contro la sanità pubblica, per un modello privato che crea diseguaglianza. Ma anche negli Usa dicono basta

Non solo nella scuola e nella giustizia, ma anche nella sanità la politica del governo si va sempre più delineando come controriformista in modo micidiale. In questi giorni, Berlusconi ha dichiarato che per ridurre le spese della sanità bisogna chiudere gli ospedali e utilizzare le cliniche private. Non è un'affermazione estemporanea, ma la sintesi grossolana di una politica che trova il suo impianto teorico nel Libro verde di Sacconi sul futuro modello sociale presentato in estate. «Una virtuosa alleanza tra mercato e solidarietà» è il succo del Libro verde, che significa in pratica ridurre la spesa pubblica e utilizzare ampiamente i cosiddetti fondi sanitari integrativi.
Le categorie professionali che se lo possono permettere, i giornalisti, i medici, gli assicuratori e così via, oltre ai deputati e senatori, si pagano un'assistenza integrativa che elimina le lacune dell'assistenza pubblica: paga i ticket, assicura ricoveri privilegiati, garantisce specialisti qualificati, talvolta assicura l'assistenza dentistica. Questi fondi non sono più considerati accessori limitati del servizio pubblico, ma come futuro modello sociale; è la fine dell'uguaglianza dei cittadini di fronte al diritto alla salute. Uno spaventoso passo indietro, perché reintroduce l'assistenza differenziata in base al censo, e cioè un servizio pubblico fortemente sottofinanziato e quindi limitato per la maggioranza dei cittadini (una sorta di ritorno al medico condotto per i poveri), le mutue integrative per i cittadini privilegiati e l'assistenza soltanto privata per i ricchi. Livia Turco, commentando nell'agosto scorso sul «Sole 24 ore, Sanità » il piano Sacconi e giustamente, ma timidamente criticandolo, ha tuttavia scritto che «il Libro verde ha l'indubbio fascino della novità». Non è vero: il modello proposto non solo è vecchio, perché torna a principi ingiusti e discriminatori, ma si basa su presupposti errati, puramente ideologici. Non tiene conto dell'esperienza storica fallimentare che sta vivendo il sistema sanitario Usa, basato sul privato, sulle assicurazioni e sulla discriminazione in base al censo e che lascia decine di milioni di cittadini assolutamente privi di assistenza. In un seminario tenuto nel maggio scorso, organizzato dal New England Journal of Medicine dal titolo «Una moderna assistenza sanitaria per tutti gli americani», i relatori hanno sottolineato che i cittadini statunitensi sono insoddisfatti del loro sistema, che costa l'enorme cifra di oltre duemila miliardi di dollari l'anno, il doppio pro capite dei più dispendiosi servizi sanitari pubblici europei, e che perfino i cittadini assicurati hanno spesso una copertura assicurativa inadeguata «che li manda in bancarotta se sopraggiunge una malattia grave». In un recente intervento Obama ha affermato che tutti gli americani dovrebbero avere un'assistenza medica di alta qualità, con la prevenzione al primo posto. Certo, non propone un servizio sanitario nazionale, non ci sono ancora le condizioni negli Stati uniti perché questa parola d'ordine possa affermarsi.
Ma propone che oltre agli anziani e ai poveri anche tutti i bambini siano tutelati con un programma nazionale di assistenza e che comunque si proceda verso la copertura sanitaria dell'intera popolazione. L'idea che il privato garantisca una sanità migliore è del tutto scomparsa dal dibattito pubblico americano. Persiste - come pura ideologia - in Berlusconi e Sacconi. E per scendere nel particolare, la sanità del Lazio è oggi al centro dell'attenzione in Italia. La sua insostenibile situazione attuale è il frutto di decenni di amministrazioni della Dc e dei suoi alleati, in primo luogo l'ex Psi, che hanno determinato una pesante situazione debitoria, di cinque anni di giunta Storace che l'ha fortemente aggravata, e della totale incapacità dell'attuale giunta di centro-sinistra di affrontare la situazione con misure di risanamento e di profondo rinnovamento.
La giunta, trascurando la gravità della situazione, ha proseguito sulla via della lottizzazione, anzitutto dei direttori generali, e del mantenimento di una fitta rete di interessi clientelari basati sugli apparati politici. Si trova adesso di fronte a un governo ostile, che è riuscito ad addossarle tutta la responsabilità del dissesto. In queste condizioni, la chiusura dell'ospedale San Giacomo è stata percepita dalla popolazione come una imposizione dall'alto. Il sistema ospedaliero può essere indubbiamente razionalizzato. In Emilia e in Toscana sono stati chiusi centinaia di posti letto di piccoli ospedali, ma senza atti d'imperio, convincendo la popolazione interessata che il contemporaneo ammodernamento tecnologico di altre strutture può migliorare l'assistenza della popolazione pur se si chiudono ospedali piccoli e vecchi, e soprattutto con l'assoluta trasparenza delle decisioni.
La trasparenza è indispensabile soprattutto se, come nel caso del San Giacomo, alla chiusura può accompagnarsi una grande speculazione immobiliare. Se la trasparenza manca e manca la garanzia che il ricavato della vendita serva a migliorare la sanità pubblica romana, resti il vecchio San Giacomo.

Europa, interventi pubblici e iniezioni di euro. Ma le banche non si fidano più di loro stesse

Europa, interventi pubblici e iniezioni di euro. Ma le banche non si fidano più di loro stesse

Claudio Jampaglia
Liberazione del 01/10/2008

Bastone e carota. L'Europa fa ancora la virtuosa monetaria con gli Usa bacchettando direttamente Congresso e Casa Bianca per il mancato varo del fondo anticrisi: «Il piano vada avanti». La Commissione europea si è spinta ieri a richiamare la «responsabilità particolare» degli Usa nella crisi, invitando le autorità ad agire. Angela Merkel detta pure i tempi: l'Ue si aspetta un varo del piano entro una settimana «condizione necessaria per ripristinare la fiducia dei mercati, cosa di importanza inestimabile» (e capiremo tra poco perché). Da parte sua, la Bce, saluta l'efficacia dell'azione delle autorità pubbliche europee nei casi di Fortis e Dexia, i due ultimi istituti di credito messi al riparo dall'intervento dei governi del Benelux e francese. La preoccupazione della banca centrale europea è quella del limite al soccorso del dollaro. Due giorni fa c'è stato il raddoppio delle linee di scambio monetario fino a 240 miliardi di dollari tra Fed e Bce. Allo stesso tempo la Fed ha autorizzato Europa, Gran Bretagna, Canada, Giappone, Svizzera, Australia e paesi scandinavi a pompare fino a 620 miliardi di dollari di liquidità nel sistema. Il sostengo c'è. Ma ci vuole il piano. Anche perché se non si muovono gli Usa, con un solo governo - sebbene malconcio - come fare a muovere la politica europea?
In attesa che a Bruxelles cerchino la risposta, diversi paesi se la sbrigano da soli. L'aria europea si è fatta densa di preoccupazioni e avvisi di tempesta ai naviganti, così la piccola Irlanda, non potendo contare sulla forza delle proprie riserve, dopo la prima giornata nera per i titoli bancari nazionali, passa al contrattacco: «Il governo irlandese garantirà tutti i depositi bancari per due anni per assicurare la stabilità finanziaria». Un piano immediato che vale per qualsiasi deposito sui conti di Allied Irish Bank, Bank of Ireland, Anglo Irish Bank, Irish Life and Permanent, Irish Nationwide Building Society e Educational Building Society. Il denaro dei contribuenti verrà utilizzato nell'eventualità di qualunque caso di dissesto di uno dei sei gruppi bancari registrati del paese. Garantisce lo Stato. Ad maiora.
Gli Stati, quindi, si muovono. Lo hanno fatto belgi, olandesi e lussemburghesi per Fortis, lo hanno fatto ieri ancora belgi e francesi per Dexia (il più grande istituto di prestiti agli enti locali al mondo) con un'iniezione da 6,4 miliardi di euro in cambio del 50% delle azioni spalmate in diversi istituti di interesse pubblico. E la Borsa apprezza. Dopo le batoste del lunedì più nero da vent'anni, tutti i titoli a rischio risalgono un po' la china. Apprezzamento? Sospiro di sollievo. La vita continua, viva l'intervento pubblico. Vale un po' ovunque nel continente: dall'Islanda che nazionalizza per 600 milioni di euro il 75% del capitale di Glitnir, terza banca del paese; alla Scandinavia con riassetti nel sistema bancario danese (la Roskilde Bank passa a tre banche nazionali dopo un salvataggio governativo) e svedese. Succede anche in Russia, dove lo zar Putin annuncia in tv un prestito di Stato da 50 miliardi di euro tramite "l'istituzione bancaria per lo sviluppo e gli affari esteri": «Qualsiasi banca russa o società si può rivolgere a Vnesheconombank per rimborsare i creditori stranieri su crediti acquisiti prima del 25 settembre». Ad memoriam.
Non succede, invece, in Italia, dove le autorità tengono sott'occhio la situazione, preoccupate, ma niente più. E la Borsa italiana ieri era l'unica al palo in Europa, con Unicredit, sospesa per il secondo giorno di fila più volte dalla contrattazioneche sprofondava a un -12%. «Le conseguenze sul sistema bancario e assicurativo italiano della crisi finanziaria americana rimangono contenute e la situazione di liquidità delle banche italiane è adeguata», dice il Comitato per la salvaguardia della stabilità finanziaria. Insomma, Tremonti, Draghi, Cardia e Giannini ovvero governo, Bankitalia, Consob e Isvap (organismo di controllo delle assicurazioni) stanno alla finestra. L'America è lontana, ma i nostri o stanno dall'altra parte della luna o non ci raccontano tutto. Fiducia, calma e poca trasparenza? Lo sapremo presto.
Anche perché il credit crunch europeo, la stretta del credito che spaventa più di ogni cosa gli operatori finanziari, è ormai innescata. Lo dice un dato semplice e finora secondario: i depositi di istituti di credito presso la Banca centrale europea cresciuti giorno per giorno in queste settimane. Un vero paradosso della crisi che funziona così. Le banche stanno attingendo ai prestiti d'emergenza della Bce. Da giugno le aste dell'autorità monetaria per irrorare di liquidità il sistema creditizio ormai asfittico sono già state 15 a botte di decine di miliardi di euro la volta. E vanno a ruba con richieste del doppio o del triplo. Anche le aste più costose. E' successo l'altroieri con 15,5 miliardi di euro di prestiti d'emergenza della Bce a un tasso di 5,25% (c'erano richieste per 77 miliardi). Ma nell'attuale crisi il timore di prestarsi soldi tra banche e di restare senza fondi è così forte che una volta comprata la desiderata liquidità dalla Banca centrale, gli istituti tornano a depositarla proprio presso l'istituto di Francoforte a un tasso più basso (il 3,25%) di quello che avrebbero sul mercato. 44 miliardi di euro sono già stati messi nella cassaforte della Bce. Un segnale che per molti dovrebbe convincere la Bce a tagliare i tassi. Perché se le banche comprano soldi e li mettono al riparo a un prezzo più basso, vuole dire che decidono di perderci sopra gli interessi, piuttosto che andare sul mercato e prestarli ad altri banche con margini di guadagno più alti, fanno il contrario del loro mestiere. D'altronde in tutto il mondo i tassi interbancari (quelli a cui si prestano soldi le banche tra loro) sono alle stelle. Siamo oltre il 5% per i prestiti a oltre un mese. Una situazione di avversione a qualsiasi rischio oltre l'orizzonte delle 24 ore. E chissà che succede domani? E se le banche non si fidano delle altre banche, non si fidano del mercato, non si fidano dei conti, noi cosa dovremmo pensare?
Anche i fondi comuni (quelli che gestiscono il risparmio di milioni di cittadini) sono in fuga dai mercati monetari globali e si coprono con obbligazioni e titoli di Stato più affidabili. Gli Stati poi emettono titoli per sostenere la propria esposizione proprio nei salvataggi bancari e ancor più per sostenere le banche centrali che continuano a prestare denaro alle banche e sostenere il sistema (l'ultima asta italiana di Btp e Cct per 6.75 miliardi si è chiusa giusto lunedì). E il girotondo si conclude, con noi. Cittadini. Solo che non lo sappiamo ancora.

Perché 700 miliardi, e chi li controlla? Domande nel vuoto

Perché 700 miliardi, e chi li controlla? Domande nel vuoto

Fabrizio Tonello

Il Manifesto del 02/10/2008

«Troppi soldi, con troppa fretta, distribuiti a troppo poca gente, mentre troppe domande rimangono senza risposta»: così Dennis Kucinich, il deputato democratico dell'Ohio, ha motivato il suo voto contrario sul piano Paulson alla Camera dei rappresentanti Usa. Kucinich non era il solo di questa opinione, lunedì scorso: mentre l'attenzione dei media si è concentrata sui 133 taleban del Libero Mercato che strillavano contro il «socialismo in America», poca attenzione è stata rivolta ai 95 deputati democratici (quasi un quarto della Camera) che hanno votato «no» per buonissime ragioni. Kucinich, così come gli altri deputati democratici, hanno fatto una serie di critiche a cui nessuno ha dato risposta - men che meno la timidissima leadership del partito (Nancy Pelosi e lo stesso Barack Obama), che si è fatta zittire dalla pressione di Wall Street e dal ricatto della «catastrofe finanziaria imminente». In realtà, né il Tesoro, né la Federal Reserve, né i deputati che hanno votato «sì» potevano rispondere alle più semplici domande: «Perché ci vogliono 700 miliardi? Come verranno valutati questi crediti cosiddetti tossici?
Da chi, con quali controlli?». Il segretario al tesoro Hank Paulson e il capo della federal Reserve Bernanke non potevano rispondere perché non lo sapevano neppure loro. In particolare, la valutazione dei crediti sarebbe quasi impossibile perché non stiamo parlando di semplici mutui non pagati, seguiti dal pignoramento di una casa. I mutui, buoni e cattivi, sono stati cartolarizzati e trasformati in strumenti finanziari esoterici che gli stessi banchieri non capiscono (e questa è la ragione per cui nessuno presta più a nessuno). Uno straordinario resoconto del New York Times di tre giorni fa spiega come un semplice ufficio a Londra abbia potuto creare una piramide di carta così enorme da far crollare la compagnia di assicurazione americana AIG, che ha dovuto essere salvata in settembre prima che trascinasse nel gorgo anche Goldman Sachs. Brad Sherman, uno dei democratici che si oppongono al piano, spiega come l'inclusione delle banche straniere nell'operazione di salvataggio potrebbe portare a queste conseguenze: «Supponiamo che la Bank of Shanghai abbia $30 miliardi in crediti inesigibili.
Li venderà a una piccola sussidiaria in California, che li rivenderà immediatamente al Tesoro e poi scomparirà nel nulla». George Soros, il miliardario vicino ai democratici, lo ha scritto chiaramente sul Financial Times di ieri: «Due settimane fa, il Tesoro non aveva un piano: per questo ha semplicemente chiesto di essere autorizzato a spendere il denaro». Visto che 700 miliardi di dollari sono una somma con cui si potrebbe far uscire dalla povertà per oltre due anni l'intera popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno, è comprensibile che molti deputati (assediati dai messaggi dei loro elettori) abbiano esitato prima di firmare l'assegno in bianco. Soros, inoltre, spiega che il frettoloso piano, rappattumato per dare un segnale di fiducia ai mercati, ha come obiettivo soltanto quello di lubrificare il sistema finanziario, cioè rassicurare le banche in modo da evitare la strozzatura del credito.
Questo è importante ma non risolve affatto il problema di fondo, cioè la crisi immobiliare: «Il piano fa ben poco per permettere ai proprietari di case di onorare le rate dei loro mutui e non affronta per nulla il problema dei pignoramenti». Eppure, il nodo di tutta la questione sta lì: il sistema finanziario americano può salvarsi soltanto se vengono create le condizioni perché i «debitori finali» possano pagare. Magari poco, magari su tempi più lunghi, ma pagare. Se le famiglie perdono le case e queste vengono rimesse sul mercato dalle banche, semplicemente non ci saranno compratori e le perdite diventeranno catastrofiche. Nel medio periodo, solo una ripresa del mercato immobiliare può salvare tanto la finanza quanto l'economia reale. Ci sono altre idee? Soros, per esempio, propone un approccio più coerente: invece di comprare i debiti inesigibili, il governo dovrebbe usare i propri fondi per ricapitalizzare le banche, diventandone parzialmente o totalmente proprietario.
Questa iniezione di capitali attirerebbe anche investitori privati (tranquillizzati dalla presenza dello Zio Sam) e accelererebbe la ripresa. Uno schema simile, adottato in Svezia negli anni Novanta, salvò il sistema bancario sostanzialmente a costo zero per i contribuenti, perché il governo riuscì, qualche anno dopo, a rivendere le proprie partecipazioni azionarie con profitto. Naturalmente, per gli Stati Uniti, questa sembra un'eresia, ma anche tra molti deputati democratici e numerosi economisti si fa strada l'idea che il piano debba prevedere una partecipazione al capitale delle banche e non l'acquisto dei loro crediti. La versione del piano su cui il Senato avrebbe dovuto votare ieri sera (troppo tardi perché il manifesto potesse riferirne) prevedeva un aumento delle garanzie sui depositi bancari e altri miglioramenti cosmetici per convincere i repubblicani, ma nulla che indicasse un'impostazione diversa o un tentativo di rispondere alle critiche di Kucinich, di Soros e di 200 economisti. La conclusione più preoccupante (anche per l'economia mondiale) è che in questo momento gli Stati Uniti sono senza governo, senza parlamento e senza istituzioni in grado di evitare, con una politica coerente e decisa, l'aggravamento della crisi.

Il mercato in difficoltà e lo stato interventista

Il mercato in difficoltà e lo stato interventista

Riccardo Bellofiore

Il Manifesto del 05/10/2008

Nei commenti di queste settimane non ci è stata risparmiata la sequela di argomentazioni tranquillizzanti: crisi passeggera; non si può fare a meno della finanza; le banche europee sono al riparo; il vecchio continente, ancora manifatturiero, ne uscirà rafforzato; l'Italia può contare sulle medie imprese multinazionali. Peccato che questa finanza ci abbia portato sulle soglie di una nuova Grande Crisi. Che le banche europee abbiano aggirato la regolamentazione per garantirsi più elevati rendimenti. Che lo sganciamento dell'Europa dagli Usa si sia negli ultimi mesi sgonfiato come una favola. Che i pochi spezzoni vitali del nostro apparato produttivo siano fragilissimi e dipendenti dalla congiuntura. Certo, è finito un mondo. Il punto non è quello di capire il «perché» di breve periodo. Si tratta di capire come se ne esce. Meglio, come ne uscirà il capitale. Senza fermarci alle verità ovvie: socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti; la crisi verrà pagata dal mondo del lavoro. E senza saltare sul carro del solito Tremonti colorato «di sinistra», quando si ha a che fare con un neoliberismo compassionevole dai tratti fascistoidi e reazionari, incluso il protezionismo.
Su queste colonne, un anno fa, segnalavo come lo scoppio della bolla immobiliare abbia visto il ritorno di un Minsky moment, di un punto di svolta superiore nel ciclo dell'instabilità finanziaria. La «nuova economia» si è nutrita di una convenzione Greenspan. La politica monetaria spingeva verso l'alto le «attività» (azioni, case), il che ha rafforzato l'effetto leva. Si ampliava l'indebitamento delle famiglie, a sostegno di un consumo «autonomo» da effetto ricchezza. E si forniva domanda ai neomercantilismi forti (come quelli asiatico e tedesco) e deboli (come quello italiano). Un sistema bancario ombra, ma interconnesso con le banche vere e proprie, poteva fornire moneta senza limiti, mentre la riduzione della disoccupazione di lavoratori «traumatizzati» non si traduceva in pressione sui salari.
A un certo punto, come nella poesia di Yeats, «le cose si dissociano, il centro non può reggere». La bolla scoppia, si rischia la deflazione da debiti. Dietro l'illiquidità fa capolino l'insolvenza, le relazioni interbancarie si bloccano. Facile prevedere i ripetuti interventi delle banche centrali come prestatrici di ultima istanza, e la politica di bassi tassi d'interesse, da parte almeno della Fed. Da marzo/aprile c'è stato un cambio di passo. Il Minsky moment si è mutato in un Minsky meltdown, in un collasso vero e proprio. Per lo spettro dell'insolvenza, sempre più operatori finanziari devono svendere attività: ma se lo fanno tutti, questo non aiuta i bilanci, li affossa. L'acceleratore finanziario è diventato un deceleratore finanziario. Quando il problema non è l'illiquidità, il prestatore di ultima istanza non può bastare. Lo si inizia a vedere con la prima crisi Bear Sterns. La Fed accetta come collaterale dei suoi prestiti titoli che sono cartaccia, e inizia a rifinanziare banche d'investimento non soggette a regolamentazione. E' evidente a questo punto che la politicizzazione della finanza ha fatto un salto, e che è solo il primo passo.
Mentre l'economia reale entra in fibrillazione, si deve nazionalizzare, direttamente e indirettamente, sia la finanza che l'immobiliare: i due pilastri della crescita Usa, dunque mondiale. La Fed prende il ruolo implicito di assicuratore e azionista ultimo, spalleggiata dal Tesoro. Anche questo non è però sufficiente. Lo stato deve acquistare direttamente i titoli «tossici». In questi giorni si sta proponendo che sia lui in prima persona a ricapitalizzare le banche, a diventarne esplicitamente azionista. Fed e Tesoro devono già oggi decidere chi vive e chi muore, in un sistema soggetto a un pesante consolidamento. Schizza ovunque verso l'alto il premio da pagare in eccesso al tasso di interesse di base, e si comprime il credito alle famiglie. Una profonda recessione a breve/medio termine seguita da una bassa crescita, e un razionamento del credito con più alti tassi d'interesse, è il futuro che possiamo attenderci: non solo negli Stati Uniti.
Inutile prendersela con Bernanke. Studioso della Grande Crisi, teorico dell'acceleratore finanziario, sa che la politica monetaria deve essere diversa nelle fasi espansive e in quelle di crisi. Ha fatto quel che ha potuto. Non ce la fa perché non ce la può fare: perché i problemi della finanza affondano nelle contraddizioni dell'economia reale. E' per questo che non valgono granché i buoni consigli di chi, soprattutto i social-liberisti, intona le lodi di migliore regolazione e più stretta vigilanza, e vuole riregolamentare. Ottime parole, buone nei tempi di crisi, e presto dimenticate quando le cose vanno bene.
Il problema di fondo è che il rischio sistemico globale della finanza viene dall'attacco al lavoro degli ultimi decenni. La finanza sregolata, ma politicamente governata, è stata il modo singolare ma efficace per rispondere alla tendenza alla stagnazione da domanda che è l'altra faccia della precarizzazione del lavoro. Non è un problema di instabilità finanziaria: è un problema di domanda effettiva, che nasce dalla organizzazione della produzione, e del lavoro al suo interno. Il paradossale «keynesismo» trainato dalle bolle speculative è oggi al capolinea. La crisi di questo meccanismo obbligherà a trovarne altri: a ricostruire da cima a fondo circuiti monetari, governo macroeconomico, equilibri internazionali.
Il verso successivo di Yeats recita: «e la pura anarchia si rovescia sul mondo». Non ci conterei. Scommetterei piuttosto su una buona dose di mano visibile. Non necessariamente benevola, sia chiaro. Invece di discutere di Stato e mercato, quando è fuori discussione che lo Stato non può che aumentare la sua presa sull'economia, sarà forse il caso di organizzare una resistenza, ma anche di riprendere davvero i temi di un intervento politico nell'economia diverso da quello che il prossimo futuro ci riserva.

Basterà un pacchetto da 850 miliardi di dollari? I tanti dubbi dei mercati

Basterà un pacchetto da 850 miliardi di dollari? I tanti dubbi dei mercati

Francesco Piccioni
Il Manifesto del 05/10/2008

Sorpresa. Il «piano di salvataggio dei mercati» non ha convinto i mercati. Ingrati... E dire che il Congresso statunitense ha fatto veramente di tutto, al massimo dell'efficienza possibile. Senza ironia: bocciatura di un primo testo alla Camera lunedì, revisione approvata al Senato mercoledì e approvazione definitiva, nuovamente alla Camera, venerdì; a larga maggioranza.
Cosa c'è che non va? Niente, probabilmente. Il voto era dato per scontato, in un certo senso. E chi aveva guidato i listini verso l'alto, nel mentre la Camera votava, ha colto l'attimo per realizzare i guadagni non appena la maggioranza è stata raggiunta. Il dato da spiegare è perché si sia passati da un +3% a un meno 1,5: quasi cinque punti in meno di un'ora e mezza di contrattazioni farebbero parlare, in un altro momento, di tragedia imminente.
Così non è. Ma i problemi sono molto più grandi di quel che gli 850 miliardi di dollari stanziati possono risolvere. Questo è il vero messaggio che Wall Street ha mandato al mondo con la chiusura di venerdì sera (che ha sorpreso anche noi, giustificati solo dal fatto che chiudiamo il giornale quasi un'ora prima del Dow Jones). La domanda è perciò: il «piano» funzionerà o no?
Inutile rispondere con l'ideologia (esempio: Bush che giura - ora! - di «credere nell'intervento del governo solo nei momenti di necessità»). Bisogna fare i conti, ossia soppesare i numeri. Per fa fronte alle voragini apertesi nei bilanci delle banche Usa, quegli 850 miliardi sono una buona massa di manovra (150 andranno però in sgravi fiscali decennali, mirati a settori e aree geografiche, come avveniva solo nelle «leggi finanziarie» della vecchia Dc). Ma paragonati ai 61.000 miliardi di dollari dei credit default swap (una sorta di scommessa che dovrebbe «assicurare» dai fallimenti altrui) sono una goccia nel mare. E lo scopo principale del pacchetto è quello di far acquistare dallo stato usa quei titoli «tossici» che nessuno vuol più comprare.
Ma chi stabilisce cosa comprare e a che prezzo? E' previsto che vengano presi dei broker dalle banche d'affari (ce ne sono molti a spasso, in queste settimane), opportunamente «rieducati» ai fini della salvaguardia del bene pubblico. Il tutto sotto la sorveglianza del ministro del tesoro, Henry Paulson. Non proprio una garanzia, secondo molti osservatori. Per Stephen Shore, della John Hopkins University, «preoccupa che questa scelta si trovi nelle mani di un ex numero uno di Goldman Sachs», come Paulson. Goldman Sachs era fino a qualche giorno fa la regina delle banche di investimento Usa, la prima del mondo; ovvero una capofila della speculazione. Ora è in cerca di qualcuno che se la compri, accettando anche di essere declassata a comune banca commerciale. Di lì proviene del resto - come numero due - anche Mario Draghi, attuale governatore della Banca d'Italia.
Il «pacchetto» è di fatto un regalo grandioso per la speculazione finanziaria; ovvero per le banche che avevano creato un «mercato parallelo del credito», fuori bilancio. In Europa la cancelliera tedesca, Angela Merkel, non ne vuol sentir parlare, sostenendo che «chi ha provocato la crisi deve pagare». Del resto, anche gli analisti Usa - facendo i conti - spiegano che questo «piano» non avrà alcuna utilità per le famiglie strozzate dai mutui. Nei prossimi mesi, è calcolato, circa il 40% di loro (quasi 20 milioni di famiglie) si troverà a fare i conti con un mutuo assurdo rispetto al valore dell'immobile acquistato. C'è già un esempio popolarissimo: la signora Addie Polk, 90 anni, di Akron, Ohio. Ha cercato di suicidarsi con un colpo di pistola, mercoledì scorso. mentre il Senato votava.

Vicenza dice no alla base: «Ora il governo ci ascolti»

Vicenza dice no alla base: «Ora il governo ci ascolti»

Orsola Casagrande

Il Manifesto del 07/10/2008

Alla fine, è quasi mezzanotte, il sindaco di Vicenza, Achille Variati, prende in mano il microfono. «Quello a cui abbiamo assistito - dice - è uno straordinario esempio di democrazia. Ora il governo ci ascolti. Perché è un messaggio che non parla solo alla città ma anche all'intero paese e che fa capire quanto sia sbagliato non permettere alla gente di espimersi su ciò che li riguarda. I miei cittadini - conclude - sono stati costretti a esprimersi votando sui marciapiedi invece che nelle scuole che sono state negate».
Domenica a Vicenza hanno votato nella consultazione autogestita ventiquattromila persone, il 28,56% degli aventi diritto. Una prova straordinaria di democrazia, come la definisce anche Cinzia Bottene, consigliera comunale di Vicenza Libera. Una risposta straordinaria a chi, nel governo, pensava di poter imbavagliare i cittadini. Il 95% dei votanti si è espresso contro l'uso militare dell'area del Dal Molin che gli americani con il placet del governo italiano vorrebbero trasformare in base militare. Miopi e volutamente tali, i signori della guerra hanno subito voluto commentare i risultati della consultazione popolare. E hanno sottolineato con scherno quella che per loro è stata una bassa partecipazione.
«Variati dovrebbe dimettersi», dicevano quelli del comitato per il sì alla base. E il governatore del Veneto, Giancarlo Galan, non ha perso l'occasione per tornare a criticare e sbeffeggiare Variati e la «sua giunta del no». Commenti che rivelano lo sprezzo di questi governanti o sedicenti tali per la gente. Per i cittadini, per la democrazia, per il diritto a esprimersi nessun rispetto.
Ma in questo senso ancora più esemplari (e vergognose) le parole del commissario straordinario per il Dal Molin Paolo Costa. «I risultati sono - scrive il commissario in un comunicato stampa - coerenti con le mie attese. Ma fa piacere vedere certificato, sebbene in maniera impropria, che il 72% dei vicentini non si oppone al rispetto degli impegni assunti dall'Italia in sede internazionale con la decisione di ampliare la base Usa a Vicenza. Adesso, - continua - e in nome della democrazia garantita e garante dello stato di diritto, mi attendo che l'istituzione comune riprenda un cammino di leale collaborazione con le altre istituzioni dello stato».
Cinzia Bottene risponde al commissario sottolineando che «sorprende che chi ha definito inutile una consultazione comunale in spregio della democrazia oggi si appropri di quel 72% che non ha votato sostenendo che è a favore della base Usa. Ancora una volta Costa truffa la gente». Il sindaco Achille Variati si limita a commentare che «chi vuole criticare questa giornata di democrazia organizzi un'altra consultazione e porti altrettanti vicentini a votare».
Rimane invece il dato di quei ventiquattromila cittadini che a votare ci sono andati. Fin dalle prime ore della mattina, con code in alcuni dei seggi improvvisati sui marciapiedi. I gazebo allestiti in due e due quattro, con centinaia di volontari che si sono improvvisati scrutatori e osservatori per garantire il regolare svolgimento delle operazioni di voto. E poi alla sera, al media center allestito in piazza Castello, centinaia di vicentini hanno deciso di buttare un occhio per vedere come andava lo spoglio. «E' stata davvero una prova straordinaria di democrazia - dice ancora Bottene - in un momento in cui gli spazi di democrazia vengono sempre più ristretti». La partecipazione è stata «incredibile specialmente se pensiamo che è stato tutto organizzato in tre giorni. I cittadini - conclude - hanno dimostrato grande civiltà e voglia di partecipare. A Vicenza si sta sperimentando con in fatti quello che tanti esprimono solo a parole: federalismo, autonomia locale e democrazia partecipata».
Il dopo consultazione è tutto da costruire. Ma per il sindaco Variati «né il governo né gli americani potranno ignorare il parere dei cittadini vicentini. Cosa succederà ora? - insiste - possiamo riprendere il dialogo oppure possiamo essere ignorati. Ma se fossimo ignorati non vorrei che le prossime risposte arrivassero anziché dal sindaco, dal prefetto e dal questore di fronte a disordini».

La crisi globale divora il colosso dei mutui

La crisi globale divora il colosso dei mutui

Guido Ambrosino

Il Manifesto del 07/10/2008

La crisi internazionale delle banche, che in Germania sconquassa la Hypo Real Estate (Hre), banca di Monaco specializzata in prestiti ipotecari nel settore immobiliare, si è rovesciata sulla borsa di Francoforte. Le azioni delle principali società considerate dall'indice Dax hanno perso il 6% del loro valore. Il Dax è sceso a 5447 punti, la quota più bassa negli ultimi due anni.
A tirare il ribasso proprio le azioni della Hre: i suoi titoli sono crollati del 35% a 4,86 euro. «Il mercato teme che gli interventi di salvataggio concordati non bastino. Non ci si fida più di quel che le banche dicono sulle loro perdite e sui loro rischi di bilancio», commenta un operatore. Quanto ai manager della Hre o non conoscono nemmeno loro le vere dimensioni dei buchi, o questi si allargano giorno dopo giorno. In un caso o nell'altro la crisi sembra fuori controllo. Il 29 settembre il governo federale e l'associazione delle banche erano intervenuti con un pacchetto di 35 miliardi di euro a sostegno della Hypo Real Estate: il governo avrebbe garantito prestiti per 26,5 miliardi, le banche per 8,5 miliardi. Ma il piano di salvataggio non ha tenuto nemmeno una settimana. Domenica scorsa si è capito che i soldi non sarebbero bastati e si è deciso, in una riunione d'emergenza, di aumentare il volume dell'aiuto di 15 miliardi, per un totale di 50 miliardi. L'importo verrà immediatamente messo a disposizione dalla Bundesbank. In seguito le banche private subentreranno alla Bundesbank con crediti privati, garantiti da azioni della Hre. Alla riunione notturna hanno partecipato, assieme al ministro delle finanze Peer Steinbrücki, il presidente della Bundesbank Axel Weber e Jochen Sanio, responsabile della Bafin, istituto di vigilanza sulle banche.
Secondo alcuni la situazione della Hre è rapidamente peggiorata in seguito al declassamento delle valutazioni sulla sua affidabilità, cui avrebbe contribuito involontariamente anche il ministro delle finanze Steinbrück, parlando all'inizio della crisi di «liquidazione controllata» dell'istituto. Secondo altri si sono invece trovati nuovi rischi nei bilanci della Hre. Voci e indiscrezioni si accavallano. Il buco «vero», si vocifera, sarebbe di 60 miliardi di euro, e potrebbe aumentare a 70-100 miliardi nel corso del 2009. Il ministro delle finanze ora se la prende con i manager della Hypo. Per Steinbrück è «impensabile» che i responsabili della crisi della banca restino al loro posto. Vacillano dunque le poltrone del presidente della Hre, Georg Funke, e di Kurt Viermetz, presidente dell'organismo di controllo della società. Ma la punizione di due dirigenti certo non basterà a ristabilire la fiducia nel sistema bancario. Consapevole dell'ampiezza della crisi, domenica la cancelliera Angela Merkel ha promesso una garanzia statale su tutti i conti e depositi privati presso le banche: «Diciamo alle risparmiatrici e ai risparmiatori, che i loro depositi sono al sicuro». L'intento è quello di evitare reazioni di panico.
Già esistono meccanismi di garanzia. Un fondo obbligatorio delle banche garantisce, in caso di insolvenza, il rimborso del 90 per cento dei depositi, fino a 20 mila euro per ogni risparmiatore. Per il restante dieci per cento scatta un'assicurazione volontaria, fino al 30% del capitale della banca insolvente. Almeno in teoria, il piccolo risparmiatore è tutelato. L'ulteriore garanzia dello stato fino all'ultimo euro senza limiti di importo dovrebbe piuttosto rassicurare i grossi capitali.

Mutui, bufera in arrivo per tre milioni e 200mila

Mutui, bufera in arrivo per tre milioni e 200mila

Enrico Cinotti *

Liberazione del 08/10/2008

Non c'è solo il segno meno a regnare sulle Borse scosse dalla crisi dei mutui. L'Euribor, il tasso interbancario sul quale si calcolano le rate dei prestiti-casa a tasso variabile, è l'unico indice contraddistinto da un segno più. Ma non è certo un segno positivo, visti i riflessi sulle tasche dei mutuatari. Soltanto ieri, l'Euribor a tre mesi, è arrivato a quota 5,38% quando a fine settembre lo stesso indice era fermo al 5,06%. Anche l'Euribor a un mese, molto in voga nei mutui accesi in Italia, ha raggiunto i livelli elevatissimi portandosi in pochi giorni al 5,13%.

Effetti sulla prossima rata
Gli effetti immediati della bufera finanziaria, dunque, si riverseranno, ancora una volta, sulla prossima rata di chi ha acceso un mutuo a tasso variabile. Parliamo di circa 3 milioni e 200mila italiani per i quali, calcolano Adusbef e Federconsumatori, dal 2005 ad oggi gli aumenti delle rate hanno raggiunto 220 euro mensili in più da pagare.
Basta pensare che, su un finanziamento per l'acquisto di casa di 100mila euro (che è il minimo, tra quelli generalmente richiesti) ogni rialzo dell'Euribor di un quarto di punto corrisponde a 15 euro in più da tirar fuori a fine mese.

C'è chi spera nella Bce
E c'è da giurare che la corsa non si esaurirà a breve. A meno che, la Banca centrale europea, come chiedono da più parti, intenda mettere mano a un taglio dei tassi di riferimento.
Difficile, tuttavia, da prevedere al momento. Anche perché la scarsa liquidità nelle casse degli istituti di credito, rende il denaro più raro e dunque anche più caro. E questo perché, sullo stesso tasso interbancario, vengono regolati i "prezzi" dei prestiti tra gli istituti di credito. E in questo momento la banca cerca di tener "blindata" la propria cassa per renderla più "liquida" possibile.

Contrazione del credito
Questo porterà a una contrazione del credito in Italia? Al momento gli istituti di credito sono sicuramente molto più guardinghi nei confronti dei clienti di qualche mese fa.
Racconta Roberto al Salvagente , 136mila di mutuo sulle spalle, acceso nel 2003 con un tasso variabile: «Se all'inizio pagavo 345 euro di rata ora per effetto di cinque anni di rialzi la mia rata è schizzata a ben 550 euro. Sto provando a trasferire il mio prestito presso un altro istituto. Ma non è facile. In poche settimane le offerte di surroga si sono fatte sempre meno convenienti».
Ancor più complicata è la situazione legata agli investimenti. Se per i depositi - conti correnti, libretti di risparmio e assegni circolari - in caso di fallimento della banca la garanzia offerta in Italia dal Fondo interbancario di tutela dei depositi è di 103.291,38 euro (ben superiore alla media Ue dove ieri i ministri europei all'Ecofin hanno deciso di innalzare il tetto da 20mila a 50mila euro), le stesse garanzie non valgono per le azioni, obbligazioni, fondi comuni di investimento e polizze-vita.

Si guarda di nuovo ai titoli di Stato
Come difendersi? È il momento di guardare senza dubbio ai titoli di Stato, ma soprattutto è il caso, per chi ha ancora denaro da investire, di diversificare gli investimenti stessi. Scommettere tutto in un unico titolo, anche se emesso da uno Stato solido, non è mai consigliabile.
L'esempio del default dei bond argentini sarebbe fin troppo facile da avanzare. Non dimentichiamo, però, che gli stessi titoli Lehman Brothers, fallita il 15 settembre scorso, avevano un rating, ovvero un grado di solvibilità (che è la capacità di restituire il capitale a scadenza) ben superiore a quello che tutt'oggi le agenzie internazionali riconoscono allo Stato italiano.

* "Il Salvagente"

Il Fondo monetario:«La peste finanziaria costerà 1400 miliardi»

Il Fondo monetario:«La peste finanziaria costerà 1400 miliardi»

Roberto Farneti

Liberazione del 08/10/2008

Costerà almeno 1.400 miliardi di dollari il «terremoto» finanziario «senza precedenti» che sta investendo i mercati di tutto il mondo. L'ultima stima, «significativamente più alta» di quella resa nota ad aprile, è del Fondo monetario internazionale, secondo cui finora sono emerse soltanto il 55% delle perdite potenziali conosciute. Un terremoto che ha costretto gli Stati Uniti, patria del liberismo, a varare un piano da 700 miliardi di dollari per salvare le banche americane, infettate dalla peste dei mutui ad alto rischio. Ieri il presidente americano George W. Bush si è detto disponibile a partecipare ad un summit del G8 dedicato alla crisi finanziaria.
Nel frattempo l'epidemia ha già varcato l'oceano. Dopo la giornata drammatica vissuta lunedì scorso dalle borse europee, con 450 miliardi bruciati nel giro di poche ore, anche il Vecchio Continente ora prova a correre ai ripari. Ieri i 27 ministri delle Finanze europei si sono riuniti a Lussemburgo per esaminare la situazione, ma sulle ricette da adottare si sono divisi. L'idea di istituire un fondo Ue per salvare le banche - sostenuta da Italia, Francia e Olanda - non è passata anche per l'opposizione della Germania. Alla fine i ministri dell'Ecofin hanno dovuto accontentarsi di sottoscrivere «dei principi comuni Ue». Come l'impegno «ad assicurare sostegno a tutti i maggiori gruppi finanziari in caso di difficoltà, onde evitare la possibilità di una crisi generalizzata del sistema». Inoltre è stato raggiunto un accordo per innalzare da 20mila ad almeno 50mila euro la soglia minima di garanzia dei depositi bancari in caso di fallimento di istituti di credito europei. In molti Paesi, però, la soglia sarà di 100mila euro, come è in Italia.
Dall'Ecofin arriva però anche uno stop agli "stipendi d'oro" e alle buonuscite miliardarie. Come annunciato dal ministro delle Finanze francese, Christian Lagarde, il documento finale approvato ieri raccomanda, come principio generale, che il sostegno pubblico dato alle banche a rischio di fallimento sia di natura temporanea e che i governi non sprechino soldi dei contribuenti. «Gli azionisti presenti nel capitale delle banche - dice la nota - dovrebbero sopportare le conseguenze del loro operato e dell'intervento pubblico», con la possibilità per i governi di revocare i vertici della banca. «I fallimenti» dei manager bancari, ha ammonito il ministro delle Finanze olandese, Wouter Bos, non devono essere ricoperti d'oro.
Ieri le borse europee hanno avuto un andamento altalenante. Alla fine Milano ha chiuso cedendo lo 0,91%, ma alcuni titoli, come la Fiat, sono stati sospesi per eccesso di ribasso.
Intanto il Fmi avverte: «Le tensioni che affliggono il sistema finanziario globale dovrebbero tradursi in un ulteriorie rallentamento della crescita mondiale e in un freno alla ripresa». Mentre le imprese invocano un taglio dei tassi d'interesse (lo ha fatto ieri la Confindustria italiana), la Banca centrale europea continua a fare orecchie da mercante. Ieri il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, si è limitato a dire che il compito di Francoforte «è di garantire liquidità al sistema» e che la Bce «non può intervenire in caso di problemi di solvibilità». Scuote la testa Paolo Ferrero, segretario del Prc, secondo cui è l'ora di portare la Bce «sotto il controllo del Parlamento europeo».
Chi rischia di essere messo in ginocchio dalla crisi è la piccola Islanda, con i suoi 300mila abitanti. Qui, infatti, il peso del settore finanziario è sette volte più grande del Prodotto interno lordo. Il primo ministro conservatore Geir Haarde ha confessato che il Paese «rischia la bancarotta». Lunedì scorso la corona ha subito una svalutazione del 30%. Per evitare il peggio, il governo islandese ha nazionalizzato il secondo istituto di credito, la Landsbanki, ed ha bussato alla porta della Russia per chiedere un prestito di 4 miliardi di euro.

Garanzia dei conti a carico dello stato

Garanzia dei conti a carico dello stato

Francesco Piccioni

Il Manifesto del 09/10/2008

Il governo si è infine mosso. Per ultimo, come chi è a corto di idee proprie. E ricalcando quanto già fatto - e autorizzato - dai «colleghi» dell'Ecofin solo il giorno prima.
Scriviamo scontando il fatto che - alle 21,30 - siamo costretti a chiudere il giornale; prima, cioè, che le «indiscrezioni» ampiamente diffuse durante tutta la giornata di ieri diventassero ufficiali.
Alle 20 era stato annunciato un consiglio dei ministri straordinario per varare un decreto legge per «stabilizzare il sistema finanziario e tutelare il risparmio». A quell'ora, però, l'estensore materiale del provvedimento - il ministro dell'economia Giulio Tremonti - era salito al Quirinale per anticipare al presidente della Repubblica il contenuto del provvedimento. Una volta tanto non ci potevano esser dubbi sui requisiti di «necessità e urgenza». Il problema sta tutto nel contentuto, da scoprire domani.
In mattinata Tremonti aveva riunito i numeri uno dell'Abi (l'associazione delle banche), di Bankitalia e di Confindustria. Oggetto ovvio dell'incontro: che facciamo, a questo punto? Una riunione in flagrante conflitto di interessi (Bankitalia è formalmente posseduta pro-quota da numerose banche italiane, mentre molti industriali sono presenti nel pacchetto azionario delle banche e viceversa).
Da questo primo giro emergeva una sola certezza: la garanzia pubblica per i depositi bancari (i conti correnti) fino a 103mila euro. Per i correntisti non cambia molto. La misura era stata decisa all'indomani del crack Sindona (nell'87), affidata però a un fondo privato finanziato dalle stesse banche. I primi 20.000 euro erano esigibili immediatamente, mentre il resto poteva essere recuperato da lì a 12 mesi. Allora esistevano le «banche di interesse nazionale», di fatto statali; oggi, con la crisi esplosiva in atto, c'era il rischio che questo fondo potesse andare perso nei fallimenti di uno o più istituti rilevanti. La «protezione pubblica» introduce un elemento di garanzia in più. Ma era proprio il minimo della pena, per un governo. Il fondo stanziato - 20 miliardi - non è gigantesco. Più propagandistica che reale, infine, la promessa di una «garanzia illimitata» sui depositi. Non tanto per oggettivi limiti di impegno delle casse statali, quanto per la struttura stessa del risparmio italiano: chi mai tiene oltre 100mila euro «liquidi» nel proprio conto? Una parte sostanziale del risparmio, vogliamo dire, se ne va in bot o cct (ovvero in titoli emessi e garantiti dallo stato).
Quello inglese - le cui decisioni peraltro Tremonti dice di condividere - ha fatto ben altro, «entrando» nell'assetto azionario delle prime 8 banche del paese; se non una nazionalizzazione, certo qualcosa che le va vicino. Una mossa decisa, che mette la «leva del credito» in mano al governo; ma che perciò lo investe in prima persona, senza ipocrisie, della responsabilità della politica economica di quel paese.
Il centrodestra italiano non osa tanto. Non sappiamo se per timore di vedersi indicato come responsabile dei prossimi - sicuri - fallimenti; oppure se per semplice sottovalutazione della situazione. Vedremo. Di certo il neoliberismo è scomparso dalla scena in poche ore. L'Unione europea non considera più «illegittimi» gli aiuti di stato. Purché siano diretti alle banche, e non alle imprese industriali (strano criterio; e indifendibile, quando la crisi si sarà trasferita seriamente sull'economia reale).
Il cdm è stato comunque brevissimo (è lo stile del premier: non si deve discutere, solo approvare). Tra le novità rilevanti quella della possibilità, per il ministero del Tesoro, di comprare azioni privilegiate della banche, ma senza diritto di voto (senza perciò interferire con la governance della banca, anche quando questa dovesse risultare suicida). Per il resto Berlusconi si è prodotto nel solito spot «tranquillizzante», con uan raffica di sorrisi e di appelli tipo «italiani, state sereni», o «non c'è nessuna preoccupazione da avere», aggiunge. «Lo diciamo con totale serenità».
Viene da invidiare gli americani, che almeno hanno un ministro del tesoro, Henry Paulson, capce di dire loro almeno parte della verità: «ci saranno altri crac».

«La vita a credito è attraente come nessuna altra droga»

«La vita a credito è attraente come nessuna altra droga»

Susanna Marietti

Liberazione del 10/10/2008

Zygmunt Bauman professore emerito di Sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia

La crisi dei mercati finanziari è una crisi globale e nazionale. E' una crisi che mette in discussione il sistema capitalistico nel suo complesso e le abitudini più radicate dei singoli cittadini. Che mette in discussione il modo stesso in cui si sono costruite la finanza e l'economia negli ultimi decenni, dal reaganismo in poi. Una finanza e un'economia slegate dalla produttività e dal mondo del lavoro, che tuttavia hanno avuto l'ambizione di guidare i processi politici e di arrivare perfino a valutare i lavori delle amministrazioni statali e locali. La crisi di oggi è stata giudicata paragonabile a quella del 1929. Qualcuno l'ha definita ancora più grave. Ne abbiamo parlato con Zygmunt Bauman sulle colonne de Linkontro.info .

Professor Bauman, lei afferma che la sola autentica soluzione alla situazione attuale consista nell'andare alle radici del problema. Cosa intende dire con ciò? Si riferisce a un cambiamento culturale globale o a misure politiche specifiche?
L'attuale panico del credito offre una straordinaria dimostrazione di cosa in politica dovrebbe significare, ma spesso non significa, andare alle radici. L'odierno credit crunch non è una conseguenza del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del loro incredibile successo, pienamente prevedibile sebbene per molti inaspettato: successo nell'aver trasformato un'enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una razza di debitori. Debitori per sempre, dal momento che la condizione di essere in debito è stata resa auto-perpetuante, e altri debiti vengono indicati come l'unica soluzione realistica ai debiti pregressi. Incorrere in tale condizione debitoria è recentemente diventato facile come non mai nella storia umana, mentre uscirvi non è mai stato così difficile. Chiunque può diventare un debitore, e milioni di altri che non potrebbero e non dovrebbero essere attirati dall'indebitamento sono già stati allettati e sedotti da esso. E così come la scomparsa di gente scalza significa problemi per le industrie di scarpe, allo stesso modo la scomparsa di gente senza debiti significa disastro per l'industria del prestito. La famosa previsione di Rosa Luxemburg si è avverata ancora una volta: comportandosi come un serpente che si morde la coda, il capitalismo si è di nuovo pericolosamente avvicinato al suicidio involontario con il portare a esaurimento le nuove terre vergini da sfruttare.

E come si è reagito a tutto questo?
La reazione fino ad ora - di effetto, e perfino rivoluzionaria, come può sembrare una volta trattata nei titoli dei media e nel parlare sloganistico dei politici - è stata: ne vogliamo ancora. Un tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente meritevoli di credito, così che il business di prestare e prendere in prestito, di indebitarsi e rimanere indebitato, potesse tornare alla normalità. Il welfare state per i ricchi - che diversamente dal suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori uso - è stato riportato negli showroom dalle stanze di servizio dove erano stati temporaneamente relegati i suoi uffici per evitare spiacevoli paragoni (ma non il welfare state per i non-ricchi: per loro continua certo a valere la categorica affermazione di John Mc Cain secondo cui "non è dovere del governo tirar fuori dai guai e ricompensare chi si comporta in maniera irresponsabile", New York Times, 28 marzo 2008).

Lo Stato ha dovuto gonfiare i muscoli, secondo una sua espressione.
I muscoli statali, a lungo non utilizzati a tal fine, sono stati di nuovo pubblicamente gonfiati, stavolta per continuare quel gioco in cui il gonfiarli è sentito come offensivo eppure - disgustosamente - inevitabile, un gioco che curiosamente non può sopportare che lo Stato gonfi i muscoli ma non può sopravvivere senza che lo faccia. Si noti che il governo americano è entrato in azione solo dopo che i giocatori di serie A di quel gioco che è il libero mercato e la libera circolazione di capitali hanno avuto esperienza diretta della tendenza suicida della rampante globalizzazione e della deregolamentazione su vasta scala dei mercati finanziari globali. Si noti anche che tutte le misure che sono state poi intraprese dalle autorità federali - improvvisamente e in netta contraddizione con tutte le loro precedenti professioni di fede - mirano a salvare ‘l'alto e potente' dalla catastrofe che esse hanno potuto verificare sul ‘basso e debole', e mirano a permettergli di ristabilirsi dai presenti e futuri ‘singhiozzi' e giocare al gioco della globalizzazione con ancor più vigore, determinazione e profitto.

Il welfare state per i ricchi di cui parlava prima. Chi è stato aiutato da queste misure?
Esse sono state introdotte per salvare gli squali, non i pesciolini di cui questi si nutrono. E, una volta rassicurati e rinforzati, gli squali sono le ultime creature che chiedono limiti alla caccia nelle acque globali… Per dirla con la colorita espressione del Financial Times del 20/21 settembre, "i mercati globali hanno ruggito la loro approvazione" della linea d'azione americana, che nella sobria valutazione di questo giornale significa "permettere alle banche di tamponare le proprie perdite, ricapitalizzare e rimettersi in affari". Non per cambiare i modelli operativi delle banche, bensì per metterle in condizione, una volta di più, di seguirli, sperando ora di poter essere sottratte alle conseguenze della loro avidità, con la quale sarebbe stato auspicabile (e immaginosamente esigibile) che avessero fatto i conti basandosi sui propri (insufficienti, come trapela ora) mezzi e secondo il proprio (sbagliato, come trapela ora) giudizio. Come ha detto Alistair Darling, responsabile della politica finanziaria britannica, a Sky News l'8 ottobre, dopo il mercoledì nero: "noi vogliamo essere sicuri di far ripartire il sistema".

Un sistema sbagliato nella sua interezza, che produce all'uomo sofferenza?
Quel che è allegramente dimenticato è che le modalità dell'umana sofferenza sono determinate da come gli uomini vivono. Le radici della sofferenza lamentata oggi, come le radici di ogni male sociale, affondano in profondità nel nostro modo di vivere, grazie alla nostra abitudine - attentamente coltivata e ora assai radicata - di ricorrere al credito al consumo ogni qualvolta c'è un problema da affrontare o una difficoltà da superare. La vita a credito è attraente quanto - forse - nessuna altra droga, e di certo dà ancor più assuefazione di molti tranquillanti in vendita. Ma decenni di copiosa fornitura di una qualche droga non possono che condurre a un trauma nel momento in cui essa si interrompe. Ci viene oggi proposta una scappatoia apparentemente facile dallo shock che affligge sia il tossicodipendente che lo spacciatore di droga: riprendere la fornitura di droga, possibilmente in modo regolare.

Traduzione Nunzia Bossa

Israele, l'outsourcing del tessile mette in crisi migliaia di donne arabe

Israele, l'outsourcing del tessile mette in crisi migliaia di donne arabe

Daniela Bernaschi

Liberazione del 10/10/2008

I lavoratori ne hanno abbastanza del lassismo e dell'inesistente regolamentazione dei mercati finanziari, che portano beneficio e ricchezza a un ristretto gruppo di persone, mentre i loro salari ristagnano. Il nostro obiettivo è quello di rendere questa giornata un vero e proprio "catalizzatore per il cambiamento". Un giorno in cui i lavoratori di tutto il mondo , con voce unita, protestano contro i risultati di più di due decenni di deregolamentazione: crescente insicurezza, enorme disuguaglianza e un continuo anteporre i profitti ai diritti umani fondamentali». Guy Ryder, segretario generale Ituc (International Trade Union Confederation ), sceglie queste parole per inaugurare la "Giornata mondiale per il lavoro dignitoso", celebrata lo scorso 7 ottobre in più di 100 paesi.
Una giornata " catalizzatrice" di proteste, rivendicazioni e che ha fornito a molti lavoratori la possibilità di raccontarsi . E' quanto hanno fatto le lavoratrici arabe impiegate nelle industrie tessili in Galilea (Israele), sostenute e rappresentate dall'organizzazione indipendente " Sawt el-Amel/ The laborer's Voice". Fondata nel 2000 a Nazareth, da lavoratori arabi palestinesi , Sawt el-Amel ha l'obiettivo di difendere e promuovere i diritti dei cittadini arabi di Israele, compreso il diritto ad avere un lavoro dignitoso e condizioni di sicurezza sociale.
Nel corso del decennio passato, più di 30.000 lavoratori del settore tessile israeliano, in maggioranza donne arabe, hanno perso il loro posto di lavoro . Nella prima metà del 2008, 850 dipendenti sono stati licenziati a causa della continua esternalizzazione (outsourcing) della produzione tessile, motivata anche dalla caduta del tasso di cambio sheqel israeliano-dollaro. Ad oggi, l'industria tessile israeliana impiega circa 16.000 lavoratori.
L' esternalizzazione della produzione tessile nei vicini paesi arabi, va ad alimentare il circolo vizioso della disoccupazione, della manodopera a basso costo e della povertà. Migliaia di donne arabe che vivono in Galilea, regione a nord di Israele, prevalentemente abitata da arabi palestinesi, assistono alla chiusura delle fabbriche tessili israeliane che trasferiscono i loro impianti e attrezzature in Giordania , nelle "zone industriali qualificate (QIZs)". Quest'ultime, nate dall'accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Giordania ( successivamente anche l'Egitto aderì a tale accordo), forniscono manodopera a basso costo, facilitazioni fiscali ed i beni, ivi prodotti, posso accedere al mercato USA senza essere gravati da dazi.
Di conseguenza, l'industria tessile israeliana è in gran parte outsourcing, lasciando così la forza lavoro locale - prevalentemente araba e le nuove donne immigrate - disoccupata, e in molti casi anche senza protezione sociale, come indennità di licenziamento e di assicurazione pensionistica.
Nel 2008, gli attivisti di Sawt El Amel hanno iniziato una campagna tra i lavoratori del settore tessile, compresa la distribuzione di opuscoli informativi all'interno delle fabbriche, affinché le lavoratrici possano prendere coscienza dei loro diritti, collaborare tra loro uscendo finalmente dall'isolamento e arginando il fattore paura.

Fmi: recessione globale Le borse cedono ancora

Fmi: recessione globale Le borse cedono ancora

Francesco Piccioni

Il Manifesto del 10/10/2008

Anche Staruss-Kahn ora vede nero e invita «i grandi» a un'azione «decisa, coordinata, rapida»; che si scontra però con interessi nazionali assai diversi. Tremonti minaccia le dimissioni se non verrà cancellata la clausola «salva manager». Berlusconi ci ripensa e promette un emendamento riparatore

Non ce la fa. Il sistema finanziario globale è un malato terminale intorno a cui si affannano decine di medici, con ogni sorta di terapie. Ma che non riesce a risollevarsi dall'infarto. L'immagine è stata proposta - a suo modo - dall'Economist, settimanale seriosissimo del capitalismo anglosassone. «Se il panico che ha strozzato le arterie del credito in tutto il mondo non sarà fermato presto, aumenterà il rischio che la produzione nelle economie ricche crolli. Nessun paese o industria sarà risparmiato dall'equivalente di un infarto finanziario globale».
Anche il Fondo monetario internazionale prova a scuotersi dalla propria evidente inutilità sociale. Dominique Strauss-Kahn, il presidente che fino a un paio di mesi fa non vedeva nubi all'orizzonte, si è ora accorto che «siamo sull'orlo di una recessione globale». Volendo fare l'ottimista per dovere istituzionale, ritiene che «possiamo risolvere i problemi se agiremo in modo rapido, deciso e coordinato». Proprio quel che no si riesce a fare, almeno a livello europeo, dove per il momento vige la terapia fai-da-te.
La Germania non esclude di nazionalizzare alcune banche, così come ha parzialmente fatto la Gran Bretagna due giorni fa. Anche il tesoro americano sta valutando la possibilità di una mossa analoga (peraltro parzialmente effettuata in occasione del salvataggio delle società di mutui Fannie Mae e Freddie Mac, nonché dell'assicurazione Aig). La Spagna ha istituito ieri un fondo da 30 miliardi, estendibile a 50, per comprare titoli garantiti dalle agenzie di rating con la «tripla A». E' una linea diversa sia da quella Usa che da quella tedesca, ma mirante allo stesso obiettivo: fornire liquidità alle banche per farle uscire dal credit crunch.
Toni allarmati accompagnati da misure drastiche, con finanziamenti imponenti. Tutto il contrario di quel che accade in Italia, dove un presidente del consiglio arriva a improvvisarsi promoter finanziario di complemento consigliando ai cittadini di «non vendere le azioni, perché molte aziende italiane fanno profitti e i valori di borsa non corrispondono al valore reale di quelle aziende». Forse perché è titolare di diverse aziende quotate in borsa (Mediaset, Mondadori, Mediolanum, ecc), e ulteriori crolli dei mercati potrebbero intaccare le sue proverbiali ricchezze. In ogni caso, neppure lui riesce a dire che tutto passerà presto: «tra 18-24 mesi i corsi azionari risaliranno», ha concluso. Neppure una parola per chi non ha titoli in portafoglio, naturalmente.
Da sketch comico la riproposizione fuori tempo massimo dell'ormai morta ricetta «meno tasse per sostenere l'economia». Tra sostegno alle banche italiane, a un'economia reale che comincia a sentire i morsi della recessione, con richieste di cassa integrazione che aumentano di giorno in giorno, le risorse finanziarie che lo stato deve trovare sono in crescita esponenziale. E non vale neppure più il vincolo europeo al rispetto dei «parametri di Maastricht».
Le borse mondiali avevano tentato di recuperare qualcosa, dopo giorni catastrofici. Hanno realizzato quel che in gergo viene chiamato «il rimbalzo del gatto morto». Le piazze europee aprivano guadagnando; addirittura il 3% Milano, tra le più penalizzate dai crolli e perciò con prezzi davvero scontati (tutte le banche italiane, attualmente, hanno un valore di borsa inferiore ai «mezzi propri»). Ma già in tarda mattinata gli entusiasmi scemavano. Wall Street si metteva sulla stessa scia, nonostante dati macroeconomici pessimi: aumento delle scorte dello 0,8%, vendite in calo dell'1% (in prezzi correnti, ovvero senza contare l'inflazione). Le richieste settimanali di sussidi di disoccupazione erano formalmente in calo (causa ripresa del lavoro sulle piattaforme del golfo del Messico, dopo la fine degli uragani), ma veniva confermato che gli utilizzatori (per sei mesi) del sussidio hanno raggiunto un nuovo record: sono 3,659 milioni.
In pochi minuti sia il Dow Jones che il Nasdaq passavano dal +2% al segno meno (-2% per il Dj). Poi, come nelle ultime recenti tornate, iniziava un sali-e-scendi senza direzione certa. A meno di un'ora dalla chiusura il Dow Jones perdeva il 3,07%, mentre il Nasdaq registrava un -2,49%.

Oltre il panico, verso l'abisso

Oltre il panico, verso l'abisso

Francesco Piccioni

Il Manifesto del 11/10/2008

Si sono rotti gli argini. Il sistema finanziario non risponde più agli input che governi e banche centrali sfornano a getto continuo (iniezioni di liquidità, salvataggi delle banche, taglio dei tassi di interesse). Segni evidenti del contagio per l'economia reale: crolla il prezzo del petrolio e delle altre materie prime

Il paziente non reagisce. Iniezioni quotidiane di liquidità da parte delle banche centrali, garanzia dei depositi dei cittadini, riduzione concertata e globale dei tassi di interesse, pacchetti multimiliardari di aiuti alla banche in difficoltà, nazionalizzazioni vere e proprie, discorsi dei leader politici che vorrebbero essere rassicuranti... Niente distoglie gli operatori dal perseguire l'unico obiettivo che hanno in testa: vendere, vendere, vendere. A beneficiarne erano le aste dei Bot, in Italia (aumentate di due miliardi), nonostante il calo verticale dei rendimenti.
I tentativi di rianimazione sono massicci, ma anche disordinati, differenti per portata e filosofia di fondo, privi del respiro strategico di un'azione di governo unitaria. Del resto un «governo» del mondo non c'è. Quella «libertà individuale» (anche a livello degli stati) che in periodi di espansione sembra la cura migliore per accrescere ricchezza e benessere, nei momenti di crisi acuta appare un limite insuperabile, perché coincide con l'impotenza, l'inefficacia dell'azione (sempre infima di fronte alla dimensione del problema).
Il malato, insomma, vede che i medici si affannano e propongono ricette differenti; e perde la fiducia nella loro azione. Le reazioni ad ogni nuova misura sono sempre più flebili, di breve durata; quasi un'indiretta conferma della gravità irrecuperabile della situazione. Persino monsignor Paolo Tarchi, moderatissimo direttore dell'ufficio del lavoro della Cei, è stato costretto a constatare che «questo modello di sviluppo è arrivato al capolinea». Angel Gurria, direttore generale dell'Ocse, vede con chiarezza che «la paralisi si sta diffondendo all'economia reale». Sarà un caso, ma l'associazione dei medici di famiglia ha reso noto l'aumento esponenziale di casi di tachicardia, insonnia e malattie psicosomatiche.
Il disastro, se riguardasse solo le borse, potrebbe essere accolto quasi con allegria, come la giusta punizione per gli speculatori. Ma trascinerà a fondo la produzione materiale - quella che ci dà da mangiare, vestire, riparo e calore - e colpirà soprattutto chi una borsa non l'ha mai neppure vista. E, non potranno probabilmente capirlo i cultori del genere, persino quella «immateriale».
Per il mercato finanziario quella di ieri è stata in generale la chiusura della peggiore settimana di sempre. Aveva aperto le danze l'incredibile crollo di Wall Street nell'ultima mezz'ora di giovedì: un -7,5% del Dow Jones che dava la certezza che alcuni argini si erano frantumati. Le piazze asiatiche avevano compreso l'antifona fin troppo bene. Tokyo perdeva quasi il 10%, Bombay oltre il 7 (con fuga degli investitori stranieri, obbligati a «ricoprire» posizioni difficili in casa propria). Hong Kong anche.
L'Europa apriva nel panico. Anzi, qualche sito specializzato scriveva subito «oltre il panico». Decenni di ideologia tecnocratica e neoliberista ci hanno lasciato in eredità uno strato di broker incapaci di recepire, elaborare, reagire razionalmente a notizie negative. Incapaci, cioè, di non comportarsi come un branco di pecore sotto l'attacco dei lupi. La borsa di Vienna chiudeva le contrattazioni già nelle prime ore per «eccesso di ribasso»; così come aveva fatto quella di Mosca un'ora prima. Stoccolma e Bucarest ammettevano soltanto il «fast market» (una forma limitata di scambio).
La situazione si aggravava quando anche a Wall Street si faceva di nuovo giorno. Un'apertura agghiacciante, con il Dow Jones che scivolava sotto dell'8% in altrettanti minuti, provocava un infarto europeo: Francoforte e Parigi superavano l'11% di perdite. Londra era in agonia. L'attesa per il discorso di Bush distraeva per qualche decina di minuti i «ribassisti» (esistono gli speculatori al ribasso, non soltanto quelli che puntano al rialzo dei prezzi); per un minuto - ma nessuno ci può giurare - il Dow Jones è stato dato addirittura positivo. Poi l'altalena cui New York sta abituando il mondo prendeva con decisione l'ascensore per l'inferno. Il -8% veniva superato abbondantemente, in un alternarsi di umori neri e disperate speranze che portavano gli indici vicini al -3%.
La recessione incipiente tocca però da subito l'economia reale. A farne le spese in modo spettacolare è stato soprattutto il petrolio, tornato rapidamente - dopo oltre un anno - sotto gli 80 dollari al barile. Stessa sorte per altre commodities (materie prime), le cui quotazioni scendevano con percentuali a due cifre.
Si moltiplicavano perciò gli appelli reciproci, tra i leader dei principali paesi, a definire azioni comuni; o quantomeno a vedersi per capirsi meglio. Lo spagnolo Zapatero ha chiesto al presidente francese Sarkozy di convocare un vertice dell'Eurogruppo per domenica; Gordon Brown, primo ministro britannico, suggerisce ai governi europei di copiare la ricetta da lui applicata: nazionalizzare le banche in difficoltà, acquistare i «titoli tossici» per disincagliare il credit crunch.
I dato macro provenienti dagli Usa non erano però buoni. Nonostante i prezzi delle importazioni siano calati a settembre del 3% (soprattutto a causa del calo delle quotazioni del greggio), il deficit della bilancia commerciale è rimasto spaventosamente alto: 59,14 miliardi di dollari. Gli americani continuano insomma a consumare a debito, come nulla fosse. Non risollevava il morale General Motors, al minimo dai tempi della guerra di Corea (ma allora il dollaro valeva molto di più); che però smentiva di voler chiedere la «protezione contro i creditori» (ovvero l'amministrazione controllata). Le ultime banche di investimento esistenti (Morgan Stanley e Goldman Sachs) subivano l'onta estrema: la prima perdeva anche il 40%, visto che Moody's annunciava di volerle togliere il rating, la seconda intorno al 20. Carta straccia, insomma.
Il discorso di Bush non ha ancora una volta mutato il quadro. Quel suo ripetere «l'economia è sana», «reagiremo con forza», «state tranquilli» provocava la reazione contraria. E non c'è nulla di peggio di un medico notoriamente incapace. A un'ora dalla chiusura il Dow Jones perdeva il 5% (siglando così la peggior settimana di sempre di Wall Street), così come il Nasdaq.
Le residue speranze «politiche» si andavano perciò concentrando sulla riunione del G7, iniziata ieri sera e che durerà probabilmente tutta la giornata di oggi. Tra le misure ipotizzate anche la chiusura temporanea delle borse mondiali. Ma se da questa riunione non dovesse uscire «un coniglio dal cilindro», la riapertura potrebbe essere un ictus.

Coloni, la terra in pugno. Nel mirino contadini e pacifisti

Coloni, la terra in pugno. Nel mirino contadini e pacifisti

Michele Giorgio

Il Manifesto del 11/10/2008

L'«italiano» Sermoneta mira a diventare sindaco di Efrat con un programma preciso:allargare la colonia. E i settler che occupano illegalmente la Palestina hanno scatenato un'offensiva per impedire, dopo quello da Gaza, ogni ulteriore ritiro. In gioco c'è il futuro di due popoli

Efrat è lo specchio della libertà di cui ha goduto, a livello internazionale, la politica di colonizzazione portata avanti da tutti i governi israeliani, di ogni colore, dopo l'occupazione dei territori palestinesi nel 1967. Quello che era un piccolo insediamento ebraico ai piedi di Herodion, qualche chilometro a sud di Betlemme, oggi è una cittadina di oltre 9.000 abitanti (per il 60% di origine statunitense) ben organizzata, dove non manca niente, con strade larghe e abitazioni ampie e confortevoli dai tetti rossi, tipici di tutte le colonie ebraiche. Dista da Gerusalemme una ventina di chilometri che gli abitanti percorrono rapidamente grazie alla by-pass road costruita da Israele una quindicina di anni fa, per permettere ai suoi coloni di raggiungere Hebron senza dover transitare per Betlemme e gli altri centi abitati palestinesi in quella zona. Con la costruzione del muro, la separazione tra israeliani e abitanti palestinesi è totale e i coloni di quest'area, nota come Gush Etzion, sono sempre più convinti di aver vinto la loro battaglia. L'illegalità del loro insediamento, sancita dalle risoluzioni internazionali, non suscita più alcuna protesta nelle capitali europee, ancor meno a Washington, e nella terra dei palestinesi ora i coloni sanno di poter fare il bello e il cattivo tempo.
L'11 novembre Efrat andrà al voto per rinnovare la sua amministrazione comunale, come qualsiasi centro abitato di Israele, e all'ingresso della colonia, costantemente monitorato dalle guardie di sicurezza, due adolescenti distribuiscono volantini elettorali con il volto sorridente di Ruth, una signora sulla sessantina, candidata alla poltrona di sindaco. Un obiettivo che difficilmente centrerà, perché a vestire i panni del favorito è un colono di origine italiana, Yedidia Sermoneta, molto stimato ad Efrat, dove per 18 anni è stato responsabile della sicurezza di tutto l'insediamento. Nato a Gerusalemme 53 anni fa da genitori arrivati dall'Italia dopo la fondazione di Israele, padre romano e madre genovese, Sermoneta si è trasferito ad Efrat nel 1990.
«La nostra zona è calma, i palestinesi qui intorno ci rispettano, con loro abbiamo rapporti buoni ed io, come responsabile della sicurezza, spesso li aiuto quando ci sono emergenze», afferma col tono di chi si sente un benefattore e non un colono che ha preso la terra ai palestinesi dei villaggi vicini. «Qual è il punto principale della mia campagna elettorale? Espandere Efrat! Gli ultimi due sindaci avrebbero potuto farlo, ma non avevano gli attributi giusti, non possedevano la necessaria intraprendenza», sostiene Sermoneta accennando un sorriso mentre sorseggia il suo afuk, il caffelatte all'israeliana. «Efrat deve crescere, è lunga sei chilometri ma larga appena 500 metri, in qualche punto anche meno. Abbiamo bisogno di più spazio per le esigenze della nostra gente», aggiunge il candidato a sindaco. E non ci vuole molto a immaginare su quali terre la colonia si espanderà in futuro.
Sermoneta è una via di mezzo tra il colono «istituzionale», rispettoso della legalità israeliana, lontano da qualsiasi forza politica - «sono un indipendente, qui i partiti tradizionali non ti offrono appoggio e si fanno vedere e sentire molto poco», spiega - e il settler religioso-sionista, ispirato più dalla Torah che dalle leggi dello Stato.
Le sue responsabilità di sicurezza lo tengono in contatto con i settler di tutta la Cisgiordania, perciò ha il polso di una situazione che si è fatta incandescente in questi ultimi mesi, segnati da un aumento vertiginoso degli atti di violenza dei coloni che vivono negli insediamenti più militanti. Atti ai quali si è aggiunto l'attentato subìto il mese scorso dallo storico Zeev Sternhell, attributo ad «elementi di estrema destra» ma che la polizia, stranamente, non ha ancora individuato, così come raramente mette le manette ai responsabili delle aggressioni ai palestinesi in Cisgiordania.
«Il fermento cresce in quelle colonie che si sentono più esposte agli esiti di un eventuale accordo politico con i palestinesi e ad un piano di evacuazione come quello avvenuto nel 2005 a Gaza. L'aggressività (dei coloni) serve a mettere una cosa in chiaro: non ci sarà una nuova Gaza, le colonie non verranno evacuate. Posso garantirvi che chiunque promuoverà un'evacuazione, anche parziale (in Cisgiordania), non avrà vita facile come è avvenuto a Gaza», afferma Sermoneta. «Ad Efrat però siamo tranquilli perché sappiamo che con qualsiasi governo israeliano questa zona, insieme a Ma'aleh Adumin ad est e Bet El a nord, farà parte della Grande Gerusalemme, e rimarrà sotto il pieno controllo israeliano». Progetti che violano la legalità internazionale e non tengono in alcun conto le aspirazione dei palestinesi sulla loro terra. Per i coloni (oltre 400.000 tra quelli della Cisgiordania e di Gerusalemme) però contano solo la Torah, la legge di Dio, e la collaborazione dei governi.
La moltiplicazione delle violenze a danno dei palestinesi ha fatto notizia il mese scorso l'attacco massiccio dei coloni di Yitzhar ad Assira al Qabaliya (una decina i palestinesi rimasti feriti e gravi danni alle case) - è seguita alla diffusione da parte dei media di «piani» del governo volti, almeno sulla carta, a restituire oltre il 90% della Cisgiordania, nel quadro di un futuro accordo con l'Anp di Abu Mazen. Provocare la reazione dei palestinesi avrebbe l'effetto, nelle aspettative dei coloni, di innescare un ciclo di scontri sanguinosi che finirebbe per congelare qualsiasi ipotesi di evacuazione delle roccaforti della destra radicale situate a ridosso delle principali città palestinesi, in particolare Nablus e Hebron. In questi ultimi giorni, ad esempio, sono aumentati gli atti di violenza contro i contadini cisgiordani impegnati nella raccolta delle olive (una voce importante dell'economia palestinese) e contro i pacifisti israeliani e internazionali che li proteggono. Nei pressi di Hebron, a subire una aggressione sono stati anche i rappresentanti di «Rabbini per i diritti umani», colpevoli di difendere gli agricoltori palestinesi.
È caduta nel vuoto peraltro la denuncia della violenza dei coloni giunta da alti ufficiali dell'esercito israeliano che pure chiude un occhio, spesso tutti e due, di fronte alle aggressioni che subiscono i palestinesi, come ad Assira a Qabaliya. Il professor Sternhell dopo l'attentato ha rinnovato l'allarme sulla pericolosità dei coloni e dell'estrema destra e d'accordo con lui si è detto un altro accademico, Yaron Ezrahi, in gioventù amico del pacifista Emil Grunzweig, ucciso nel 1983 da un estremista di destra durante una manifestazione contro l'invasione israeliana del Libano.
Ezrahi vede un preciso collegamento tra gli atti di violenza in Cisgiordania e quelli, in aumento, contro gli arabi israeliani (palestinesi con passaporto israeliano) in Galilea e nelle città miste. «È una svolta preoccupante - avverte il docente -: nei Territori occupati è stata lasciata fiorire una cultura di totale illegalità e i coloni si sono convinti di essere invincibili e immuni da qualsiasi atto degli apparati dello Stato». Gli Stati Uniti e Israele, aggiunge Ezrahi, «sono in un momento di transizione politica e ciò offre spazio a chi vuole impressionare le prossime amministrazioni politiche.
Il richiamo al rispetto della legalità di Ezrahi e gli avvertimenti di Sternhell tuttavia servono a ben poco quando lo Stato di Israele non solo non agisce contro i settler più violenti ma porta avanti esso stesso la colonizzazione. Il quotidiano Maariv ha riferito che dall'inizio dell'anno ben 15.000 israeliani sono andati a vivere negli insediamenti «ufficiali» e negli avamposti colonici (illegali per la stessa legge israeliana) nonostante le assicurazioni date lo scorso anno ad Annapolis dal premier Ehud Olmert di fermare le costruzioni nei Territori occupati palestinesi.