martedì 30 settembre 2008

«Paghiamo la politica senza morale della Casa Bianca»

l’Unità 30.9.08
Giacomo Vaciago. Una crisi peggiore del ’29, ma solo finanziaria
«Paghiamo la politica senza morale della Casa Bianca»
di Luigina Venturelli

«In campagna elettorale tutti giocano contro, in tutti i paesi del mondo. Come poteva Bush illudersi, ad un mese dal voto, di far votare un simile piano ad un Congresso a maggioranza democratica? Dov’era un anno fa?». Giacomo Vaciago, professore di Economia Politica all’Università cattolica di Milano, non si stupisce della bocciatura del piano Paulson.
È una crisi annunciata?
«La più annunciata che abbia mai visto. La Banca dei Regolamenti Internazionali aveva lanciato il primo avvertimento già nel 2004, preoccupata dall’amore per il rischio che animava i mercati finanziari internazionali, di solito popolati da gente geneticamente avversa al rischio. Le banche prestavano soldi ai peggior pagatori, a gente come Callisto Tanzi di Parmalat, pur sapendo che non sarebbero rientrati del credito».
Perchè questa mutazione genetica dei mercati?
«Perchè per Bush e Greenspan era la politica più facile: quando si espandeva un problema, si espandeva pure la moneta e si stampavano nuovi dollari. Ma non poteva durare per sempre».
Dunque, c’è una precisa responsabilità della amministrazione Bush.
«Con Bush si è diffusa una politica economica amorale: l’importante è fare soldi, e va bene comunque il modo in cui si fanno. Così siamo arrivati a questo punto. Ormai il gioco è prevedere quale sarà la prossima banca a fallire».
Si fanno spesso paragoni con il crollo delle Borse del 1929.
«Questa crisi finanziaria è più grave di quella del 1929, perchè è globale, non riguarda solo gli Stati Uniti e un pezzo d’Europa, ma anche l’Asia. Il miracolo è che l’industria tiene: quest’enorme piramide finanziaria sta cadendo da sola perchè non era al servizio dell’economia reale, era panna montata: vendeva il bidone e il controbidone, il titolo rischioso e l’assicurazione per coprirsi dal rischio. Le grandi fortune che si sono accumulate in questi anni sono state generate da inutili scatole di cartone, non c’era vera produzione di benessere. Per questo le società finanziarie tenderanno a scomparire senza provocare i disastri del 1929».
Nel frattempo continueranno i piani di salvataggio pubblici?
«I governi si stanno comportando nel peggior modo possibile. Invece di risolvere i problemi, fanno da amplificatori. Urlano alla crisi e spaventano i cittadini che poi abbandonano a se stessi. Salvano oppure no a seconda dei giorni, senza regole».
E il piano da 700 miliardi di dollari bocciato ieri?
«A Washington si sono dimenticati che l’economia è globale, che da soli ormai non fanno che guai. Un simile piano non ha senso se non è concordato a livello internazionale con le altre autorità economiche e finanziarie. È da marzo che si parla del piano Paulson, ma Bush l’ha presentato solo adesso, lasciandolo in ostaggio della campagna elettorale. Il Congresso è a maggioranza democratica e avrà pensato: mese più mese meno, diamo botte a Bush. Magari ce lo ritroviamo più avanti a firma Obama o Mc Cain».
E in Italia che cosa succederà?
«Gli italiani hanno un capitalismo familiare che li rende mediamente più attenti, perchè le aziende prima o poi finiscono ai figli. Invece il capitalismo americano è senza figli, se deve dare un bidone può darlo al creditore. Per questo hanno inventato le authority che possono mandare in galera chi non rispetta le regole».

L’illusione del mercato. Il crollo della finanza

l’Unità 30.9.08
L’illusione del mercato. Il crollo della finanza
di Rinaldo Gianola

L’incalzare degli eventi alimenta ogni paura e purtroppo la memoria e la statistica ci riportano alla depressione del 1929 al grande crac del 1987 o alla paura planetaria seguita all’11 settembre

E adesso cosa succederà? L’amministrazione Bush chiude il suo fallimentare mandato incassando un no bipartisan del Congresso al piano finanziario da 700 miliardi di dollari destinato a salvare i mercati.
La bocciatura arrivata ieri sera apre per le Borse e l’economia internazionale uno scenario drammatico, addirittura più grave di quello che abbiamo visto in questi ultimi giorni tra crolli dei listini, fallimenti di banche e assicurazioni, salvataggi da parte dei governi.
L’incalzare degli eventi, il loro impatto sconvolgente sulla vita di milioni di persone rende incerta ogni previsione, alimenta ogni paura e purtroppo la memoria e la statistica ci riportano alla depressione del 1929, al grande crac del 1987 o alla paura planetaria seguita agli attacchi alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.
Forse il Congresso Usa ci ripenserà, forse Bush modificherà il suo piano che costa più della guerra in Iraq, forse ha ragione Obama quando invita gli americani a mantenere la calma perchè una soluzione si troverà, ma le macerie sono già sotto i nostri occhi. Al ritmo di un paio di fallimenti al giorno, il sistema bancario e finanziario internazionale cerca oggi il suo salvagente negli interventi delle “autorità pubbliche” come scrivono con imbarazzato pudore certi commentatori che, dopo anni di ubriacatura neoliberista, non riescono più a pronunciare la parola giusta. Statalizzazione, questa è la parola giusta. L’aiuto fornito dai governi occidentali alle banche in crisi si chiama statalizzazione. È lo Stato, con la maiuscola per favore, che corre in soccorso di imprese private, devastate da scelte sciagurate, dalla ricerca vergognosa di profitti sempre più alti e ingiustificati, capaci di sfruttare i poveri cristi che non riescono a pagare le rate del mutuo e in grado di convincere i risparmiatori di mezzo mondo di poter fare soldi a palate con prodotti finanziari dai nomi esotici come Asset backed securities o Collateralized bond obligation. Sta finendo, forse, un mondo falso, di panna montata, basato sulla convinzione che il mercato è la panacea di ogni guaio, capace persino di portare la democrazia a quei popoli disgraziati che ne sono privi con il semplice dispiegarsi della sua forza o la benedizione della “mano invisibile”. È il mondo teorizzato dalla signora Margaret Thatcher che nel 1979 trionfava in Inghilterra al grido: “ Arricchitevi! Diventate azionisti“. Trent’anni dopo la storia si prende la rivincita. Proprio in Inghilterra sono le “autorità pubbliche” a nazionalizzare la Northern Rock e la Bradford and Bingley, banche finite sull’orlo del fallimento. Sono i governi olandese, belga e lussemburghese a organizzare il salvataggio del gruppo Fortis, così come in Germania si corre ai ripari per altre banche. Ma, si sa, pur passata sotto la cura della Thatcher e di più banali liberisti all’amatriciana, l’Europa ha sempre quel retaggio statalista, quel welfare così ingombrante che non ci si può sorprendere se lo Stato ritrova un suo ruolo nell’economia.
Ma è l’America, la patria del capitalismo, anzi del capitalismo più moderno e democratico, che produce oggi sofferenze e crisi per tanti suoi adepti mentre pochi manager incassano retribuzioni e stock options miliardarie. Ha ragione il professore Mario Monti quando scrive articoli di fondo assai preoccupati sul Corriere della Sera chiedendosi se i giganteschi interventi pubblici di salvataggio negli Stati Uniti non possano favorire il ritorno, ahimè, di tentazioni stataliste in tutto il mondo occidentale. Bush ha salvato le agenzie dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac, la compagnia di assicurazioni Aig. Certo è fallita anche una banca che non poteva fallire come Lehman Brothers, ma il Sole-24 Ore ci spiega che in America salvano solo le imprese che possono produrre «crisi sistemiche». Meno male, adesso ci sentiamo più sollevati.
Ma, allora, quella che stiamo vivendo è una crisi passeggera o qualcosa di più grave? Non sarà forse una crisi del mercato e dei suoi presunti valori? È solo colpa dei mutui subprime? Come si fa a non vedere che c’è qualche cosa di più profondo che sta nel dna, nella stessa natura e nell’organizzazione dell’economia capitalista, nella qualità (anzi nella mancanza di qualità) dello sviluppo, nell’abuso degli strumenti e dei mercati finanziari. Quando si arriva a proporre ai risparmiatori di comprare i “derivati dei derivati” allora siamo alla follia o alla malavita organizzata sui mercati. Possibile che ogni due o tre anni il mondo deve fronteggiare crisi finanziarie più o meno gravi? Nel 2000 era la stagione dell “euforia irrazionale” alimentata dalla “bolla” di Internet che giunse alla sua inevitabile esplosione. Poi nel 2002-2003 il mondo ha subito le conseguenze degli scandali Enron e WorldCom (nel nostro piccolo abbiamo avuto Parmalat e Cirio) ma gli Stati Uniti pensavano che mostrando in tv i manager mascalzoni in manette e spedendoli in galera si potesse risolvere tutto. Qualche mela marcia, si sa, c’è ovunque, anche nelle migliori famiglie. Ma ora c’è un’altra crisi devastante: saltano le banche, miliardi di risparmi vengono volatilizzati, milioni di persone perdono il lavoro.
Di chi è la colpa? Forse delle vendite “allo scoperto” che le Autorità di controllo vogliono impedire in Borsa? Ma andiamo...Come si fa a non vedere, invece, che c’è qualche cosa di patologico in questo mercato, che c’è una malattia profonda che colpisce i gangli vitali dell’economia e della finanza? In questo contesto, oggi, il mercato e il “mercatismo” denunciato da Tremonti sono la stessa cosa, non c’è alcuna differenza. Questo sì che sarebbe un bel tema, un forte argomento di battaglia politica e culturale se ci fosse ancora una sinistra che non si vergognasse del suo passato. Ma non c’è. Siamo tutti, felici o no, dentro il mercato. Ma il mercato è un’illusione.

venerdì 26 settembre 2008

Il grande tonfo del capitalismo di mercato

La Repubblica 26.9.08
Il grande tonfo del capitalismo di mercato
di Guido Rossi

Vorrei fornire qualche indicazione sulle questioni totalmente nuove e irrisolte che toccano le recenti dimensioni e strutture sia della società per azioni, sia dei mercati finanziari. A questo proposito ho recentemente usato la metafora del mito della Fenice e della necessità che dalle ceneri del "diritto vivente" nascano nuovi paradigmi e un nuovo ordinamento. La discussione è ora aperta in tutti i Paesi, per gli effetti che la globalizzazione economica ha provocato, squarciando i vecchi schemi. Infatti, le pur multiformi modifiche al sistema internazionale delle imprese introdotte dalla moderna lex mercatoria, la quale ha valicato il confine imposto dalle legislazioni dei singoli Stati, non hanno potuto fermare le crisi che hanno colpito le società e i mercati finanziari in generale. E ciò è avvenuto anche perché in ogni caso le regole della lex mercatoria, dettate dai protagonisti dei mercati, ispirati solo alla tutela dei loro interessi, offrivano strumenti il più delle volte inutili, che soltanto in alcune sporadiche ipotesi sono riusciti a tutelare i contraenti indifesi e ad impedire gli illeciti e le bolle speculative che stanno alla base delle crisi.
Le vere sfide del diritto sono dunque quelle di dover affrontare una realtà (da disciplinare) completamente diversa rispetto a quella che i suoi strumenti tradizionali avevano fin qui regolamentato. Siamo di fronte ad una rivoluzione del sistema economico che il diritto non è stato ancora in grado di seguire, sia perché il suo armamentario ormai superato altro non ha fatto che rendere ancora più complesse le crisi, se non a volte favorirle, sia perché è mancato il coraggio di mettere in discussione i vecchi dogmi e formulare ipotesi di base completamente nuove. Robert J. Shiller (The Subprime solution, 2008) ha recentemente dimostrato che anche la subprime crisis non può essere risolta con strumenti vecchi di mero intervento pubblico, ma va rivisitata con strutture nuove. La verità è che la crisi è più profonda, poiché la grande società per azioni è sfuggita, nel suo operare, non solo alle tradizionali categorie giuridiche sulle quali era organizzata, ma a tutti i più recenti originali, e spesso scimmiottati da altri ordinamenti, tentativi di regolamentazione che vanno genericamente sotto il vago nome di corporate governance. Anzi la frammentazione della gestione dell´impresa sociale, attraverso la scomposizione degli organi amministrativi in miriade di comitati, ha all´incontrario favorito il perseguimento di interessi extrasociali e il dissanguamento della società, aiutati da un mercato senza né controlli, né scrupoli e da una fantasiosa e cinica dominanza della finanza sempre più autoreferenziale e distaccata dalla realtà economica dell´impresa. In questo quadro prolificano la speculazione e la crisi che l´economia e il diritto stanno vivendo, in uno stato di semi impotenza, quasi senza capire che non è più tempo di restaurazione...
Le vecchie formule risultano dunque superate. Nelle strutture dei mercati ormai azionisti e creditori, imbrigliati in innumerevoli e sovente opachi strumenti finanziari, stanno perdendo sempre più autonomia fino a confondersi. L´azionista, infatti, è solamente uno degli investitori e non è più il solo a rappresentare l´interesse sociale: con lui concorrono i creditori?finanziatori, gli obbligazionisti nelle varie fattispecie attraverso le quali i loro diritti si possono variegare, le diverse categorie di azionisti sempre più numerose e spesso indecifrabili. Ma concorrono sempre più rilevanti i titolari di prodotti derivati con la varietà di operazioni d´acquisto, di vendita e di conversione, dissimulate spesso da riallocazioni del rischio; i partecipanti alle varie forme di trust, di fondi (dagli hedge funds ai fondi pensione e soprattutto ai nuovi irrompenti protagonisti: i fondi sovrani), di prestito di azioni, di equity swaps e di tutti gli altri strumenti finanziari che formano un enorme e incontrollato mercato...


* * *

L´attuale situazione si presenta assai più complicata rispetto alla semplicità dei sistemi giuridici tradizionali, tant´è che nel capovolgimento generale dei ruoli non deve essere trascurato l´aspetto dei "doveri fiduciari" che gli stessi azionisti organizzati e costantemente attivi possono avere nei confronti della società e degli altri soci. Al di fuori dei casi tipici di controllo maggioritario e minoritario, che possono alimentare ampi casi di conflitto di interessi, la dottrina e la giurisprudenza unanimi, in tutti gli ordinamenti, sono solite ritenere che gli azionisti non abbiano "alcun dovere nei confronti della società". Tuttavia, le recenti vicende dei mercati finanziari hanno spinto minoranze di azionisti attivi a considerare economicamente razionale il cercare di influenzare direttamente, anche fuori dei canonici contesti assembleari, le scelte degli amministratori. Questo fenomeno, assai diffuso nei maggiori mercati esteri, ha incominciato ad avere anche in Italia una sua non indifferente applicazione, come è stato recentemente dimostrato in una delle più importanti società italiane, le Assicurazioni Generali... Può darsi che l´attivismo dei soci minoritari possa anche essere a volte di stimolo all´operare degli amministratori, ancorché la separazione dei diritti di voto dagli interessi economici, largamente non regolata e spesso nascosta, possa essere strumento di facile perseguimento di interessi extrasociali, diretti o indiretti a grave danno del complesso degli azionisti, quando ad esempio è loro interesse far scendere il prezzo di borsa delle azioni. Il problema dei "doveri fiduciari" degli azionisti e del conflitto di interessi nell´ambito societario si è dunque ampiamente modificato e impone nuovi strumenti di valutazione, affatto difformi da quelli tradizionali.
Un ulteriore fenomeno recente che sta modificando radicalmente le strutture dei mercati finanziari e delle società per azioni è il massiccio investimento dei cosiddetti fondi sovrani (sovereign wealth funds). Tendenza questa che suona in modo opposto a quella che sembrava consolidata, nel capitalismo di mercato, delle privatizzazioni. La loro attuale presenza calcolata fra i 3 e i 5 trilioni di dollari ha evidenziato il diverso ruolo che possono assumere i governi in un´economia capitalista: "il capitalismo di Stato opposto dunque al capitalismo di mercato"?... Quel che oggi rileva è che i fondi sovrani sembrano poter costituire una vera alternativa al capitalismo di mercato. Né può dimenticarsi che proprio i fondi asiatici, del Medio Oriente e di Singapore hanno contribuito a risolvere le recenti crisi di istituti di investimento di straordinaria rilevanza nel capitalismo di mercato, quali Citigroup, Inc., Merrill Lynch & Co., e UBS AG. Ma ancor più anomale sono tutte le forme di bailout, di intervento economico del governo americano nei recenti salvataggi bancari... Tullio Ascarelli riteneva che le società per azioni controllate dallo Stato costituiscono una "formula insincera". E ripete oggi Robert J. Shiller che i salvataggi (i bailout) sono forme di ipocrisia, ai vertici della quale, mi pare, troviamo anche noi il tentativo nostrano di salvataggio governativo dell´Alitalia...
Parlare ancora del "capitalismo di mercato", soprattutto dopo gli interventi del Tesoro americano a salvataggio dei vari istituti finanziari a iniziare da Fannie Mae e Freddie Mac, sembra riferirsi a un relitto storico o a un oggetto d´antiquariato. Le azioni preferenziali emesse a favore del Tesoro e la possibilità, con l´emissione di warrants, di acquistare fino al 79,9% delle azioni ordinarie, nonché la sospensione del diritto di tutti gli azionisti a favore del Commissario (Conservator), sono, si potrebbe dire celiando, la copertura di mercato a un salvataggio pubblico in spregio. Lo stesso dicasi per il grande gruppo assicurativo AIG.
Considerata l´opacità dei fondi sovrani e di altri interventi dei governi nelle società, ritengo che una strada percorribile potrebbe essere, dopo averne imposto la rigorosa "trasparenza", quella di individuare con chiarezza la loro responsabilità sia nei confronti della società, degli azionisti e dei principali stakeholders....

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Grande rilievo assume, ad esempio, la circostanza che il controllo pubblico su un´impresa non esclude in alcun modo l´applicazione della disciplina antitrust. La circostanza che il socio di controllo sia lo Stato o un ente pubblico non incide quindi sulla piena parificazione della società partecipata a un´impresa privata e sul suo assoggettamento alle regole concorrenziali previste per qualunque imprenditore. Il principio generale che se ne può trarre è, quantomeno, una presunzione in favore dell´applicazione delle regole di diritto (societario) comune anche alla mano pubblica. Tuttavia i bailout, i vari salvataggi, nonché gli interventi d´ogni tipo dello Stato nelle società quotate, hanno definitivamente cancellato dalla società per azioni il principio che la perdita del capitale, in caso di insolvenza, si abbatteva sugli azionisti. Nel nuovo capitalismo finanziario le perdite si sono allargate e vengono ormai ripianate dallo Stato, cioè da tutti i cittadini che pagano le tasse. Ma allora quale capitalismo di mercato?...
Insomma, i modelli sui quali erano costruiti il diritto societario e quello dei mercati finanziari sono totalmente fuori uso e inadatti a interpretare le nuove realtà del capitalismo finanziario globalizzato. Né vale a tenerli in piedi qualche fragile e già vetusto strumento, quale il ricorso agli amministratori indipendenti o a nuove, ma stantie definizioni di parti correlate, o la vaga responsabilità sociale per proteggere gli stakeholders: espressioni, per dirla con Robert B. Reich (Supercapitalism, New York 2007, p. 171 (trad.it., Fazi Editore 2008) considerate "meaningful as cotton candy" così senza senso come lo zucchero filato. Intanto nei gruppi di società, all´interno e nei mercati, il conflitto di interessi ha assunto forme nuove e incomprensibili coi vecchi paradigmi, tanto da colpire anche gli stessi stakeholders... Pretendere che gli eventuali conflitti di interessi fra le società e le parti correlate possano, ad esempio, essere risolti affidando le decisioni relative ai cosiddetti amministratori indipendenti, facendoli diventare in determinate fattispecie i veri "capi azienda", snaturandone così la presunta natura e funzione, come vorrebbe la Consob, è frutto di un paradigma vecchio e comunque superato...
Ma che dire dei mercati finanziari sempre meno regolamentati e controllati, dove l´homo oeconomicus è stato sostituito dall´homo ludens se il maggiore di tali mercati è quello dei credit default swaps, nei quali si scommette sull´insolvenza non solo della società quotata ma anche del debito pubblico degli Stati. Il collasso di questo mercato di scommesse incontrollate può essere peggiore delle crisi dei subprime mortgages. E vale allora la pena di ricordare ancora la frase di Keynes: "Quando l´accumulazione del capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò è probabile che le cose vadano male".

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Alla domanda: quali nuove sfide per il diritto, la risposta a mio parere è dunque una sola: esiste un´unica sfida. Bisogna che i giuristi incomincino a interrogarsi per rivoluzionare i principi fondamentali e le strutture che hanno finora retto il diritto societario e dei mercati finanziari. Il paragone l´ho già altrove fatto. La società per azioni è al termine della sua stagione. Come all´inizio del seicento per sviluppare il nuovo capitalismo maturò Le Compagnie delle Indie, ora senza tradire il mito, come la Fenice si sta bruciando con gli stessi rami secchi che è andata raccogliendo sui mercati finanziari. Dalle sue ceneri, per affrontare le nuove sfide, deve uscire una nuova fenice. Oggi siamo nel bel mezzo della ricerca. E questa è la sfida per un nuovo paradigma scientifico che deve stare lontano dalle false vuote formule del "capitalismo sociale di mercato" e simili, ma deve incominciare a esaminare senza pregiudizi e preconcetti la nuova realtà che sembra sfuggita di mano. Affidarsi a strumenti superati non solo è perdita di tempo, ma significa dilazionare l´applicazione di strumenti che possano arginare le crisi e che solo il diritto può promuovere.
(Questo testo è un ampio stralcio dell´intervento di Guido Rossi al convegno di studi "I nuovi equilibri mondiali: imprese, banche, risparmiatori", che si tiene a Courmayeur oggi e domani)

martedì 23 settembre 2008

Se il risparmio (anche nostro) paga la tassa occulta Usa

Se il risparmio (anche nostro) paga la tassa occulta Usa

Il Sole 24 Ore del 23 settembre 2008, pag. 1

di Carlo Bastasin

Se sentite puzza di bruciato, avete probabilmente ragione. Una crisi finanziaria infatti è diversa da un incendio, perché i pompieri finanziari, le autorità di governo e di vigilanza, pensano prima di tutto a salvare la casa anziché gli inquilini.



Ogni volta che il sistema finanziario è in difficoltà si pone il problema di intervenire scegliendo tra stabilità e trasparenza. È meglio salvare le banche perché il sistema finanziario regga, oppure è meglio che i rischi siano portati alla luce e che i risparmiatori siano ben informati ed esercitino le loro scelte? La storia delle crisi bancarie è una storia di crisi di fiducia nelle istituzioni e di fuga dei depositanti e il caso Northern Rock ne è stato una testimonianza. La stabilità della casa è quindi importante, ma è plausibile che costi e responsabilità di una gigantesca crisi finanziaria restino oscuri? Si possono nascondere tutte le tossine finanziarie sotto il tappeto dei risparmiatori?



L’amministrazione americana sta spostando i costi sulle future generazioni di contribuenti e sui risparmiatori attuali. Ora chiede che anche i governi degli altri Paesi si facciano carico dei danni prodotti dai "padroni dell’universo" di Wall Street. È forse un primo passo verso il coordinamento internazionale, ma è anche una condivisione dei costi che richiederebbe trasparenza e responsabilità, Il tema della trasparenza è però delicato anche in Europa e in Italia, dove non vengono nemmeno riconosciuti ufficialmente i danni nascosti nel sistema finanziario e dove la struttura istituzionale impedisce che le responsabilità vengano identificate.



Una ricerca della Federal Reserve osserva che due quinti dei titoli asset backed americani sono in mani straniere e in particolare europee. Le obbligazioni di Lehman sono più facili da quantificare, mentre nessuno probabilmente poteva immaginare il volume di polizze di Aig utilizzate dalle banche europee per aggirare i requisiti di capitale. La decisione dell’autorità di vigilanza tedesca di imitare la Sec, nella prevenzione delle vendite al ribasso sui titoli finanziari, è indizio di qualche timore. In fondo la crisi di una delle maggiori banche europee, date le dimensioni, sarebbe ingestibile per un singolo Paese, Germania inclusa.

Molti analisti sospettano che le banche inglesi e spagnole siano le più esposte alla crisi, eppure alcune di esse stanno aggressivamente espandendosi in questi giorni. Chi calcola la leva finanziaria delle banche europee vede che in media esprime un rapporto tra capitale e attività superiore a30, triplo di quello normale e quasi doppio di quello americano. Il problema europeo quindi esiste, ma chi se ne fa carico?



La struttura istituzionale europea non è adatta alla gestione delle crisi. Per garantire il funzionamento del Mercato unico, i trattati dell’Unione europea vietano ai governi nazionali i salvataggi di singole istituzioni finanziarie. Perché sia possibile in Europa intervenire come ha fatto la Fed, sarebbe necessario che esistesse un governo comune o quantomeno un’istituzione a cui ì governi attribuiscano la responsabilità di risolvere le crisi. Inevitabilmente dovrebbe essere un’istituzione dotata di molte risorse finanziarie, che porrebbe il problema della ripartizione dei costi e quindi dell’impegno non solo finanziario ma anche politico dei governi europei. Un’ipotesi minima che gli esperti consigliano è quella di collegare i sistemi nazionali di assicurazione dei depositi. Nel caso italiano si porrebbe tra l’altro il problema del finanziamento di questa assicurazione.



In assenza di un sistema di responsabilità, il contenimento della crisi avviene lasciando che il costo del salvataggio delle istituzioni finanziarie si scarichi diluito nel tempo sulle spalle del contribuente e del risparmiatore. Se questo è straordinariamente evidente negli Stati Uniti, è sufficiente leggere i bilanci bancari europei degli ultimi dodici mesi per vedere come l’attività tradizionale che ha per oggetto la clientela individuale è tornata a essere il motore degli utili. Nei mesi prossimi vedremo le banche recuperare redditività in ogni modo per ricostruire il capitale, come è evidente già ora perfino nel travagliato mercato dei mutui.



La salvezza del sistema finanziario è un bene pubblico e i cittadini forse sarebbero anche disposti a pagare un prezzo per avere stabilità economica e finanziaria. Ma questa crisi rischia di trasformarsi in una tassa occulta sul cittadino. Se proprio non si vuole identificare chi ha causato i danni e condannarne esplicitamente il sistema che lo ha permesso, almeno sarebbe giusto che il costo che ne porteremo come cittadini e risparmiatori diventi trasparente.

mercoledì 17 settembre 2008

PAESAGGIO ITALIANO : L´Italia che rischia di scomparire: ecco i dieci paesaggi più minacciati.

PAESAGGIO ITALIANO : L´Italia che rischia di scomparire: ecco i dieci paesaggi più minacciati. E a sorpresa spunta anche Torino
FRANCESCO ERBANI
MERCOLEDÌ, 17 SETTEMBRE 2008 la Repubblica

La campagna di "Italia Nostra": dal 20 settembre mostre, dibattiti ed escursioni.

Dall´Appia Antica al Delta del Po, il pericolo più grave è l´espansione edilizia.

La vasta campagna senese e il centro storico di Torino.
Il Delta del Po e l´area delle Ville venete.
Il Parco di Monza e il Lago di Garda.

La campagna dell´associazione di tutela si intitola "Paesaggi sensibili" ed è illustrata da un dipinto di Tullio Pericoli (stamattina la presentazione nella sede di Italia Nostra a Roma). Dal 20 settembre si terranno in questi luoghi una serie di iniziative - dibattiti, escursioni, mostre - che si estenderanno a circa una cinquantina di altri siti, tutti insidiati da manipolazioni che vistosamente o subdolamente ne brutalizzano i caratteri.

«Non è una selezione di paesaggi eccellenti», spiega Giovanni Losavio, magistrato di Cassazione, presidente di Italia Nostra. Sono luoghi in cui si manifestano le tante forme che assume, agli occhi di un visitatore, «il volto della patria», sottolinea Losavio citando Benedetto Croce che da ministro propose nel 1920 la prima legge a difesa del paesaggio.

Il lembo di mare chiuso fra la costa calabrese e quella siciliana verrebbe radicalmente alterato dal Ponte. Ma già ora gli incendi hanno inaridito e reso irriconoscibili le colline della sponda reggina, mentre le costruzioni abusive si sono spinte fino alle foci e ai greti dei torrenti e si sono spalmate caoticamente lungo tutto il litorale.

Il parco dell´Appia antica è invaso dalle macchine, che lo usano come via d´accesso a Roma. È punteggiato da costruzioni abusive, molte delle quali sfacciate (ville, capannoni industriali, stand commerciali, piscine) e questo fenomeno stenta ad arrestarsi. L´area è abbandonata in una situazione di grande incertezza, non è ancora approvato il piano d´assetto, mentre le ipotesi di allargamento dei suoi confini, che scongiurerebbero alcune lottizzazioni o la costruzione di centri commerciali, stentano a realizzarsi.

Un altro gioiello archeologico vilipeso è la necropoli punica di Tuvixeddu a Cagliari, con oltre duemila tombe, molte delle quali sono trattate come una discarica, assediate da edifici a sei piani. Intorno alle sepolture potrebbe sorgere un intero quartiere. La vicenda è tormentata e ora è a un punto morto: il Consiglio di Stato ha bocciato i vincoli imposti dalla Regione, che, insieme alla Direzione regionale dei Beni Culturali, intende comunque evitare la lottizzazione.

Anche la campagna senese è fra i paesaggi a rischio, minacciata da piccoli e grandi insediamenti: ma molte preoccupazioni desta l´ampliamento del piccolo aeroporto di Ampugnano che dovrebbe diventare uno scalo internazionale, moltiplicando le presenze turistiche e deformando l´equilibrio di un territorio fatto di colli, di pievi medioevali, di borghi, di boschi e di macchie.

Altro equilibrio fragilissimo è nel Delta del Po, dove si intrecciano paesaggi di terra e d´acqua, ma sul quale incombe un´urbanizzazione fatta di seconde case che negli ultimi anni è diventata impetuosa. Come impetuoso è il consumo di suolo nel Veneto centrale, il Veneto palladiano, nei luoghi eletti dalla nobiltà veneziana per il loro loisir.

Losavio disegna uno scenario preoccupante: «Si estende in quasi tutto il paese la prassi dell´urbanistica contrattata, con le amministrazioni pubbliche che negoziano con i privati la trasformazione di un´area, siglando varianti o accordi di programma e travolgendo ogni idea di pianificazione. La deregulation è diventata la norma. Tanto più lo sarà se viene ripresentato il disegno di legge Lupi che durante il governo Berlusconi dal 2001 al 2006 proponeva di fatto di sottrarre alla mano pubblica il controllo dell´urbanistica».

martedì 16 settembre 2008

Un fallimento dell'alta finanza

Un fallimento dell'alta finanza

Il Manifesto del 16 settembre 2008, pag. 1

di Guglielmo Ragozzino

Nel tentativo di salvarsi dal disastro delle case e dei mutui a rischio, i famosi subprime, le maggiori banche d’investimento Usa, per rifarsi almeno in parte di una speculazione gigantesca e ormai finita male, hanno puntato sul petrolio. La crescita dei 50% in poche settimane del prezzo di riferimento è molto dovuta a loro. Mani forti che comperano a prezzi crescenti il petrolio futuro, spingendo per raggiungere il massimo ogni giorno di contrattazione, con la convinzione di poter presto rivendere i contratti a prezzi assai più alti.





Ma il petrolio e più in generale l’economia reale, le persone qualsiasi, non hanno dato retta.



Perfino la politica si è opposta. Tanto per dirne una, i due partiti, unanimi, alle loro Convenzioni, hanno in sostanza fatto capire che i vincoli ambientali sarebbero stati accantonati, secondo gli auspici di Sarah Palin, governatore dell’Alaska.



Il sistema della finanza bancaria Usa è rimasto con il cerino in mano. La quotazione del petrolio è rapidamente tornata entro confini più ragionevoli. Il dollaro, moneta che si usa per comprare il petrolio, ha ripreso anch’esso fiato e gli speculatori dei mondo finanziario hanno segnato altre perdite cui non avevano modo e forze per fare fronte. E il disastro, solo rimandato di poche settimane, si è ripresentato con ancora più impeto.



Parliamo di Lehman Brothers. Quinta banca americana, al 37° posto nella classifica di Fortune tra le 500 principali imprese Usa. Chiede la solidarietà delle altre maggiori strutture finanziarie e bancarie, senza però ottenere altro che belle parole. Non muove un dito Citigroup che è all’8° posto della classifica, tanto meno Bankamerica che è all’ 11°, o Goldman Sachs al 20° o Morgan Stanley al 21°. Lehman è diventato un concorrente che si può eliminare, in una lotta di tutti contro tutti. Non intervengono i cavalieri bianchi dell’Europa che pure hanno promesso il loro aiuto. La solidarietà in quell’alta finanza che ha dominato gli ultimi anni del secolo scorso e ancor più questo secolo, dando a ogni attività umana una cifra legata al valore (al valore di borsa) è sparita. Si ritorna alle scorrerie dei baroni ladri ottocenteschi.



Il guaio è che vi sono intrecci di capitale ingestibili. Gli azionisti di Lehman, quelli che hanno perso tutto il loro capitale, sono in parte gente comune, risparmiatori che si sono fidati, ma sono più che altro i compagni di avventure finanziarie di Lehman. Il principale azionista è la maggior compagnia assicurativa d’Europa, Axa che infatti fa subito precipitare la Borsa di Parigi. C’è George Soros, c’è Allianz, altro assicuratore europeo che ha fuso proprio ieri l’altro due principali banche tedesche. C’è la banca inglese Barclays, molto tentata a intervenire in appoggio. Ma i cocci di Lehman costano troppo e Bank of England, la famosa Old Lady, fa capire che è meglio di no. E ci sono tutti i concorrenti americani di Lehman, le banche prima citate.



La Fed, Banca centrale, ci pensa un po’ e non interviene. Lascia che Lehman chieda la protezione dell’articolo 11, cioè dichiari la sua insolvenza al riparo di azioni di creditori. Non è disposta, la Fed, a finanziare le perdite di un’altra banca ancora. Il rischio, anzi la certezza, è che molti banchieri faranno la fila davanti alla porta per ottenere altrettanto.



Qualche giorno fa in una brillante intervista di Milena Gabbanelli (Il Sole 24 Ore, 9 settembre) un prestigioso banchiere, Matteo Arpe, ha raccontato la sua versione dei fatti. Entrato ventenne a Mediobanca con 1,2 milioni di stipendio, ne è uscito 13 anni dopo come alto direttore e 420 milioni di salario annuo. Era il 2000. Dopo ben 4 mesi di pausa in famiglia «con i miei figli, allora molto piccoli», eccolo a bordo di Lehman: «il mio stipendio era 10 volte superiore a quello in Mediobanca». Il secondo dei due stipendi, siamo portati a credere. Arpe non è rimasto a lungo da Lehman. Un banchiere sa cambiare lavoro. Diverso il caso di migliaia di impiegati, alla City di Londra. Oggi in quattromila ex Lehman non hanno più lavoro né lo stipendio di settembre e neppure vere prospettive. Ma che volete, è la finanza: sta creando valore.

lunedì 15 settembre 2008

L’11 settembre della Lehman Generation

L’11 settembre della Lehman Generation

La Repubblica - Affari e Finanza del 15 settembre 2008, pag. 1

di Massimo Giannini

A Wall Street lo chiamavano «Gorilla». Adesso che Richard Fuld ha portato Lehman Brothers a un passo dal fallimento, si vedono i disastri che ha combinato in quella «giungla» che sembra diventata la finanza globale. La gloriosa banca d’affari, che due anni fa valeva a spanne 40 miliardi di dollari, oggi ne vale 2,7. Fa impressione leggere sul Wall Street Journal il pazzesco tourbillion di manager che il fantasioso «Ceo» ha gestito in quest’ultimo anno vissuto pericolosamente da Lehman.



A febbraio Andrew Morton succede a Roger Nagioff come capo del reddito fisso. A giugno Herbert Bart McDade III succede a Joseph Gregory come presidente, Ian Lowitt sostituisce Erin Callan come « cfo», Michael Gelband rientra in un nuovo ruolo creato per lui come capo del mercato dei capitali, Alex Kirk succede a David Goldfarb come capo dell’area investimenti, Gerald Donini prende il posto di McDade come capo dell’area «equity». A luglio se ne va Jack Rivkin, ad agosto Ted Jannulis lascia la poltrona di capo dell’area mutui e Rich McKinney, responsabile dei prodotti di «securization», lascia la compagnia. A Settembre ricomincia il giro, Morton saluta e la sezione reddito fisso passa alla coppia Eric Fel der-Hyung Soon Lee. La stessa cosa fa il capo esecutivo dell’area Europa-Medioriente Jeremy Isaacs, che abdica in favore di un’altra coppia, Riccardo Banchetti e Christian Meissner. Un via vai di bella gente, che attraverso le sliding doors è entrata e uscita da Lehman, ogni volta con un bel pacco di soldi in tasca. Il risultato è noto: perdite per quasi 4 miliardi di dollari, titolo che in tre giorni lascia sul campo più del 50% del suo valore.



In questo lungo elenco c’è condensato molto più che il dissesto di una grande banca d’affari. C’è piuttosto racchiuso il collasso di un’intera «Lehman Generation» che in questi giorni ha vissuto il suo 11 settembre, ma è partita da Bear Stearns, abbracciando Freddie & Fannie, incrociando Northern Rock e Società Generale. Il simbolo di una crisi di sistema che non solo non è finita, ma forse deve ancora dispiegare i suoi effetti più profondi e più difficili da prevedere. Basta leggere «Supercapitalismo», lo scioccante saggio di Robert Reich, per rendersene conto. «Il libero mercato ha trionfato, ma la democrazia si è indebolita», scrive l’ex segretario al Lavoro dell’Amministrazione Clinton. Temiamo che abbia ragione. Ma la classe politica, americana e europea, fatica a capirlo. E la classe manageriale fa anche di peggio. Gorilla nella nebbia.

Il crac della Lehman e lo schiaffo al Tesoro Usa

Il crac della Lehman e lo schiaffo al Tesoro Usa

La Repubblica del 15 settembre 2008, pag. 1

di Federico Rampini

E' una disperata corsa contro il tempo per limitare i fallimenti a catena tra i colossi bancari americani. Nel giro di poche ore ieri sera i convulsi negoziati tra il governo, la banca centrale e i big di Wall Street hanno prodotto due sorprese.

Un drammatico fiasco, e un potenziale colpo di scena positivo. Da una parte la merchant bank Lehman Brothers non ha trovato acquirenti e sembra condannata alla liquidazione fallimentare. Dall'altra Bank of America sarebbe disposta a salvare, acquistandola, un'altra gloriosa istituzione sull'orlo del crac: Merrill Lynch.

La crisi attuale è talmente grave che l'ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan la definisce "un evento che si verifica una sola volta in un secolo". Mentre i suoi successori si affannavano senza successo al capezzale della Lehman Brothers, lui lanciava una previsione sinistra: "Altre banche falliranno". Bill Gross, fondatore e presidente di Pimco, uno dei maggiori fondi d'investimento del mondo, parla di uno "tsunami finanziario" e rivela che tutti i colossi bancari sono fragili: "Ormai solo il Tesoro può ancora mobilitare dei capitali".

Ma il Tesoro degli Stati Uniti, nella persona di Henry Paulson, ieri sera viveva una prova durissima. Erano le ultime ore utili per affrontare il crac annunciato della Lehman Brothers, quarta banca d'investimento di Wall Street con 25.000 dipendenti. Arrivato al terzo giorno di consultazioni tese e frenetiche con tutti i maggiori banchieri d'America, più alcuni europei e asiatici, Paulson ha dovuto incassare un'umiliazione.


La Barclays, terza banca britannica, si è chiamata fuori dopo essere stata per tutto il weekend la candidata più gettonata per comprarsi almeno il "pezzo sano" di Lehman. "Non ci sono sufficienti garanzie per proteggerci da ulteriori perdite nascoste nei bilanci della Lehman", è stato il pesante verdetto dei dirigenti Barclays prima di eclissarsi. Quel no inglese ha fatto vacillare il delicato edificio che il segretario al Tesoro aveva tentato di costruire durante tutto il weekend, con l'appoggio della Federal Reserve e della Sec (l'autorità di vigilanza sui mercati).

L'ipotesi di lavoro fino a quel momento era stata la divisione in due del "cadavere" Lehman Brothers. Da una parte quel poco di attività ancora sane e redditizie, da vendere al migliore offerente. Dall'altra una "bad bank" da costituire infilandoci dentro tutto il patrimonio a rischio: dagli investimenti immobiliari ai famigerati "credit default swaps", contratti di assicurazione contro il fallimento, titoli altamente speculativi che sono l'epicentro di un nuovo collasso finanziario. In questa "cattiva banca" andrebbero stipati degli attivi finanziari dal valore così dubbio che gli esperti li definiscono "toxic assets", un termine più adatto a descrivere una discarica di rifiuti contaminati dalla diossina.

La "cattiva banca", nelle speranze del Tesoro, dovrebbe essere salvata con l'intervento di tutti i principali attori di Wall Street. Proprio quelli convocati nella sede della Federal Reserve di New York per tre interminabili giornate di trattative, da venerdì sera a ieri sera: Citigroup, JP Morgan Chase, Morgan Stanley e altri. Un vertice interminabile e convulso, che fino a tarda sera non ha trovato alternative a una liquidazione fallimentare.

E dietro il crac di Lehman già si profilano all'orizzonte altre possibili bancarotte: il disastro dei "credit default swaps" ha fatto crollare del 30% in una sola seduta di Borsa il valore del colosso assicurativo Aig; nel campo bancario le prossime vittime potrebbero essere la cassa di risparmio Washington Mutual e la Merrill Lynch.

Ma è proprio per Merrill Lynch che a sorpresa nella tarda serata di ieri è spuntato il "cavaliere bianco", nelle vesti di Bank of America. Seconda banca americana, con una vastissima rete commerciale, molto insediata nelle attività tradizionali, e apparentemente un po' meno martoriata dalle perdite sui mutui e sulle attività speculative. Bank of America ha improvvisamente rivelato la sua disponibilità a trattare l'acquisto di Merrill Lynch, arginando almeno in parte l'effetto-domino che minacciava di travolgere una dietro l'altra le principali merchant bank di Wall Street.

Il ministro del Tesoro dopo i salvataggi di Bear Stearns e la nazionalizzazione di Fannie e Freddie è in serie difficoltà. Lo si accusa di scaricare sul bilancio pubblico oneri che verranno pagati dagli americani per generazioni. Inoltre Paulson deve vedersela con le richieste di salvataggi che non vengono da Wall Street bensì da Detroit: i tre colossi agonizzanti dell'industria automobilistica (General Motors, Ford e Chrysler) hanno chiesto al Congresso gigantesche sovvenzioni per scongiurare il fallimento. I colletti blu dell'industria automobilistica sono un elettorato in bilico fra McCain e Obama. Dire sì alle richieste di aiuti dei banchieri di Wall Street, e negare la ciambella di salvataggio a Detroit, potrebbe avere conseguenze cruciali nel voto del 4 novembre.

sabato 13 settembre 2008

"I big dei farmaci alleati del diabete"

"I big dei farmaci alleati del diabete"

La Stampa del 9 settembre 2008, pag. 8

di Daniela Daniele

Per quattro anni direttore dei trapianti cellulari al Transplantation Institute dell’Università di Pittsburgh. Dal 1993 dirige la divisione trapianti del prestigioso Diabetes Research Institute, ateneo di Miami. Camillo Ricordi, laurea all’Università di Milano, è uno dei cervelli nostrani impegnati all’estero. Uno dei più brillanti.
Professore, dove abitano le speranze per vincere il diabete?
«Nella ricerca sulle staminali. Da queste si può partire per rigenerare le cellule beta che producono insulina».

Ma l’argomento incontra, almeno nel nostro Paese, forti resistenze per l’impossibilità di usare gli embrioni.
«Non solo in Italia. Negli Stati Uniti c’è il veto di Bush. Anche se, per la verità, gli studi si fanno ugualmente nei centri privati: il divieto infatti riguarda l’utilizzo di fondi federali. Ci si serve di materiale prodotto dalla fertilizzazione in vitro e destinato alla distruzione. Viene considerato alla stregua dei donatori di organi: non si capisce perché il concetto vada bene per il cuore di un morto suicida o in un incidente stradale e non per i prodotti in provetta».

Perché è necessaria la ricerca in questo filone?
«In Italia abbiamo 1.200 donatori che ci consentono di utilizzare cellule beta da cadavere e tre milioni di malati. Negli Stati Uniti i donatori sono 6 mila e i pazienti venti milioni. In tutto il mondo i diabetici sono circa 246 milioni. E si parla di epidemia crescente. Non è difficile comprendere perché sia così necessario trovare una fonte illimitata di cellule produttrici di insulina...».

Quanto tempo ci vorrà?
«Dai cinque ai dieci anni».

Gli studi sono molto avanti in America?
«Gli Usa spendono 174 miliardi di dollari all’anno per curare i diabetici. In pratica, un dollaro ogni sei, nella sanità, è investito a questo scopo. Ma le multinazionali del farmaco, ovvero quelle con la potenza economica per sviluppare tali studi, investono nel settore una minima parte di quanto potrebbero. Pochi giorni fa, altre due Big Pharma hanno comunicato il loro mancato interesse in questo campo. Il motivo? Si tratta di “financial marketing consideration”... Decisioni prese dall’alto».

Meglio curare che guarire? Alle multinazionali conviene continuare ad avere persone malate e investire in ricerca di nuovi farmaci, per autoalimentarsi, anziché cercare di risolvere il problema?
«E’ così. Ma è un aspetto che, purtroppo, riguarda tanti altri campi di ricerca, per esempio quello sul cancro. Ecco perché sarebbe meglio che non fosse lasciato tutto solo nelle mani dei privati».

Lei è noto nel mondo per aver sviluppato un metodo innovativo grazie al quale è stato possibile, negli Anni Novanta, realizzare i primi allotrapianti (di tessuti tra la stessa specie, n.d.r.) di isole pancreatiche nei malati. A che punto è questa via?
«Malgrado i progressi degli ultimi anni, ci sono ancora molte limitazioni all’impiego su vasta scala di queste risorse. Per esempio, la necessità di ricorrere a farmaci immunosoppressori a vita e il lento deterioramento nel tempo della funzionalità delle isole stesse. Oggi sono però allo studio diverse altre strategie d’intervento per superare i problemi e ridurre al minimo gli effetti indesiderati delle terapie immunosoppressive».

Il diabete tipo 1, patologia autoimmune dovuta alla distruzione delle cellule beta del pancreas a opere di cellule del sistema immunitario, sta crescendo in modo inatteso. Perché, professore?
«Le cause non sono chiare. Credo, però, si debba indagare nella direzione dell’aumento generale delle malattie autoimmuni, legato all’eccesso di igiene».

Fannie e Freddie, un esempio di finanza creativa

Fannie e Freddie, un esempio di finanza creativa

Corriere della Sera del 11 settembre 2008, pag. 36

di Massimo Mucchetti

L’ufficio del Bilancio del Congresso avverte il Tesoro degli Stati Uniti che Fannie Mae e Freddie Mac dovranno essere inclusi nei conti pubblici.

L’effetto della nazionalizzazione delle due grandi agenzie dei mutui immobiliari sarà tale da far emergere, secondo alcuni commentatori, il più radicale degli interrogativi: è questo un fallimento del mercato o è proprio il libero mercato che conosciamo a mostrare la corda? Certo, a questo punto non c’erano alternative. Le obbligazioni di Fanne & Freddie, 5400 miliardi di dollari, sono in portafoglio all’universo mondo e una duplice insolvenza di tale entità avrebbe avuto devastanti effetti a catena. Ma forse bisogna anche domandarsi quale sia oggi lo stato delle finanze pubbliche e private americane e come si sia arrivati a questa nuova, enorme pubblicizzazione delle perdite. Il debito federale degli Usa è pari a 9.650 miliardi di dollari contro un prodotto interno lordo di 13 mila miliardi. Parte del debito, 5510 miliardi, è collocata presso il pubblico dagli enti centrali. Il resto, 4145 miliardi, è contratto dalle amministrazioni dei diversi stati dell’Unione. Questo capitolo comprende anche i municipal bonds, obbligazioni emesse dalle centinaia di enti pubblici locali, le cosiddette public authorities, che posseggono autostrade, porti, aeroporti, reti elettriche, case popolari, ospedali, scuole.



Il debito di Fannie & Freddie, per dare un’idea, è pari a due volte l’intero pil dell’Italia. Fino a ieri non veniva considerato nel bilancio pubblico perché le due società erano private. Fannie & Freddie, tuttavia, godevano della sponsorizzazione governativa e, grazie a questa informale garanzia, hanno potuto indebitarsi senza limiti e a condizioni vantaggiose rispetto a banche e assicurazioni. Quanto poco informale fosse quella garanzia si è visto in questi giorni: nel momento del bisogno è puntualmente scattata. Chi ha parlato di finanza creativa quando Giulio Tremonti scambiava i titoli del Tesoro con quelli della Banca d’Italia o scaricava un po’ di debito pubblico sulla Cassa depositi e prestiti cedendole quote di Eni ed Enel deve oggi constatare quanto maggiore e più prolungato nel tempo sia stato l’uso della finanza creativa da parte dei governi Usa. Se Fannie & Freddie vi venissero consolidate, il debito pubblico americano supererebbe il pil più di quanto non accada da noi. Con il particolare che le famiglie americane sono anch’esse indebitatissime, avendo ormai superato il 140% del reddito disponibile. Le famiglie italiane, in proporzione, sono indebitate per la metà. Si potrebbe dire che oltre Atlantico ci si espone di più perché si ha più fiducia nel futuro. Ma qual è il limite oltre il quale la fiducia diventa imprudenza e il coraggio temerarietà? A questo limite, probabilmente, si è ormai arrivati. Ma non di colpo. Fannie & Freddie e le public authorities hanno retto lo sviluppo degli Usa da Roosevelt ai giorni nostri. E una storia di settant’anni non può essere liquidata facilmente. Delle obbligazioni municipali ancora nulla si dice, ma della crisi di Fannie & Freddie si sa che è maturata quando, a partire dagli anni Novanta, sui vecchi mutui si sono costruite le più ardite emissioni obbligazionarie allo scopo di esaltare i rendimenti a beneficio degli azionisti e del management. Prima, sia durante la gestione pubblica che durante gli iniziali vent’anni di gestione privata, il gioco ha funzionato alimentando l’industria delle costruzioni, l’attività bancaria e l’immobiliare fino a diventare la grande base della grandissima piramide rovesciata del capitalismo finanziario.



Si dice: la degenerazione delle due agenzie è dovuta alla surrettizia presenza dello Stato garante che ha indotto nei gerenti un eccesso di sicurezza. Ma allora come mai Bear Steams e le altre privatissime banche d’investimento, ormai garantite dalla Federal Reserve, si erano prese gli stessi rischi? Forse il problema non è la prevalenza del pubblico o quella del privato, ma la deregulation che ha dato all’intera finanza internazionale, e a quella anglosassone in particolare, l’illusione di poter reiterare all’infinito debiti crescenti perché la finanza era diventata troppo grande per fallire.

martedì 9 settembre 2008

Ritalin, inchiesta bis. Caccia a centro medico abusivo

La Repubblica, edizione Bologna 7.9.08
Ritalin, inchiesta bis. Caccia a centro medico abusivo

Il pm Persico aveva appena chiuso il fascicolo sul farmaco per ragazzi iperattivi, ma da un sito Internet sarebbero emersi nuovi indizi

La Procura ha aperto una nuova inchiesta sul Ritalin, lo psicofarmaco usato sui ragazzi affetti da deficit di attenzione ed iperattività. A finire sotto accusa è di nuovo Monica Pavan, portavoce dell´associazione Agap (amici di Paolo), nei cui confronti qualche giorno fa il pm Persico aveva chiesto l´archiviazione dall’accusa di esercizio abusivo della professione di psicologa.
Chiuso un fascicolo ne spunta un altro. La Procura ha disposto una nuova inchiesta sul Ritalin, lo psicofarmaco usato sui ragazzi affetti dalla sindrome di Adhd (Attention deficit hyperactivity disorder), ovvero il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività. A finire sotto accusa è ancora Monica Pavan, portavoce dell´associazione Agap (amici di Paolo), nei cui confronti qualche giorno fa il pm Luigi Persico aveva chiesto l´archiviazione dall´accusa di esercizio abusivo della professione di psicologa.
Se allora l´inchiesta, aperta dopo le polemiche sollevate dalle associazioni che si battono per la messa al bando del farmaco, ipotizzava un´attività di propaganda sull´uso del farmaco Ritalin nel corso di incontri avvenuti in alcune scuole elementari bolognesi, stavolta è stata una telefonata pubblicata in rete far scattare le indagini delegate ai carabinieri del Nas. Nella conversazione, registrata e inserita sul sito Internet dell´associazione "Giù le mani dai bambini", tra le più attive nella battaglia contro l´utilizzo degli psicofarmaci sui minori, la portavoce dell´Agap viene contattata da un genitore che finge di chiedere consigli per risolvere i problemi del figlio. Luca Poma, dell´associazione "Giù le mani dai bambini", spiega di essere entrato in possesso del materiale il 1° settembre e di averlo inviato in Procura giorni fa. «Eravamo a conoscenza della registrazione già quest´inverno - dice Poma -, e senza sentirla avevamo consigliato al genitore di rivolgersi ai carabinieri». Fino a ieri però in piazza Trento e Trieste del materiale non c´era traccia e quindi Persico ha acquisito il file audio dal web. Nel corso della telefonata, la Pavan parlerebbe di un centro "operativo" a Bologna dove portare i ragazzi: «Noi siamo quelli che facciamo il lavoro effettivo, li prendiamo in carico noi», dice la donna all´interlocutore attaccando anche l´Ausl. Nella conversazione si parla nuovamente del centro di San Donà di Piave (Venezia), una struttura dove sarebbero più "propensi", rispetto ad altri, nel prescrivere il farmaco. Il sospetto alla base della nuova inchiesta è relativo proprio all´esistenza di un presunto centro diagnostico abusivo dove verrebbero visitati i bambini. Una struttura che se esiste veramente, spetterà al Nas scovare. Nella registrazione, la «sedicente esperta - spiega Poma - si fa chiamare "dottore" dall´interlocutore, discute dell´ordine dei medici e parla di psicofarmaci con grande leggerezza». Infatti, «ne spiega gli effetti sul cervello dissertando di genetica e di diagnosi sui bimbi, di fatto invogliando il suo interlocutore ad adottarli come terapia in quanto "stracollaudati ed utilissimi" ed "usati in passato - sostiene lei - anche da dentisti e pneumologi"». Ma non è tutto. La donna parlerebbe poi anche di «intercettare genitori a Bologna, Mantova, Ferrara» per «portarli a San Donà di Piave». Affermazioni tutte da verificare, che hanno imposto al pm Persico di avviare nuove indagini per lo stesso reato: esercizio abusivo della professione medica. La Procura, che acquisirà la trascrizione della telefonata, dovrà valutare se le indicazioni fornite dalla donna siano semplici suggerimenti o se ci siano elementi penalmente rilevanti. Nella vecchia inchiesta il Nas non aveva trovato traccia di abusi o prescrizioni illecite. Tra le carte del nuovo fascicolo aperto dal pm c´è anche un´interrogazione firmata da un deputato di Forza Italia, Mariella Bocciardo, sostenitrice di un progetto di legge per vietare l´uso di psicofarmaci sui bambini. «Ciò che emerge dalla telefonata - scrive la parlamentare - è inquietante. Una situazione di organizzata ingerenza da parte di soggetti che millantano competenze e titoli che non hanno».
(ale.co.)

mercoledì 3 settembre 2008

Cittadella (pd) - Domenica 7 settembre 2008 - con Reitia

Cittadella (pd) - Domenica 7 settembre 2008 - con Reitia

Cittadella (pd)
Domenica 7 settembre
Con la dea Reitia

Anche quest'anno, per la precisione questa è la quinta sfilata, i pagani e wiccan veneti sfileranno intorno alle mura di Cittadella con gli stendardi della dea Reitia.
Tutti vi posso partecipare, è una festa pubblica.
I pagani e wiccan veneti saranno presenti per tutta la giornata con i loro gazebo in piazza. Durante questa edizione della "Festa dei Veneti", organizzata da "Raixe Venete", vi sarà anche la nostra mostra sui veneti antichi.
“I veneti antichi, alla scoperta della nostra storia antica” e’ il tema dell’edizione di quest’anno della festa.
La "Festa dei Veneti" con il passare degli anni si è sempre più affermata, nelle ultime edizioni ha raggiunto le 30.000 presenze. Decine e decine sono i gli espositori.
Per chi vuole partecipare solo alla sfilata, l'orario di partenza degli stendardi è fissato verso le ore 15.00.
Su Youtube si possono trovare i video delle sfilate precedenti.