sabato 19 dicembre 2009

Nessuno tocchi internet

Nessuno tocchi internet

Terra del 16 dicembre 2009

Luca Nicotra

Alcuni dei messaggi e dei gruppi che si trovano sul social network Facebook in queste ore, dopo l’aggressione nei confronti del premier Silvio Berlusconi, sono sconcertanti. Sono migliaia le persone che non hanno il timore di associare pubblicamente il proprio nome a istigazioni alla violenza o a insulti al Premier. Ciononostante è importante evitare facili allarmismi: Internet non è il far west. Anche sul web esistono delle leggi, e se verrà accertato che qualcuno ha commesso un reato, inneggiando alla violenza contro Berlusconi o in qualsiasi altro modo, è giusto che sia perseguito. Dai tribunali però. A questo proposito la Procura di Roma ha già annunciato di aver aperto un fascicolo relativo ai gruppi apparsi ieri su Facebook. Ogni allarmismo appare quindi immotivato. C’è invece il rischio effettivo che il clima di scontro politico duro venga usato come pretesto per introdurre in Italia, sull’onda dell’emozione, norme restrittive e da stato di polizia, come è successo altre volte nel paese. Ad esempio dopo gli attentati terroristici negli Stati Uniti e in Europa, con l’introduzione di quel decreto Pisanu che prevede la schedatura preventiva dell’identità e delle attività di chi naviga in rete, per evitare il rinnovo del quale l’associazione Agorà Digitale e Radicali Italiani si stanno mobilitando in questi giorni. Dopo l’aggressione al premier moltissimi parlamentari ed esponenti del governo hanno rilasciato dichiarazioni che invocano leggi in grado di controllare e sanzionare comportamenti che incitino alla violenza in Rete, in modo rapido ed efficiente. E direttamente su iniziativa del governo. Eppure la censura di Stato ha poco a che vedere con la giustizia. Ha molto a che vedere, invece, con la volontà di limitare una libertà di espressione, quella online, difficile da controllare e che per i governi si dimostra sempre più un problema. Ha a che vedere con il tentativo di trovare una spiegazione tranquillizzante alla violenza di certe esternazioni, dipingendo Internet come un luogo frequentato da criminali e squilibrati, un luogo oscuro da cui proteggersi. Qualcuno si è spinto fino a sostenere che Tartaglia “era vicino agli ambienti dei social network”. Si tratta di un’immagine terribilmente falsa. I Radicali, i messaggi che oggi si leggono sulle bacheche di Facebook e del web, li conoscono bene. Sono gli stessi che si ascoltavano negli anni ‘80 o ‘90 a Radio Parolaccia, quando aprimmo i microfoni di Radio Radicale senza filtro 24 ore su 24. Un esperimento che consentì di ascoltare la voce di un’Italia che strepita, urla, minaccia, impreca e bestemmia e che oggi Internet permette di replicare su base permanente e per un numero di cittadini sempre maggiore. Un paese a volte orrendo, ma che esiste e non si può cancellare, e di cui invece sarebbe utile cercare di comprendere le cause. Nel frattempo agli onorevoli D’Alia, Carlucci, Maroni e quanti altri in queste ore stanno inneggiando alla censura in Rete è bene ribadire che la libertà si esercita nei casi limite. Quelli più sgradevoli o ripugnanti. Non ci sono direttori responsabili dentro Facebook e se qualcuno commette dei reati, a maggior ragione lì dove la privacy è praticamente assente, la responsabilità personale resta. Ma per questo c’è la magistratura. Altrimenti chi decide quali frasi sono da considerarsi oltre il limite accettabile. La Carlucci? Maroni? È importante che parlamento e società civile si mobilitino per limitare le tentazioni da stato di polizia del governo. Noi radicali abbiamo presentato una interrogazione parlamentare rivolta ai Ministri Alfano e Maroni a prima firma Marco Beltrandi, deputato radicale del gruppo del PD, per fare chiarezza sulle notizie di una possibile introduzione mediante decreto legge della norma di apologia di reato su Internet, già con il prossimo Consiglio dei Ministri. Non è chiaro quali potrebbero essere i dettagli del provvedimento ma bisogna evitare che vengano riproposte norme che in qualche modo equiparino Internet all’editoria, con conseguenze disastrose sullo sviluppo della rete in Italia, come denunciato da numerosi operatori del settore, con lo spettro dell’oscuramento di intere piattaforme per l’impossibilità tecnica di chiudere singoli gruppi. Sarebbe un fatto contrario ad ogni elementare principio costituzionale. Il Parlamento ha già deliberato pochi mesi fa su una proposte simile, contenuta in un emendamento del senatore D’Alia, esprimendosi in modo nettamente contrario, con un voto condiviso da gran parte della maggioranza. Non crediamo che da allora le condizioni siano cambiate, e una riproposizione di norme simili mediante decretazione d’urgenza sarebbe un atto grave nei confronti dei diritti dei fruitori della rete e delle prerogative delle Assemblee legislative.

martedì 15 dicembre 2009

Eternit: “Facciamo emergere la verità. Facciamo trionfare la giustizia”

Eternit: “Facciamo emergere la verità. Facciamo trionfare la giustizia”

di Comitato Vertenza Amianto (Casale Monferrato)

Oltre 3000 persone in corteo a Casale il 1° Dicembre, per ricordare tutte le vittime di amianto davanti allo stabilimento Erernit e centinaia di bandiere tricolori con la scritta “ETERNIT GIUSTIZIA” appese alle finestre e ai balconi di Casale Monferrato e Cavagnolo ganno accompagnato simbolicamente la forte aspettativa di giustizia che l'intera comunità martoriata dall'amianto coltiva nei confronti del processo che vede imputati Stephan Schmidheiny e Louis De Cartier De Marchienne iniziato a Torino il 10 dicembre.

Le vittime sono oltre 3000 tra ammalati e deceduti, causate dagli stabilimenti Eternit di Casale M.to, Cavagnolo, Bagoli e Rubiera (RE)

Si dice che in Italia diminuiscono gli infortuni sul lavoro (1200 circa) e che questi dati si attestano sulla media europea, anzi si aggiunge che togliendo gli infortuni "in itinere" (e quindi non dovuti al lavoro direttamente) il trend infortunistico starebbe sensibilmente diminuendo ma non è così.

Dobbiamo ricominciare a dire forte, che questi lavoratori hanno perso la vita a causa dell'organizzazione lavorativa. Vi chiediamo di aiutarci a far conoscere tutto ciò ma non solo: spesso in Italia quando si parla di danni alla salute vengono forniti dati incompleti, specie per quanto concerne le migliaia di morti per cancro e malattie professionali. Nel nostro Paese, di lavoro si continua a morire, silenziosamente e non per tragica fatalità.

Abbiamo il bisogno di far sapere che è possibile far emergere la verità e far trionfare la giustizia anche attraverso lo strumento della denuncia penale che, grazie ad un lavoro straordinario del Procuratore di Torino Raffaele Guariniello e dei suoi collaboratori.

Nei 3/4 del pianeta si estrae e si lavora ancora l'amianto, prendestinando alla morte per dolo ed irresponsabilità, ancora centinaia di migliaia di lavoratrici e cittadini.

Anche per questo il Comitato Vertenza Amianto delle Associazioni casalesi unitamente a CGIL, CISL e UIL, rivolgono un appello agli organi di informazione affinchè sia garantita la necessaria divulgazione pubblica di questo importantissimo processo, il più grande sulle morti bianche ed ambientali d'Europa.

L'appello ai media

Quanti Tg,quante reti,quante radio raccoglieranno questo civilissimo appello? Quanti dedicheranno loro un’apertura,un titolo di prima,un approfondimento in prima serata?

In questi giorni abbiamo assistito ad una amplificazione oscena e programmata con cura della sentenza di Perugia, Per la ennesima volta un drammatico delitto “privato” è stato trasformato in un grande evento pubblico che ha cancellato tutto il resto,oppure lo ha relegato sullo sfondo.

Perché il grande delitto collettivo di Casale Monferrato non suscita altrettanta passione e compassione?Forse perché questo delitto collettivo non risponde allo spirito dei tempi,mette in questione l’organizzazione del lavoro e i valori dominanti,non serve a chi deve sfamare,anche politicamente,l’industria della paura?

Non chiediamo altro che di essere smentiti,anzi ci piacerebbe aprire la Tv e vedere in prima serata un grande plastico con la fabbrica,accanto gli esperti che spiegano nel dettaglio come il veleno abbia fatto il suo corso, e magari sentir leggere le denunce dell’epoca e le risposte della diverse autorità,ed ancora ci piacerebbe poter ascoltare e vedere le voci e i volti di chi non si è arreso e che reclama solo giustizia e verità,non per spirito di vendetta,ma per impedire che ad altri accada quello che loro hanno dovuto subire.

Del resto se gli studi Tv,specie quelli pubblici,possono ospitare inquisiti e condannati eccellenti,perché mai non potrebbero ospitare cittadini incensurati che chiedono giustizia?

Forse il loro torto è proprio questo:invece di continuare a ricercare la verità e a rispettare la leggi potevano cercarsi un protettore potente,magari uno stalliere mafioso.
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da radicali.it

lunedì 7 dicembre 2009

Sotto quella Coop c'è un sito etrusco. Inchiesta del ministro

Sotto quella Coop c'è un sito etrusco. Inchiesta del ministro
Luciana Cavina
il Resto del Carlino - cronaca Bologna 26/01/2006

Anche il ministro Rocco Buttiglione indagherà sulle cooperative, o meglio, su una decisione della Sovrintendenza ai beni archeologici di Bologna che, qualche anno fa, avrebbe permesso a Coop Adriatica di edificare su un terreno interdetto, invece, a un'altra catena di supermercati. Il fatto è venuto alla luce ieri pomeriggio a seguito di un 'question time' a Montecitorio su domanda al ministro per i Beni culturali del deputato dell'Udc Emerenzio Barbieri, assieme al capogruppo Luca Volontè. «Perché in Emilia Romagna — si è chiesto Barbieri — viene negato a un privato ciò che è consentito alla cooperazione e. ovviamente, solo a quella rossa?».
La vicenda comincia nel 1999. e investe il supermercato Coop 'Andrea Costa' costruito sull'omonima via. «Il 16 novembre 1999 — si legge nell'interrogazione — il ministero ha decretato l'apposizione di vincolo, su richiesta della Sovrintendenza di Bologna, sui resti di fondazioni murarie in ciottoli di un edificio rustico realizzato in età etrusca e utilizzato fino all'età celtica, in considerazione dell'eccezionale valenza storica dell'insediamento». Il terreno in cui vengono riscontrati questi reperti, valutati dalla sovrintendente Mirella Marini Calvari, è, appunto, quello di via Andrea Costa 160. «Il privato che avrebbe voluto costruirvi un supermercato — riassume Barbieri — si vede così costretto a fare marcia indietro», Il colpo di scena arriva qualche mese dopo, quando l'area passa nelle mani di Coop Adriatica, «una cooperativa — puntualizza l'onorevole centrista —- che ha come presidente Pierluigi Stefanini, attuale presidente di Unipol». La Coop, infatti, a differenza del proprietario precedente, si ritrova autorizzata a scavare e costruire, trasferendo altrove i resti archeologici. «Il nulla osta alla rimozione e al trasferimento dei reperti — si spiega nell'interrogazione — venne dato dalla Sovrintendenza prima nel maggio 2000 e poi
nel settembre 2001, nonostante il vincolo posto dal ministero».
«Questo secondo atto della Sovrintendenza— ammette Buttiglione nella risposta al "question time" —è illegittimo. La richiesta di revoca di un vincolo andrebbe adeguatamente motivata». Il ministro promette: «Ci sono parti di questa vicenda che devo chiarire, e farò adeguati approfondimenti».
I firmatari dell'interrogazione, però, pretendono anche altri chiarimenti: «Chi ha autorizzato il trasferimento di reperti giudicati di alto valore storico, in un altro terreno (in zona stadio; ndr) che è a malapena recintato, esposto alle intemperie e pieno di erbacce?». Forse se l'è domandato anche l'attuale sovrintendente. Pare, infatti, che non molto tempo fa dai suoi uffici sia partita la richiesta di ottenere dal ministero la documentazione relativa alle perizie sull'insediamento etrusco al centro della discordia. Ma il tutto navigherebbe ancora in alto mare.

Le Alpi come un luna park. Milioni di turisti, sempre più cemento: così cambiano le montagne

Le Alpi come un luna park. Milioni di turisti, sempre più cemento: così cambiano le montagne
Leonardo Bizzarro
la Repubblica, 01-FEB-2006

Un modello da rivedere. "National Geographic Italia", oggi in edicola, dedica un reportage alle Alpi e al difficile innevamento causato, anche, dall'effetto serra
Il circo delle Olimpiadi è imbiancato ma l'industria dello sci minaccia l'ambiente. Il reportage del "National Geographic Italia"
“Ogni stagione innevato artificialmente un quarto dei l00mila ettari di piste”
Il climatologo Mercalli: servono limiti per tutelare questi monti

100.000 a Chamonix sono i turisti al giorno, per 10mila abitanti
12mln i camion ogni anno in transito sulle Alpi
1800 gli impianti. Gli sciatori in un’ora su una seggiovia

TORINO—Fra nove giorni si accende il braciere olimpico e fino a sabato scorso, sulle valli dei Giochi, non era ancora nevicato, dopo la prima imbiancata di novembre. Nessun problema, le gare non hanno bisogno di precipitazioni dal cielo, bastano i cannoni. La neve portata sulle piste della Via Lattea dalla perturbazione del fine settimana, un evento sempre più raro, ha finalmente regalato al panorama un aspetto invernale, in tempo per le settimane bianche. E per le riprese televisive a cinque cerchi.
Ogni stagione viene innevato artificialmente un quarto dei circa centomila ettari di piste delle Alpi. Anche ammettendo che non sia utilizzato alcun additivo chimico—ma non dappertutto è cosi—il manto creato con i cannoni ha caratteristiche diverse rispetto a quello naturale. Più duro per chi scia, dura anche più a lungo, sotto il sole primaverile, con inevitabili effetti su flora e fauna.
L'industria dello sci, e in generale l'afflusso turistico sulle montagne, è solo uno dei problemi con i quali le Alpi sono costrette a venire a patti. Ne scrive Erla Zwingle in un reportage per National Geographic Italia, nato da un lungo viaggio sulle montagne, con le fotografie di Melissa Farlow e Randy Olson: “The Alps from end to end”, la catena da un angolo all'altro, come recitava nel 1895 il titolo del libro più famoso di sir Martin Conway, che ha reso popolare il turismo alpino fra i suoi connazionali.
Altri tempi, allora nessuno immaginava che nella Pitztal austriaca si pensasse di rivestire il ghiacciaio con una coperta di pile, per ridurne lo scioglimento. Il tentativo è dell'Università di Innsbruck, ma a chiederlo sono stati i gestori degli impianti di risalita, terrorizzati da un disgelo sempre più veloce.
Perché le Alpi oggi sono «il più grande parco giochi invernale d'Europa», secondo il National Geographic, e il loro sfruttamento è massiccio. Tutt'altra cosa dal «terreno di gioco» che ci volle vedere, nel suo libro omonimo del 1871, un alpinista vittoriano come Leslie Stephen, padre di Virginia Woolf: era quasi uno scherzo, significava che in montagna si andava per sport, che gli appassionati non dovevano più inventarsi pretesti scientifici, per puntare alle vette.
Adesso no, su quelle stesse cime corrono impianti sferragliami come fossero giostre, scivoli e altalene. Un«gioco» che ormai ha imboccato un circolo vizioso. L'irregolarità delle precipitazioni—se non vogliamo credere a un effetto serra che da sulle montagne il meglio di sé — impedisce di affidarsi all’andamento climatico per dare l'ossigeno necessario all'industria dello sci.
I cannoni per la neve sono necessari, le piccole stazioni che non se li possono permettere sono fallite una dietro l'altra. Ma la neve ha bisogno d'acqua, captata dai torrenti di montagna e quindi sottratta ai pascoli. E costa, 140mila euro a ettaro, nel 2003 l'Austria ha investito 128 milioni per rendere agibili le sue piste.
Una cifra che nella maggior parte dei comprensori gli introiti degli skipass non riescono a coprire. Fino a quando reggerà il sistema? Questo modello di sviluppo dello sci, a giudizio di molti esperti, è alla frutta. Il futuro non è più dei centri di sport invernali che ancora resistono a bassa quota, ma anche quelli ad altitudini più elevata dovranno farci i conti. «In un'epoca di abbondanza energetica — chiosa Luca Mercalli, climatologo ed esperto di glaciologia—in montagna è stato portato il modello della città. Oggi non è più possibile, lassù si dovrà tornare al mondo della sobrietà, com'è sempre stato. Bisogna cominciare a rispettare i limiti ambientali».
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nel disegno, dal nostro archivio:
antica rappresentazione della caccia selvaggia - leggenda delle Alpi

«Il saccheggio Usa dei tesori archeologici in Iraq»

«Il saccheggio Usa dei tesori archeologici in Iraq»
12/02/2006 La Sicilia

Beni culturali e politica: le accuse di un esperto italiano che andrà a Nassiriya

Giovanni Pettinato, uno dei massimi assirologi viventi, partirà il 23 febbraio per lavorare in Iraq, nonostante da parte americana gli sia stato fatto sapere che è persona non gradita. Lo ha rilevato lo stesso Pettinato a margine di una conferenza da lui tenuta a Rovereto sui miti della creazione del mondo e dell'uomo nelle religioni mesopotamiche. L'archeologo siciliano ha sottolineato che il governo italiano ha comunque deciso di inviarlo a Nassiriya, dove alloggerà assieme ai militari italiani. Potra così proseguire nel sud del Paese arabo il lavoro da lui già avviato per la ricostruzione dell'immenso patrimonio culturale iracheno, devastato dalla guerra e, soprattutto, dal dopoguerra.
Pettinato era già stato a Baghdad poco dopo l'abbattimento del regime di Saddam Hussein e vi aveva constatato, e denunciato, il tremendo saccheggio subìto dal museo archeologico della capitale irachena dopo la presa americana della città. Le truppe Usa, aveva raccontato Pettinato al suo ritorno in Italia, avevano provveduto a occupare e proteggere i punti strategicamente importanti di Baghdad, tra cui il ministero del Petrolio, mentre avevano lasciato il museo esposto alle devastazioni perpetrate dai saccheggiatori.
Ora, al momento di tornare in Iraq in applicazione dell'accordo a suo tempo sottoscritto per proseguire il lavoro avviato, Pettinato si è visto manifestare che non è gradito: un atteggiamento al quale, tuttavia, egli stesso e le autorità italiane hanno deciso di non dare alcun seguito. Nel sud, dove opererà, la situazione archeologica è «terrificante»: risulta, ha affermato Pettinato, che oltre 370 siti mai scavati sono già stati depredati. Il patrimonio archeologico locale è oggetto di un «saccheggio infinito».
I carabinieri italiani specializzati nel recupero dei beni culturali, ha raccontato l'assirologo italiano, avevano applicato un sistema che aveva funzionato: offrivano una ricompensa a chi portava a loro i reperti ritrovati. Sono state così recuperate ben diecimila tavolette con iscrizioni cuneiformi, rinvenute in siti che mai erano stati scavati prima d'ora, se non clandestinamente. Gli americani, ha accusato Pettinato, hanno però proibito di pagare gli iracheni che si prestano a tale scopo. Risultato: ora, ha lamentato l'esperto italiano, quei reperti non sono più recuperati al patrimonio culturale iracheno. Ci risulta tuttavia che arrivano negli Usa clandestinamente, ha concluso Pettinato.
An. Ga.
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nel disegno dal nostro archivio: antica raffigurazione del Shatt-el-Arab

sabato 28 novembre 2009

E gli agricoltori seminano sull´asfalto In duemila sfilano nel centro della città: chiedono sgravi fiscali e incentivi in vista della Finanziaria

E gli agricoltori seminano sull´asfalto In duemila sfilano nel centro della città: chiedono sgravi fiscali e incentivi in vista della Finanziaria
SABATO, 28 NOVEMBRE 2009 LA REPUBBLICA - Torino

Mais «seminato» sull´asfalto per denunciare le difficoltà in cui si trova il settore agricolo, la forte pressione competitiva e il crollo delle quotazioni dei prodotti. Sono stati oltre duemila i contadini aderenti a Confagricoltura e Cia che ieri mattina hanno manifestato per le vie del centro di Torino. «L´agricoltura è in pericolo: ha bisogno di aiuto», è stato lo slogan che ha aperto il corteo, terminato in piazza Bodoni. I presidenti di Confagricoltura e Cia, Federico Vecchioni e Giuseppe Politi, hanno incontrato i parlamentari piemontesi, la presidente della Regione Mercedes Bresso, il presidente del consiglio regionale Davide Gariglio, e l´assessore regionale all´Agricoltura Mino Taricco. Le richieste, in vista della legge finanziaria 2010, sono state di sgravi e incentivi tributari e contributivi. L´annata agricola 2009, che si è conclusa come da tradizione l´11 novembre, giorno di San Martino, ha mostrato un calo dell´8 percento del valore delle produzioni, con una perdita di 270 milioni rispetto al fatturato dell´anno precedente.

«L´agricoltura - affermano le associazioni agricole - sta vivendo la crisi più grave degli ultimi vent´anni. È urgente che le istituzioni intervengano con misure straordinarie per evitare la chiusura di migliaia di imprese agricole, salvando il reddito e l´occupazione di centinaia di migliaia di operatori agricoli e dell´indotto. Inoltre occorre mettere a punto una strategia di lungo respiro che ponga le condizioni per la competitività del settore. Salvare l´agricoltura vuol dire anche preservare il patrimonio culturale, paesaggistico, ambientale che è un fattore importante del nostro Paese».

mercoledì 25 novembre 2009

Venti anni di intifada. Radiografia del massacro

Venti anni di intifada. Radiografia del massacro

L'Unità del 23 novembre 2009

Umberto De Giovannangeli

Bilancio di un conflitto lungo venti anni. Gli anni della prima e della seconda Intifada. Bilancio di sangue. A stilarlo è B`Tselem, la più autorevole associazione israeliana per i diritti umani. Secondo il rapporto il conflitto israelo-palestinese ha fatto almeno 8.900 morti in due decenni, la gran parte dei quali erano palestinesi. I militari israeliani hanno ucciso 7.398 palestinesi, tra i quali 1.537 minori, sia in Israele che nei Territori occupati; i palestinesi, dal canto loro, hanno ucciso 1.483 israeliani, tra i quali 139 minori. Questi anni sono stati contrassegnati dalla prima Intifada (1987-1993), dalla seconda Intifada che è iniziata nel 2001 e dall`offensiva «Piombo fuso» di Israele contro la Striscia di Gaza.

BILANCIO DI SANGUE

Il 2009 è stato l`anno più sanguinoso con la morte di 1.433 palestinesi, di cui 315 minori, quasi tutti uccisi nel corso dell`operazione «Piombo fuso» (27 dicembre 2008 - 18 gennaio 2009). B`Tselem ha valutato che sono stati 1.387 (di cui 320 minori e 111 donne) i palestinesi uccisi in tre settimane. Il 1999 è stato l`anno meno sanguinoso per i palestinesi (8 morti) B`Tselem precisa che tra le vittime israeliane 488 erano membri della polizia o dell`esercito, le altre 995 sono state uccise in seguito agli attentati in Israele o nei territori occupati. Per Israele l`anno più duro è stato il 2002 con 420 morti e il 1999 il meno violento (4 morti). 335 i palestinesi agli arresti amministrativi senza processo (contro 1.794 nel 1989).

DEMOLIZIONI

Nel corso di questi 20 anni le autorità israeliane hanno demolito, sia perché erano state costruite senza permesso, sia per infliggere una misura punitiva alle famiglie degli attentatori 4.300 case palestinesi in Cisgiordania, in particolare a Gerusalemme est, così come nella Striscia di Gaza fino all`evacuazione di Israele nel 2005. In più, B`Tselem stima che 6.240 case siano state distrutte nel corso dell`operazione militare nella Striscia di Gaza (3.540 solo nell`operazione «Piombo fuso»). Se si abbraccia un arco di tempo più lungo, dal 1967 al 2008, le case palestinesi demolite sono state 24.125. In 20 anni il numero di israeliani che vivono in Cisgiordania o a Gerusalemme est è triplicato per arrivare a 500.000, secondo le cifre ufficiali riprese da B`Tselem.

SEGREGAZIONE

Il rapporto spiega che la città di Hebron è sottoposta alla distruzione delle fonti di reddito a causa delle restrizioni alla libertà di movimento imposte dall`esercito israeliano, in particolare dopo lo scoppio della seconda Intifada. Tali restrizioni comprendono il divieto totale di camminare o viaggiare sulle strade principale della città, la chiusura dei negozi in base a un decreto militare. Nel rapporto si sottolinea che la città di Hebron, in Cisgiordania, vive «una politica di segregazione su base razziale». Nelle aree vicino alle case dei coloni, le autorità di occupazione hanno costretto i cittadini palestinesi a evacuare più di 1014 unità abitative, cioè, il 41,9% del totale delle case della zona. Dal settembre 2000 fino ad oggi, rileva B`Tselem, «i palestinesi sono stati cacciati via da più di 1000 appartamenti e 1829 negozi commerciali nel centro di Hebron, a seguito delle pressioni praticate dall`esercito di occupazione israeliana, dalla polizia e dai coloni».

CHIUSURE E BLOCCHI

Ampio spazio è dato poi nel rapporto agli effetti deleteri per la popolazione palestinese causati dal blocco della Striscia di Gaza e dalla costruzione della barriera di separazione: entrambi stanno provocando gravi sofferenze ai civili. Nella Striscia di Gaza, inoltre, la disoccupazione ha ormai toccato il 50 per cento, e il 79 per cento delle famiglie vive sotto la soglia di povertà. Senza contare la penuria di elettricità e acqua potabile (sono 228 mila le persone che non vi hanno accesso in Cisgiordania), con gravi conseguenze anche sulla salute. A tutto questo si aggiungano le restrizioni nei movimenti, con l`installazione di decine di check-point (18 nella sola Hebron), e il divieto assoluto di transito per i palestinesi lungo 137 chilometri di strade.

domenica 15 novembre 2009

"Persi 150 miliardi di litri d´acqua" Tav Mugello, la Corte dei Conti calcola i danni ambientali

"Persi 150 miliardi di litri d´acqua" Tav Mugello, la Corte dei Conti calcola i danni ambientali
FRANCA SELVATICI
SABATO, 14 NOVEMBRE 2009 LA REPUBBLICA -

"Anche Ventura, Del Lungo, Fontanelli e Nardi chiamati a risponderne"

Se ci fosse stata più attenzione per l´ambiente, se fossero state imposte altre scelte progettuali, la linea ad alta velocità ferroviaria Bologna-Firenze non avrebbe devastato le risorse idriche del Mugello e dell´area di Monte Morello. E´ il motivo per cui la procura regionale presso la Corte dei conti contesta agli amministratori toscani che hanno fatto parte delle due giunte presiedute da Vannino Chiti fra il ´90 e il ´95 e il ´95 e il 2000, nonché ai componenti delle due Commissioni di valutazione dell´impatto ambientale (Via), di aver causato con le loro scelte un danno di 741 milioni di euro. Fra coloro che sono chiamati a rispondere di quelle decisioni, oltre al senatore Vannino Chiti e al presidente della Toscana Claudio Martini, all´epoca assessore, ci sono altri ex assessori fra cui l´onorevole Michele Ventura, Marialina Marcucci, Claudio Del Lungo, Paolo Fontanelli, Simone Siliani. E ci sono le ex presidenti delle Commissioni Via Costanza Pera e Maria Rosa Vittadini e, fra i numerosi componenti, l´ex presidente dell´autorità di bacino dell´Arno Raffaello Nardi.
La procura contabile, che ha incaricato la Guardia di Finanza di accertare i danni ambientali causati dai lavori eseguiti dal Consorzio Cavet (gruppo Fiat), afferma che i trafori hanno causato la dispersione, ancora in corso e irreversibile, di 150 miliardi di litri di acqua, con scomparsa di fiumi, torrenti, sorgenti e acquedotti. Un disastro dovuto alla inadeguatezza degli studi idrogeologici, più volte denunciata dai tecnici, e alle scelte progettuali approvate, sia pure con riserve e raccomandazioni, da Regione e Commissioni ministeriali. La procura contabile mette sotto accusa la decisione, avallata dalla parte pubblica, di realizzare gallerie drenanti, progettate in modo da far defluire tutta l´acqua sovrastante. Secondo l´Arpat, l´immensa perdita d´acqua dipende dalla scelta di dotare le gallerie di un rivestimento non armato spesso 90 cm, tale da sopportare senza rischio di cedimenti strutturali una colonna d´acqua non superiore a 50 metri, «mentre il tracciato delle gallerie in alcuni casi si trovava a oltre 500 metri sotto il livello della falda idrica sotterranea». In quelle condizioni, senza il drenaggio la pressione sarebbe stata tale da mettere a rischio la resistenza strutturale delle gallerie.

venerdì 6 novembre 2009

Nascono i gruppi di acquisto solare. Pannelli scontati del 35% grazie all’iniziativa del Comune di Capannori

Nascono i gruppi di acquisto solare. Pannelli scontati del 35% grazie all’iniziativa del Comune di Capannori
ARIANNA BOTTARI
VENERDÌ, 06 NOVEMBRE 2009 IL TIRRENO - Lucca

CAPANNORI. Installare pannelli solari sul tetto di casa a prezzi vantaggiosi? Presto a Capannori sarà possibile grazie all’iniziativa promossa dell’amministrazione comunale (in collaborazione con Alerr) denominata “Gruppi di acquisto solare”. Il Comune si farà promotore dell’acquisto “in comunità” degli impianti fotovoltaici o solari, così da ottenere sconti notevoli su prodotti e installazione.
Si tratta del primo esperimento del genere in Toscana ed è volto ad abbattere le emissioni inquinanti in maniera sensibile.
E per incentivare l’utilizzo dell’energia solare, l’amministrazione si appresta ad incontrare la Soprintendenza per tentare di rimuovere gli ostacoli burocratici per chi abita nelle zona a tutela paesaggistica.
Gruppi d’acquisto Solare, ovvero gruppi di cittadini che potranno organizzarsi (così come alcuni già fanno per comprare la frutta e la verdura biologici, i così detti Gas), per installare pannelli fotovoltaici sul tetto di casa a prezzi vantaggiosi.
L’acquisto collettivo di impianti fotovoltaici può infatti far ottenere prezzi molto vantaggiosi da parte degli installatori, almeno rispetto a quelli che sono i costi dei normali contratti privati. Vantaggi anche al momento dell’eventuale richiesta di credito bancario.
Soddisfatto di questa iniziativa il sindaco di Capannori Giorgio Del Ghingaro. «I nostri obiettivi sono molteplici - spiega -: sensibilizzare l’opinione pubblica sulle energie alternative; far risparmiare i cittadini; ridurre le emissioni inquinanti aiutando l’ambiente. Ecco perché abbiamo deciso di farci promotori di questa iniziativa».
In effetti i vantaggi dell’entrare a far parte di uno di questo gruppo per i cittadini ci sono: comprando “in comunità” i pannelli solari, infatti, si può risparmiare fino al 35%. Sarà sufficiente reperire i finanziamenti e scegliere l’impresa che meglio risponde alle proprie esigenze, passando poi alla realizzazione degli impianti, al conto energia e alle varie agevolazioni previste. Spendere meno per inquinare meno, dunque.
Il progetto oltre ai privati cittadini potrebbe riguardare anche piccole aziende locali.
«Purtroppo - conclude Del Ghingaro - nonostante i nostri sforzi, ci scontriamo con la burocrazia e, in questo caso, con quella della Soprintendenza. Installare i pannelli nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico, infatti, non è affatto facile, per non dire impossibile. E queste aree nel Capannorese sono molto estese.
«Da qui la decisione di convocare un incontro con il soprintendente per arrivare alla firma di un protocollo d’intesa svolto a sbloccare queste situazioni».
Per quanto riguarda il Gruppo di acquisto solare, modalità e tempi per partecipare a questo nuovo progetto saranno illustrati ai cittadini nel corso di un’assemblea pubblica che sarà promossa a breve dal Comune in collaborazione con Alerr.

giovedì 5 novembre 2009

La svendita dell'acqua pubblica

La svendita dell'acqua pubblica

la Repubblica del 5 novembre 2009

Paolo Rumiz

Con le reti idriche allo sfascio, l´Italia accelera la privatizzazione dell´acqua. Il Parlamento sta discutendo la legge che obbliga a mettere in gara i servizi e ridurre a quote minoritarie la mano pubblica nella gestione, ma nessuno sa dove trovare le risorse per ricuperare questo pazzesco "gap" infrastrutturale. I lavori necessari ammontano a 62 miliardi di euro: una cifra enorme, come dieci ponti sullo Stretto. Questo mentre 8 milioni di cittadini non hanno accesso all´acqua potabile, 18 milioni bevono acqua non depurata e le perdite del sistema sono salite al 37%, con punte apocalittiche al Sud. Sono più di vent´anni che si investe al lumicino, non si costruiscono acquedotti e la manutenzione di quelli esistenti è quasi scomparsa dai bilanci. Un quadro da Terzo Mondo.
Il rischio è di lasciare in eredità ai nostri figli un patrimonio di acqua inquinata da industrie, residui fognari, chimica, arsenico o metalli pesanti. Di fronte a questo allarme concreto sembra sollevarsi nient´altro che il solito polverone. Uno scontro di "teologie": con una maggioranza che crede nell´efficacia salvifica della gara d´appalto e della quotazione in Borsa, e una minoranza che invoca il principio assoluto dell´acqua "bene comune". In mezzo a tutto questo, schiacciata fra le scorrerie dei partiti e gli appetiti finanziari dei privati, una miriade di Comuni virtuosi che finora hanno gestito i servizi a basso costo e in modo eccellente, e non intendono alienare "l´acqua del sindaco", intesa come ultima trincea del governo pubblico del territorio.
Nell´agosto 2007 Tremonti aveva già sparato un decreto per la privatizzazione, ma si era rivelato cos carente che non era stato possibile emanare i regolamenti. Oggi si tenta il bis, con una spinta in più verso i privati. Stavolta è d´accordo anche la Lega: la quota della mano pubblica dovrà scendere al 30%. Insomma, che i Comuni in bolletta vendano tutto quello che possono. Facciano cassa, subito. E non fa niente se qualcuno grida al furto e il Contratto mondiale per l´acqua – ultima trincea del pubblico servizio – minaccia fuoco e fiamme. «In nessun´altra parte d´Europa – attacca il presidente Emilio Molinari – si vieta alla mano pubblica di conservare la maggioranza azionaria. Il rischio è che tutto finisca in mano delle grandi Spa e alle multinazionali. E se il servizio non funziona, invece che al tuo sindaco dovrai rivolgerti a un call center».
Contro il provvedimento s´è scatenata una guerra di resistenza. In Puglia il presidente della regione Niki Vendola s´è messo in collisione con gli alleati del Pd, ed ha non ha solo annunciato di voler far ricorso contro la privatizzazione, ma ha deciso di ripubblicizzare l´acquedotto pugliese, il più grande e malfamato d´Europa (si dice che abbia dato più da… mangiare che da bere ai pugliesi). Al grido di "l´acqua è una cosa pubblica" ora si tenta la storica marcia indietro, anche se non si ha la più pallida idea di chi (la Regione?) pagherà i debiti del carrozzone.
Intanto si moltiplicano le assemblee: Verona, Bari, Udine, Savona, Potenza, Rieti. Da Milano arrivano segnali di preoccupazione, a difesa di un´azienda comunale totalmente pubblica che finora ha mantenuto tariffe tra le più basse d´Italia. Il malumore cresce nei Comuni di montagna. In Carnia anche quelli della Lega sono ai ferri corti con la giunta regionale di centrodestra. Già hanno dovuto affidare i loro servizi a una Spa-carrozzone che fa acqua da tutte le parti e alza le tariffe senza fare investimenti; ora non vogliono che questo preluda al passaggio a un´azienda con sede a Milano, Roma o magari all´estero. A Mezzana Montaldo (Biella) dove si gestiscono la loro rete in modo ineccepibile da oltre un secolo, non ci pensano nemmeno a mollare l´acqua ad altri.
« la fine del federalismo e dei valori del territorio persino nelle regioni a statuto speciale» osserva Marco Job del C.m.a di Udine. «Facevamo tutto da soli - ghigna il carnico Franceschino Barazzutti - dalle mie parti il sindaco guidava il trattore, e se necessario aggiustava lui stesso la conduttura tra il paese e la sorgente. Oggi devi chiamare i tecnici a Udine, con tempi maggiori e costi più alti. E se devi segnalare un disservizio, devi andare a Tolmezzo o Udine, mentre prima era tutto sotto casa. E´ tutto chiaro: hanno fatto una Spa pubblica solo per poi passare la mano ai privati».
Privatizzare è l´ultima speranza di adeguarci all´Europa, puntualizza il governo. Ma qui viene il bello. proprio l´enormità dei costi di questo adeguamento a falsare la gara. «Senza certezza sul futuro del servizio e con simili costi fissi nessuna banca al mondo finanzierà le piccole imprese, e cos finiranno per vincere le grandi aziende quotate, capaci di autofinanziarsi e di imporsi semplicemente con la forza del nome», spiega Antonio Massarutto dell´università di Udine. Altra cosa che pu falsare i giochi è la mancanza di garanzie sul rispetto delle regole. «Siamo in Italia» brontola Roberto Passino, presidente del Coviri, Comitato vigilanza risorse idriche: «Prima si lamentavano perché non funzionavamo, e ora che abbiamo rimesso le cose a posto, tutti si lamentano perché funzioniamo». Un problema di comportamento, insomma. Di cultura e responsabilità.
Pubblico o privato? «Non importa che i gatti siano bianchi o neri – scherza Passino citando Marx – l´importante è che mangino i topi». Quello che conta è il controllo. In Inghilterra l´azienda pubblica è stata privatizzata al cento per cento, ma la Spa che ha vinto la gara ora ha sul collo il fiato di un´authority ventiquattrore su ventiquattro. Le modifiche del contratto sono impossibili. Ogni cinque anni le tariffe vanno discusse daccapo. Massarutto: «L´anomalia italiana è che ci si illude che la gara basti a lavare più bianco. Non è vero niente. Serve uno strumento di controllo e garanzia che impedisca furbate o fughe speculative». Figurarsi se poi l´azienda firma un contratto che include non solo la gestione, ma anche gli investimenti immensi che il settore richiede.
Altra anomalia: abbiamo le tariffe più basse d´Europa. Questo perché – a differenza di Francia o Germania - finora nessuno ha osato scaricare sulle tariffe il costo di questo immenso arretrato di lavori. Viviamo in uno strano Paese, dove si protesta per le bollette dell´acqua, ma non si osa dir nulla su quelle del gas e dell´elettricità, che invece sono – udite - le più alte del Continente. Dire che gli acquedotti si debbano pagare con le tasse è quantomeno spericolato, osserva Giuseppe Altamore autore di grandi libri sulla questione idrica in Italia: «Non vedo cosa ci sia di giusto nel fatto che io debba pagare il servizio idrico anche per gli evasori fiscali». Nell´incertezza sul futuro, il ritardo aumenta, e sulle nostre spalle cresce la previsione di una batosta stimata per ora sui 115 euro pro-capite l´anno.

sabato 31 ottobre 2009

A Vicenza 5 milioni per «compensare» la base Usa

5 milioni per «compensare» la base Usa
il Manifesto 27 ottobre 2009, p. 15

A Vicenza 5 milioni per «compensare» la base Usa

Il comitato interministeriale per la programmazione economica ha deliberato di assegnare alla provincia di Vicenza un finanziamento di cinque milioni di euro per la progettazione della tangenziale nord di Vicenza e di mettere a disposizione undici milioni e mezzo di euro per la costruzione della pista di volo al Dal Molin, così come era stata riprogettata dall'Aeronautica militare. Si tratta delle cosiddette opere di compensazione per la città legate all'ampliamento della base Usa. Ne ha dato notizia ieri sera il commissario governativo per il Dal Molin Paolo Costa, che in precedenza aveva incontrato il sindaco Achille Variati, l'assessore provinciale Costantino Toniolo e i sindaci di Caldogno e Monticello. Non appena gli enti definiranno il tracciato si potrà assegnare la progettazione dell'arteria viaria. «Spero che entro la finanziaria del prossimo anno - ha detto Costa - sia pronto il progetto preliminare, perchè a quel punto sarà possibile andare alla ricerca del finanziamento per fare i lavori».

Il parco restituito ai nativi

Il parco restituito ai nativi
Paola Desai
il manifesto 28 ottobre 2009, p. 2

Una cerimonia inusuale si è svolta venerdì scorso a Kowanyama, cittadina nella penisola di Cape York, stato del Queensland, Australia settentrionale. Per la prima volta in assoluto, il ministro «per il clima e la sostenibilità ambientale» dello stato, Kate Jones, ha consegnato - anzi, restituito - una grande area di parco naturale ai suoi abitanti indigeni. Si tratta del Mitchell-Alice Rivers National Park, area protetta dal 1977 che copre un'area di 37mila ettari (371 chilometri quadrati) tra i fiumi Mitchell e Alice, affacciata sul golfo di Carpinteria.
«E' la prima volta che un parco nazionale viene restituito ai suoi proprietari tradizionali», ha detto la ministra durante la cerimonia di trasferimento ai rappresentanti dei popoli nativi Kunjen e Oykangand, originari della penisola: «E' un'occasione storica»: perché rappresenta una svolta rispetto agli annosi conflitti legali alla terra rivendicata dalle popolazioni native. E' il culmine di 19 anni «di duro lavoro e dedizione alla gestione della terra», ha aggiunto Colin Lawrence, uno degli anziani della popolazione Uw Oykangand.
In effetti questa «restituzione» è un precedente importante anche perché stabilisce un bel modello di gestione di questa terra, che resta un'area naturale protetta. Ora dunque il parco è stato ribattezzato Errk Oykangand National Park (Cape York aboriginal land), e sarà gestito congiuntamente dal governo del Qeensland e dai «proprietari originari».
Il parco è popolato da oltre 300 specie endemiche, incluso un coccodrillo «degli estuari» - nel suo ciclo annuale la zona si allaga completamente nella stagione delle piogge, mentre nella stagione secca l'acqua si ritira in lagune e insenature.
«I nostri parchi nazionali, prezioni per il loro valore ecologico, sono anche luoghi dove i proprietari tradizionali devono poter accedere», ha fatto notare la ministra Jones: «Nel parco si trovano molti luoghi sacri \, così una zona importante per l'eredità culturale è stata trasferita ai suoi abitanti ancestrali per assicurare che le tradizioni siano preservate e passate alle generazioni future». I rangers del parco saranno per oltre un terzo aborigeni discendenti delle popolazioni della regione o delle isole di Torres-Strait; nel training saranno coniugate «nuove professionalità con i saperi tradizionali», ha detto ancora la ministra.
Forse a orecchie esterne suona quasi un eccesso di retorica - dai «proprietari originari» ai «saperi tradizionali» ai «diritti ancestrali», in quella cerimonia è stato tenuto un vocabolario estremamente rigoroso. Ma non c'è molto di eccessivo in questo riconoscimento, in una nazione dove fino a non molti decenni fa la popolazione nativa ricadeva sotto le leggi «per la protezione della flora e della fauna». Del resto, solo un anno fa l'attuale governo (laburista) ha finalmente pronunciato le scuse della nazione verso i suoi abitanti nativi, per un passato di sterminio, schiavitù, discriminazioni.
La restituzione del parco ha coinciso con il riconoscimento legale al popolo Kowanyama come titolare nativo di 2.731 chilometri quadrati di terre e acque nella parte sud-occidentale di capo York - solo una parte del territorio rivendicato, ma pur sempre una parte importante. E anche questo è un precedente interesssante, perché le rivendicazioni territoriali dei nativi in Australia sono ancora molte.

domenica 25 ottobre 2009

Un giardino botanico fra i trulli salverà i frutti a rischio d´estinzione

Un giardino botanico fra i trulli salverà i frutti a rischio d´estinzione
MARTEDÌ, 20 OTTOBRE 2009 LA REPUBBLICA - Bari

L´iniziativa

Visite e colazioni all´Orto di Bisceglie tornato a vivere grazie a Wwf e scout

Nel cuore della Valle d´Itria settecento alberi a dimora in dieci ettari di terreno Un progetto dell´associazione Pomona sostenuto dalle Università di Bari e del Salento
Piante selvatiche accanto a quelle domestiche: ecco il segreto per preservare la biodiversità

SONIA GIOIA
IL Giardino botanico comunale "Carlo Veneziani Santonio" di Bisceglie vive in simbiosi con le specie che lo abitano e insieme ai 250 esemplari di piante a dimora si rinnova. Con l´arrivo dell´autunno una nuova veste rende la struttura interamente visitabile grazie ai servizi in parte già installati con la collaborazione del gruppo scout guidato da Mimmo Rana. E partono le visite guidate organizzate dal Wwf: "I tesori dello scrigno" si propone di realizzare una ricerca storica sull´assetto botanico originario e la realizzazione del restauro del giardino attraverso una riqualificazione ambientale. "Colazioni dell´orto" invece è una visita guidata con colazione a base di prodotti locali (info 347.140.22.09 e 349.561.86.86). Raggiunto anche l´accordo con l´Orto botanico dell´Università di Bari che consentirà un ulteriore progetto di riqualificazione per il giardino biscegliese.
(elisabetta di zanni)
Il giardino dell´Eden ha coordinate terrestri: strada provinciale Cisternino-Locorotondo, contrada Figazzano, cuore della Valle d´Itria. E una dea pagana per protettrice e musa, Pomona, signora dei giardini e dei frutteti. Dalla divinità latina prende il nome il conservatorio botanico della agrobiodiversità gestito dall´associazione Pomona onlus, trapiantato, è il caso di dire, letteralmente, da Milano in Puglia circa cinque anni fa. Conservare e preservare le specie a rischio di estinzione, la missione.
Dieci ettari di terreno, oltre settecento alberi da frutto, fra i quali una collezione particolare di almeno duecento fichi - afgani, bosniaci, francesi, portoghesi, albanesi, israeliani e naturalmente pugliesi - in pacifica convivenza non solo fra loro, ma anche con la vegetazione mediterranea che spontaneamente sorge fra le zolle di una terra argillosa, rosso sangue. Il segreto è quello, lezione elementare rubata alla natura stessa: selvatico e domestico dimorano fianco a fianco, perché "la garanzia di sopravvivenza è la complessità". Parola di Paolo Belloni, 61 anni, fotoreporter per mestiere e contadino-filosofo per vocazione. Le braccia che lavorano la terra sono le sue, presidente dell´associazione e "padre" di questo museo vivente, al fianco di Hila Ndereke, contadino albanese di 50 anni dall´eloquio inversamente proporzionale alla saggezza con cui alleva gli alberi da frutto.
La collezione messa a dimora nel giardino di Pomona è un miracolo di archeologia botanica e di progettualità avveniristica. Paolo Belloni ha messo in contatto, attraverso l´associazione, raccoglitori informali e accademici, come Vito Savino, preside della facoltà di Agraria di Bari, e Francesco Minnone, studioso dell´Orto botanico dell´Università del Salento. Viaggiando sulle direttrici dello scambio e della ricerca, sono giunti qui, da ogni angolo del mondo, la più bella, la ciliegia progressiflora immortalata nelle tavole ottocentesche del ligure Giorgio Gallesio, e l´anziano signore del giardino, un pummelo venuto al mondo almeno 4 mila anni fa. Ma anche l´api etoilè, mela a forma di stella che si conserva molto a lungo, dono natalizio per i bimbi di Francia prima dell´assedio delle Playstation. E ancora, l´oliva greca leucocarpa, destinata all´Esposizione parigina del 1870, barattata da un commerciante greco in cambio di un passaggio per il ritorno in patria, dopo aver svuotato le borse gozzovigliando al fianco di Henri Toulouse-Lautrec.
Sono le storie che Paolo Belloni racconta agli scolaretti in visita al conservatorio botanico, aula a cielo aperto dove la biodiversità viene spiegata così: «Guardate le foglie di questo albero, non c´è foglia uguale all´altra, e nemmeno frutto, e nemmeno nocciolo». La spiegazione c´entra col segreto della vita stessa.
Creature come queste vivono nell´orto di Pomona, ad un passo da otto trulli destinati alla ristrutturazione come antica arte trullara comanda, che ospiteranno cento giorni all´anno turisti con libero accesso ai frutti di tutto il giardino. Per zittire i pragmatici del caso, un esempio contro tutte le possibili argomentazioni sull´antieconomicità dell´operazione: «Un fico, un solo frutto, in una città come Londra costa circa un euro - spiega Belloni - Ogni ospite avrebbe qui la possibilità di coglierne direttamente dall´albero e mangiarne a volontà». Trionfo del gusto, in barba al mercato.
Il futuro prossimo del conservatorio botanico è legato alla lungimiranza degli enti locali, amministrazione comunale di Cisternino e Regione Puglia innanzitutto, al cospetto dei quali pende un progetto per le cosiddette "Buone pratiche" per il piano paesaggistico territoriale. L´ambizione è quella di "costruire un prototipo ripetibile su piccola scala che coniughi la conservazione della biodiversità vegetale domestica e selvatica, la ricerca per la sua valorizzazione in cucina, l´educazione scolastica per una sana alimentazione, l´utilizzo delle energie alternative e il riciclo delle acque e dei rifiuti umidi con un nuovo modello di turismo rurale ecosostenibile". Progetto ambizioso, se la burocrazia ne permetterà il decollo.

sabato 24 ottobre 2009

Gerusalemme protesta, i palestinesi esultano: è la nostra rivincita

l’Unità 17.10.09
Il Consiglio dei diritti umani approva il rapporto di Goldstone
Gerusalemme protesta, i palestinesi esultano: è la nostra rivincita
Guerra di Gaza Primo sì dell’Onu alla condanna di Israele e Hamas
di Umberto De Giovannangeli

Con 25 voti a favore, 6 contro tra cui l’Italia e 11 astenuti, il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha adottato il rapporto Goldstone sulla guerra a Gaza. Israele si ribella, i palestinesi plaudono.

Il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha adottato ieri il rapporto Goldstone che accusa Israele e Hamas di aver commesso crimini di guerra nell'operazione «Piombo fuso» nella Striscia di Gaza. Dei 47 membri del Consiglio, 25 hanno votato a favore della risoluzione che critica Israele per non aver cooperato con la missione dell'Onu guidata dal giudice sudafricano Richard Goldstone che ha indagato sulla guerra, in 6 hanno votato contro Italia, Stati Uniti, Olanda, Ungheria, Slovacchia e Ungheria mentre 11 si sono astenuti.
ACCUSE RECIPROCHE
Con l'adozione della risoluzione, il Consiglio dei Diritti Umani passa «urgentemente» la questione all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, che potrebbe raccomandare il coinvolgimento della Corte internazionale di giustizia dell'Aja. Durissima la reazione dello Stato ebraico. Il rapporto Goldstone è «iniquo» e incoraggia «le organizzazioni terroriste in tutto il mondo», denuncia una nota ufficiale del ministero degli Esteri israeliano. «L'adozione di questa risoluzione pregiudica tanto gli sforzi per proteggere i diritti umani secon-do il diritto internazionale, come gli sforzi per promuovere la pace in Medio Oriente», si legge ancora nella nota. «Israele conclude il comunicato del ministero degli Esteri di Gerusalemme continuerà ad esercitare il suo diritto all'autodifesa e a prendere le azioni necessarie per proteggere la vita dei suoi cittadini». Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite «affosserà» la decisione della Commissione Diritti Umani dell'Onu sul Rapporto Goldstone: ne è certo Avi Pazner, ex ambasciatore di Israele a Roma e portavoce del governo di Gerusalemme che spiega: «Non siamo sorpresi afferma in questa commissione c'è una maggioranza di Paesi contro Israele, molti Paesi hanno votato contro, come l'Italia, o si sono astenuti. E così hanno fatto tutti i Paesi democratici. Da questo punto di vista è una vittoria israeliana. Ora il testo andrà al Consiglio di Sicurezza e sono sicuro che gli amici di Israele useranno il diritto di veto per affossare questa decisione. Il voto di oggi (ieri, ndr) è solo l'ennesima manifestazione d'odio nei confronti di Israele da parte di questa commissione che più volte si è distinta per un atteggiamento anti-israeliano».
L’ANP SODDISFATTA
Di segno opposto la reazione palestinese. «La decisione del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu di adottare il rapporto Goldstone è una rivincita del popolo palestinese», commenta Nabil Abu Rudeineh, portavoce dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). La decisione del Consiglio, prosegue il portavoce dell'Anp «dimostra il sostegno internazionale alla causa palestinese» ed è un gesto di «incoraggiamento da parte comunità internazionale per rafforzare la fiducia popolo palestinese nella giustizia e nei diritti». Infine, per Rudeineh, si tratta di un «precedente che può aiutare il popolo palestinese a difendersi da qualsiasi attacco futuro da parte di Israele». Ora, gli fa eco Yasser Abed Rabbo, segretario del comitato esecutivo dell’Olp, «è bene che il rapporto sia discusso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu». Da Gaza parla Hamas: «Ci auguriamo che il voto di Ginevra costituisca il primo passo per arrivare a processare i criminali di guerra israeliani», dichiara Fawzi Barhum, portavoce del movimento integralista palestinese

Radio radicale lancia l’allarme: rischiamo di chiudere

l’Unità 23.10.09
Radio radicale lancia l’allarme: rischiamo di chiudere

L’emendamento. 202 senatori di tutti i partiti: rinnovare la convenzione

«Attenzione, incombe il pericolo dell’eliminazione di Radio Radicale», avverte una mezza pagina a pagamento pubblicata ieri dal Foglio. La questione è reale. Il 21 novembre scade la convenzione tra il ministero dello Sviluppo e la radio per la trasmissione delle sedute del Parlamento. È dal 1976 che l’emittente assicura il servizio, dal 1994 è in vigore la convenzione che attualmente garantisce 10 milioni di euro lordi l’anno. I radicali si sono mobilitati, e hanno raccolto oltre 200 firme di senatori di vari partiti (tutto il gruppo del Pd, tranne la teodem Baio Dossi, ma ci sono anche vari big del Pdl come Nania, Baldassarri e Vizzini) in calce a un emendamento alla Finanziaria che garantisce il rinnovo della convenzione. «Il ministro Scajola ha dato delle rassicurazioni ma in Senato non si sa mai come va a finire...», spiegano i radicali. «Anche il sottosegretario Letta si è formalmente impegnato nella stessa direzione, e ci è stato autorevolmente assicurato che lo stesso presidente del Consiglio è d’accordo». Eppure Pannella, Bonino e il direttore Bordin non si fidano. «La situazione si è un po’ ingarbugliata, per questo lanciamo un appello al governo». Nel Pdl, del resto, non mancano voci contrarie, come Alessio Butti: «Dal 1998, data di inizio dei programmi di Gr Parlamento, Radio Radicale risulta un “doppione” e come tale viene meno la necessità del finanziamento da parte dello Stato». E proprio in risposta a Butti, nel dicembre 2008, il viceministro alle Comunicazioni Romani aveva spiegato che «allo scadere della convenzione verranno considerate la piena operatività della rete Rai dedicata ai lavori parlamentari e le esigenze di riduzione della spesa». A Butti replica Pannella: «Calunnie e menzogne, lo sfido a un confronto pubblico». A.C.

giovedì 15 ottobre 2009

VAL DI SUSA. SQUILLI DI RIVOLTA. Pasticciaccio ad alta velocità

VAL DI SUSA. SQUILLI DI RIVOLTA. Pasticciaccio ad alta velocità
di Riccardo Bocca
09 OTTOBRE 2009, L'ESPRESSO

Dal percorso ai rischi ambientali, il governo Berlusconi non ha mantenuto gli impegni sulla Tav in Piemonte. E sembra pensare soltanto alle gallerie. Per questo sindaci e comitati scendono di nuovo sul piede di guerra

Basta guardarsi attorno, per capire che aria tira. Basta alzare gli occhi a destra, appena infilata la Val di Susa, Piemonte vecchio stampo, quadrato, testardo e genuino, in cui primo secondo e caffè costano ancora 10 euro, e leggere la scritta che campeggia sul monte Musinè: "No Tav, no mafia". Uno slogan ripetuto più volte, lungo i 90 chilometri che da Avigliana portano al confine francese. Ecco il comune di Sant'Ambrogio, poche case in fila sulla strada, con le bandiere No Tav che sventolano dai lampioni. Ecco Venaus, due passi più a nord, con la sua rabbia compressa in frasi come 'Resistere per esistere', 'L'Alta velocità non si fa, punto e basta', 'Val di Susa libera'. Fino agli insulti, alle parole in spray nero sulla statale che recitano: 'Virano viscido ruffiano'. Dove Virano di nome fa Mario, ed è l'architetto al vertice dell'Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione, tavolo di concertazione tra governo, regione ed enti locali voluto nel 2005 dal terzo governo Berlusconi. Una struttura sotto schiaffo, con i No Tav che ne invocano la chiusura e spezzoni di centro-sinistra tentati di dargli ragione.

C'è un brutto pensiero, che circola in queste ore per la Val di Susa. È il ricordo di quanto accaduto quattro anni fa, quando migliaia di cittadini si opposero fisicamente alla polizia e furono coperti di botte e manganellate. "Allora contestavano i sondaggi del terreno", commenta Andrea Debernardi, ingegnere trasportista che rappresenta nell'Osservatorio la Comunità montana della bassa valle. "Adesso il problema è diverso: siamo alla vigilia di quest'opera colossale, ma il governo insiste a muoversi su un doppio registro. Da un lato firma impegni ufficiali per tutelare la valle, garantendo il dialogo a livello locale, dall'altro pare interessato soprattutto a scavare gallerie".

Il peggio, per i valsusini. Nessuno di loro ha dimenticato l'incomprensibile serenità con cui, lo scorso 30 luglio, il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli ha avviato la fase operativa dei lavori (vedi box a pag. 79). "In autunno", ha avvertito i sindaci, "partiranno i carotaggi esplorativi". E sta mantenendo la parola. A metà novembre, un esercito di tecnici inizierà a trapanare la Val di Susa in 37 punti. "Dopodiché, quelli che oseranno criticare la Torino-Lione, verranno spacciati per nemici della modernità, contrari al famoso Corridoio 5 che dovrebbe collegare Lisbona a Kiev", prevede Angelo Tartaglia, docente di Fisica al Politecnico di Torino e membro dell'Osservatorio. "La verità è un'altra: molti amministratori, studiosi e cittadini della Val di Susa sono scettici, profondamente scettici sulla Tav, perché sanno di cosa si tratta. I politici nazionali, no: dicono 'evviva, avanti tutta, lanciamoci verso la grande Europa'. Ma in totale ignoranza, pensando solo ai finanziamenti che si potranno ottenere".

Parole dure, amare. In linea con una vicenda sempre in bilico tra sospetti e polemiche. Fin dai primi anni Novanta, quando le Ferrovie italiane hanno ipotizzato di collegare Torino e Lione con una linea superveloce. "Progetto suggestivo ma presto abortito", dice Antonio Ferrentino, sindaco di Sant'Antonino di Susa oltre che presidente in uscita della Comunità montana della bassa valle. "La ragione è semplice: le previsioni, in quel momento, mostravano che il traffico passeggeri non sarebbe cresciuto a sufficienza per un'impresa tanto imponente". Così si è cambiata idea, passando dal pianeta dei viaggiatori a quello dell'Alta capacità, dedicata soprattutto al traffico merci. "Nel 2001", racconta l'ingegner Debernardi, "Italia e Francia hanno sottoscritto un trattato per progettare la nuova linea, con tanto di tunnel transalpino lungo 50 chilometri". Doveva essere il primo passo per un futuro di tecnologia e integrazione, e invece quattro anni dopo 60 mila valsusini sono scesi in strada a manifestare contro la Tav. "Per varie e non banali questioni", ricorda Stefano Lenzi, responsabile del settore legislativo Wwf: "partendo dal rischio amianto, passando per i dubbi sull'utilità dell'opera - tuttora irrisolti -, fino alla tutela ambientale di un fondovalle largo nel suo punto massimo un chilometro e mezzo, e già attraversato da una linea ferroviaria, due statali (24 e 25), una provinciale e l'autostrada del Frejus".

Un dato è certo, a prescindere dagli schieramenti pro o contro Tav. Se in questa fine 2009 la Torino-Lione è ancora materia incandescente, in Val di Susa, capace di spaccare in due alla vigilia delle elezioni locali (7 novembre) il Partito democratico, con gli amministratori valligiani ostili all'opera e i vertici romani che li scomunicano sui giornali, è perché qualcuno non ha mantenuto le promesse. "E quel qualcuno si chiama governo", ammettono gli stessi tecnici dell'Osservatorio. Niente a che vedere con la miopia retrò di qualche estremista, o con l'egoistica sindrome Nimb ("Not in my backyard, Non nel mio giardino"). Piuttosto, riconosce il trasportista Debernardi, "si è disatteso, quasi completamente, il documento chiave dell'Osservatorio, intitolato 'Punti di accordo per la progettazione della nuova linea e le nuove politiche di trasporto'". Sei pagine dove, nel giugno del 2008, il presidente Virano ha indicato le conclusioni del suo gruppo di lavoro. Sottolineando, nero su bianco, "l'indispensabilità di un coordinamento rigoroso di tutti gli interventi trasportistici concordati, degli impegni assunti con le comunità locali, e delle logiche progettuali relative agli aspetti tecnici e paesaggistici, territoriali e ambientali".

"In pratica", sintetizza il professor Tartaglia, "un'assicurazione a 360 gradi che gli enti locali e il governo avrebbero lavorato assieme: sia in Val di Susa, sia nella tratta che attraverso l'hinterland raggiunge Torino". Premesse a cui l'Osservatorio ha fatto seguire un elenco delle priorità da rispettare. Ad esempio, la ratifica del Protocollo trasporti della Convenzione alpina (alla quale aderiscono anche Francia, Svizzera, Austria, Slovenia, Germania, Principato di Monaco e Liechtenstein). "Lo scopo era fornire una cornice giuridica al trasferimento del traffico dalla strada alla rotaia", spiegano gli esperti, "rinunciando nel frattempo alla costruzione di nuove autostrade transalpine". Ma le parole sono rimaste parole: "Lo scorso aprile", dice Debernardi, "il protocollo è stato approvato dal Parlamento europeo, mentre la ratifica italiana sta tardando ad arrivare".

Stesso problema, per altri punti essenziali del documento di Pra Catinat. Ad esempio, riguardo all'impegno preso per "il progressivo aumento, a partire dal 2009, della quantità e qualità del servizio ferroviario passeggeri della linea storica", con "l'intervento straordinario sulle stazioni" e il miglioramento di"efficienza e comfort". Promesse apprezzate dai politici locali, ma che suonano grottesche arrivando nella stazione di Susa. Qui, dei tre binari esistenti due sono interrotti, recisi materialmente, e nessuno si è messo all'opera per riattivarli. Di più: nella costante penuria di treni, le rotaie sono occupate da cassette di polistirolo, preservativi, lattine. Per non dire della sala d'aspetto o della facciata, in condizioni imbarazzanti.

"Scrivetelo, per favore! Spiegatelo che non siamo folli rivoluzionari, ma soltanto cittadini in allarme...", chiede il No Tav Claudio Giorno sotto al patio del presidio di Borgone, nella bassa valle. "La cosa che pochi sanno, fuori dalla Val di Susa, è che a gennaio 2009 il governo ha siglato un accordo con la Regione Piemonte per favorire il trasferimento modale (da strada a rotaia) e finanziare il sistema ferroviario torinese". Ma nonostante questo, aggiunge, "nessuno ha visto i 200 milioni che avrebbe dovuto stanziare il ministero delle Infrastrutture: soltanto 500 mila euro, sono previsti dallo Stato. Briciole, in confronto al necessario, una presa in giro che ci offende e demoralizza...".

"È vero", ammette il presidente e commissario straordinario dell'Osservatorio Virano, "il governo non ha ancora rispettato tutti gli impegni presi. Ma ciò non significa che non lo farà. E comunque, l'Osservatorio continua a lavorare per una gestione condivisa dell'opera". Un impegno apprezzabile, anche se rischia di perdersi tra mille contraddizioni. Per dire: "Nel documento di Pra Catinat", nota il Wwf, "si invita alla graduale limitazione dei mezzi pesanti sulle strade alpine, essenziale in Val di Susa perché il trasporto si sposti dai camion ai vagoni". Eppure il governo "ha fatto finta di niente", denunciano gli ambientalisti: "Anzi: continua a spingere nella direzione opposta, incentivando gli autotrasportatori con la legge 133 del 2008, che garantisce contributi pubblici contro gli aumenti del gasolio".

Dopodiché non è difficile, per i paladini dell'anti-Tav, raccogliere applausi e voti in valle e nel torinese. Basta che elenchino le promesse fatte dal governo, o i buoni propositi dell'Osservatorio, e li confrontino con la realtà. "Sia chiaro, non vogliamo bocciare a priori la Torino-Lione", precisa Nicola Pollari, sindaco Pd di Venaria, 35 mila abitanti alla periferia nord ovest di Torino, "ma nemmeno permettere che siano umiliati i territori". A Venaria, dice il sindaco, lo spauracchio è che l'Alta capacità strangoli ulteriormente la cittadina, già assediata da infrastrutture ingombranti come una tangenziale, l'autostrada, più tre linee ad alta tensione. E poco cambia, spostandosi nella vicina Rivalta. "Il punto di domanda", sostiene il sindaco Amalia Neirotti, presidente piemontese dell'Anci (Associazione nazionale comuni italiani), "è se la Tav possa davvero incentivare l'economia locale, oppure è soltanto un treno che corre veloce". Poco distante dal suo ufficio, indica una delle tante incognite Fiat: "un'area in semi disarmo, pari a un milione 750 mila metri quadrati, che potrebbe in teoria beneficiare della Tav, se qualcuno si degnasse di ragionare a un tavolo". Qualche chilometro a fianco, invece, si accede liberamente all'interporto di Orbassano, indicato dall'Osservatorio come punto focale per il carico e lo scarico delle merci. "Uno spettacolo desolante", dice il No Tav Alberto Poggio. Poi cammina tra i pochi treni presenti e i tanti binari morti, arrugginiti, in parte smantellati.

Riuscirà tutto questo a diventare in tempi accettabili la fantastica Tav? Riusciremo, ammesso che cresca il traffico verso nord di persone e materiali, e che la grande opera si riveli sensata, a garantire standard internazionali? Dura, molto dura suggeriscono i numeri. Soltanto la tratta comune, quella con il tunnel di oltre 50 chilometri e relativa galleria geognostica (che il governo preme per realizzare, nel comune di Chiomonte, ancor prima che venga fissato definitivamente il tracciato) costerà a Italia e Francia 9 miliardi 820 milioni di euro (vedi scheda a pag. 77). Ma questo scoglio non spaventa i politici. Al contrario: "Tutta la storia della Tav, in Italia, è fatta di soldi che non c'erano e che non sono mai arrivati", sorride l'esperto di Alta velocità Ivan Cicconi. Dunque preferiscono guardare altrove, i palazzi romani: magari ai 671,8 milioni di euro con i quali l'Europa sponsorizza la tratta comune al confine (affidata alla società Ltf, Lyon Turin Ferroviaire), o ai 52 milioni 740 mila concessi dalla Ue al segmento italiano. "Cifre importanti, che meriterebbero condivisione e trasparenza", sottolinea Antonio Ferrentino, della Comunità montana della bassa valle: "non il clima da inciucio e prepotenza che stiamo vivendo".

Il riferimento, esplicito, è alla legge Obiettivo: quella che consente al governo di realizzare grandi opere senza coinvolgere direttamente gli enti locali nei progetti preliminari (e, a ruota, nelle valutazioni di impatto ambientale). "Quattro anni fa", ricorda Ferrentino, "la presidente del Piemonte Mercedes Bresso ha applaudito l'uscita da questa procedura, in nome 'del dialogo e della concertazione'. Oggi, la stessa Bresso, dà il via libera come Virano per riportare la Torino-Lione in quella legge scivolosa". Un esempio, conclude Ferrentino, "della coerenza in campo". E una provocazione per la gente della Val di Susa: "ancora più esplosiva, quando arriveranno sul posto le trivelle ministeriali"

venerdì 18 settembre 2009

Come fare giornalismo in Israele

Liberazione 17.9.09
Notizie filtrate da generali, segreti di Stato e censure mirate. Quando la stampa è in libertà condizionata L'informazione sotto tutela militare
Come fare giornalismo in Israele
di Riccardo Valsecchi


Gerusalemme. Il mestiere del giornalista nello Stato d'Israele non è certo facile. Ogni operatore deve essere accreditato presso il Government Press Office (GPO), l'Ufficio Stampa Governativo con sede in Gerusalemme, alle dirette dipendenze del gabinetto del Primo Ministro. Qualsiasi corrispondente straniero, poi, deve seguire un lungo iter burocratico - fino a novanta giorni -, con varie discriminanti che potrebbero ostacolare l'assegnazione della Press Card: per esempio lo status di freelance, la propria storia professionale, la "non familiarità" dell'impiegato di servizio con il media per cui si lavora o il motivo per la richiesta dell'accredito. A tutti, infine, è richiesta la firma su un documento che vincola la pubblicazione di qualsiasi materiale video, audio, fotografico e testuale riguardante argomenti militari o di sicurezza nazionale, previa supervisione della censura militare. La Lt. Col. Avital Leibovich, portavoce dell'Ufficio Stampa Internazionale dell'Esercito Israeliano, non ha dubbi in proposito:«Siamo un paese in guerra e la censura è assolutamente necessaria come strumento di difesa».
La costituzione israeliana prevede una legge per la censura basata sulla "norma d'emergenza" promulgata nel 1945 durante il mandato britannico, che autorizzava l'interdizione di pubblicazioni locali o internazionali e il taglio di collegamenti tra le agenzie stampa, al fine di eludere il passaggio d'informazioni coperte da segreto militare. L'organismo attuale preposto al controllo è l'Ufficio della Censura Militare, un distaccamento dell'Aman, l'intelligence militare israeliana. La censura militare è assolutamente indipendente dall'Ufficio del Primo Ministro, onde evitare il sovrapporsi d'interessi nazionali e politici.
La linea guida che regola l'attività censoria è definita in un accordo tra IDF - Israel Defense Forces - e un comitato di editori: la censura non può intervenire su tematiche politiche, opinioni o valutazioni personali, a meno che vadano a ledere informazioni classificate come top-secret; la pubblicazione di materiale che possa recare beneficio alla forza nemica o danneggiare lo stato d'Israele, i suoi cittadini, la loro sicurezza, come quella degli ebrei costretti a emigrare da nazioni ostili a Israele, è vietata; IDF e comitato editoriale si riservano, in caso di conflitto, di fornire un elenco di specifici argomenti la cui pubblicazione non verrà consentita al fine di garantire la sicurezza nazionale. Il mancato rispetto delle norme sopra citate potrebbe significare la persecuzione legale, l'arresto, l'espulsione o la preclusione del visto di entrata in territorio israeliano.
«Nella mia lunga esperienza come corrispondente straniera a Gerusalemme,» racconta la giornalista tedesca Inge Günther, direttrice della sede locale del Frankfurter Rundschau, «posso dire che la censura militare israeliana si attiene a standard di professionalità e discrezione assolutamente elevati. Non ci sono particolari episodi di cui potrei lamentarmi. Diversa è la situazione per quello che riguarda le informazioni e le fonti fornite dagli uffici stampa militari o governativi sul tema dello scontro israeliano-palestinese: ma questo è un problema di entrambe le parti in causa. La propaganda, manipolazione, disinformazione e mistificazione è una caratteristica propria di questo conflitto».
Mikhael Manekin, ex soldato nella pluridecorata Brigata Golani, è uno degli ideatori di "Breaking the Silence", organizzazione che si occupa della raccolta e diffusione delle testimonianze di veterani dell'esercito israeliano durante la Seconda Intifada:«Nessuno di noi rinnega ciò che ha fatto per la propria patria, però crediamo che mostrare il lato oscuro delle operazioni militari svolte dall'esercito israeliano durante il conflitto sia doveroso in una società democratica». La galleria fotografica, i filmati e i racconti presenti sul sito dell'associazione mostrano esplicitamente soprusi e angherie perpetrate contro civili palestinesi:«Tutto il materiale che pubblichiamo è sottoposto alla supervisione dell'IDF, eppure non abbiamo mai avuto problemi o ostacoli. Non è la censura militare a boicottare il nostro lavoro, piuttosto la comunità stessa in cui viviamo, a cominciare dai partiti politici fino ad arrivare alla gente comune: i soldati, spesso ancora in servizio, che ci contattano per poter raccontare la loro versione della guerra in Gaza, chiedono di rimanere anonimi non tanto per paura della censura, ma piuttosto per il timore di essere additati come traditori della patria dai compagni, dai propri familiari, dall'opinione pubblica».
«La censura,» spiega Mr Amir Ofek, portavoce del Ministero degli Affari Esteri, «non è atta ad assicurare che si scrivano "carinerie" su Israele. Ciò si può verificare leggendo i giornali europei, i quali spesso riportano posizioni critiche nei nostri confronti». Di diverso parere la Prof. Galia Golan, docente in scienze politiche presso il Centro Interdisciplinare di Herzliya, Tel Aviv:«Certo la metodologia con cui opera la censura militare è migliorata rispetto a vent'anni fa, ma ci sono molti argomenti che non si possono trattare. È noto, per esempio, che i giornalisti israeliani spesso attendono che certe notizie vengano riportate prima all'estero, perché così sono liberi dal vincolo della censura».
La Prof. Golan racconta la sua esperienza riguardo le recenti guerre in Libano e Gaza:«Durante la seconda guerra libanese e il conflitto in Gaza, i media, sia governativi che privati, non sono sembrati imparziali: dai servizi televisivi sembrava che Israele fosse sotto assedio, bombardata tutto il tempo, mentre in realtà pochissimi sono stati i missili lanciati verso il nostro territorio. In un certo senso la situazione era abbastanza divertente: gli inviati delle televisioni nazionali che si trovavano ad Ashkelon, Beersheba, alcune delle località apparentemente più colpite, contattati a ogni ora, mostravano un certo imbarazzo, dal momento che non avevano assolutamente nulla da mostrare. Il risultato è stato che, alla fine delle ostilità, gli israeliani non avevano alcuna idea del motivo per cui l'opinione pubblica internazionale si fosse schierata contro. I nostri media non avevano mostrato nulla di ciò che si vedeva all'estero. In una conferenza all'Università dove lavoro, la rappresentante di una di queste Tv private disse che era stata la censura a operare i tagli. Come cittadina, non posso accettarlo: credo che ci fosse margine per mostrare molte altre scene senza intaccare la sicurezza».
Ron Ben-Yishai è la leggenda del giornalismo israeliano. Opinionista e commentatore per la televisione pubblica, corrispondente di guerra per "Channel 1" e "Time Magazine", è noto al pubblico internazionale per la parte nel pluripremiato film d'animazione di Ari Folman Valzer con Bashir : «Nella mia carriera ho coperto in prima linea conflitti in tutte le parti del mondo: Cipro, Afghanistan, Yugoslavia, Colombia, Cecenia, Nagorno-Karabakh, Iraq, e, ovviamente, il conflitto israeliano-palestinese. Se devo essere sincero da nessun altra parte ho trovato la professionalità e competenza della censura militare israeliana nel garantire la sicurezza nazionale senza ledere la libertà di stampa».
Controverso però è stato il rapporto tra governo/forze militari israeliane e stampa, soprattutto estera, durante il conflitto a Gaza, quando è stato vietato l'accesso alla zona dall'8 Novembre 2008 fino al cessate-il-fuoco del 18 Gennaio 2009: «Qui si fa confusione di competenze,» ribatte la Lt. Col. Leibovich, «l'accesso o meno nei territori occupati è di competenza del governo. Ritengo che i giornalisti dovessero essere autorizzati a entrare a Gaza». Nonostante la Corte Suprema avesse autorizzato l'accesso già dal 29 Dicembre 2008, l'IDF ne precluse l'entrata, con poche eccezioni, fino alla fine del conflitto. Ron Ben-Yishai, che fu uno dei pochissimi a operare nei territori, non ha dubbi: «Vietare l'accesso dei giornalisti a Gaza è stata una vergogna».
Ma che cosa pensano gli israeliani dei propri media e della censura militare? «Non è un tema di cui si parla spesso,» chiude la Prof. Golan, «sembra che le persone non si accorgano, o non si vogliano accorgere, dell'univocità dell'informazione. Prima dell'Intifada, vent'anni fa, c'era molta discussione sul tema, sia per televisione che per radio, ma oggi non più: io credo che non sarà possibile almeno fino a quando persisterà questo clima di guerra».


giovedì 17 settembre 2009

Piombo fuso, l´Onu accusa Israele "Fu un crimine contro l´umanità"

La Repubblica 16.9.09
Piombo fuso, l´Onu accusa Israele "Fu un crimine contro l´umanità"

NEW YORK - L´operazione "Piombo fuso", l´offensiva sferrata dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio dalle forze armate israeliane contro la Striscia di Gaza, potrebbe essere ricordata come un «crimine contro l´umanità». E´ la conclusione cui arriva un rapporto delle Nazioni Unite presentato ieri. «A seguito delle nostre indagini, siamo giunti alla conclusione che le forze israeliane hanno commesso azioni riconducibili a crimini di guerra e possibilmente, per alcuni aspetti, crimini contro l´umanità», ha detto ai giornalisti Richard Goldstone, il magistrato sudafricano di origine ebraica cui è stata affidata l´inchiesta dell´Onu sull´operazione israeliana. A finire sotto la lente della commissione internazionale sono stati in particolare «l´attacco intenzionale sull´ospedale Al Qods con proiettili esplosivi e al fosforo» e «l´attacco contro l´ospedale Al Wafa», entrambe definibili come «violazioni del diritto umanitario internazionale».
Accuse pesantissime, attenuate solo in parte dal fatto che l´offensiva partì in seguito al ripetuto lancio di razzi palestinesi sui villaggi del sud d´Israele che lo stesso documento definisce «senza un obiettivo militare» e quindi «un deliberato attacco contro la popolazione civile». Precisazione che non è bastata però a Gerusalemme, che attraverso una nota del ministero degli Esteri ha immediatamente bocciato il rapporto Onu come «un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto dei popoli all´autodifesa». Secondo il governo israeliano, inoltre, «il verdetto era stato già scritto in anticipo a Ginevra» mentre la commissione guidata da Goldstone nella sua recente missione nella regione si sarebbe limitata «a raccogliere testimonianze false o unilaterali contro Israele».
Fonti palestinesi e dell´organizzazione pacifista israeliana B´tselem stimano il bilancio finale dell´operazione "Piombo fuso" in quasi 1400 palestinesi uccisi, per lo più civili, oltre a pesanti distruzioni. Secondo i dati dello stato maggiore israeliano, il consuntivo è invece di poco meno di 1200 morti, in maggioranza militanti di Hamas.

«A Gaza compiuti crimini di guerra» L’Onu accusa, Israele si indigna

l’Unità 16.9.09
Un rapporto di 572 pagine sui diritti umani violati durante l’operazione «Piombo fuso»
Il procuratore Goldstone chiede che sia inviato alla Corte penale internazionale dell’Aja
«A Gaza compiuti crimini di guerra» L’Onu accusa, Israele si indigna
di Umberto De Giovannangeli

Un rapporto Onu di quasi 600 pagine, per un’accusa pesantissima: a Gaza l’esercito israeliano ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità. Israele ribatte: accusa vergognosa. È scontro aperto.

«A seguito delle nostre indagini, siamo giunti alla conclusione che le forze israeliane hanno commesso azioni riconducibili a crimini di guerra e possibilmente, per alcuni aspetti, crimini contro l'umanità». Un’accusa pesantissima, quella contenuta nel rapporto delle Nazioni Unite sull’operazione militare «Piombo Fuso» condotta dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. A stendere il rapporto (574 pagine) è stato un pool di quattro esperti internazionali guidato dal giudice sudafricano Richard Goldstone, ex procuratore capo dei Tribunali internazionali per il Ruanda e l’ex Jugoslavia. Il rapporto delle Nazioni Unite accusa Israele di «non aver preso le precauzioni necessarie per ridurre al minimo le perdite di vite civili», come si legge in un riassunto del documento diffuso alla stampa. Goldstone è stato incaricato dal Palazzo di Vetro di indagare le violazioni del diritto internazionale nel corso dell'intervento di Israele nella Striscia di Gaza dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009. Il rapporto sostiene che il governo israeliano ha «imposto un blocco di rifornimenti pari ad una punizione collettiva» per la popolazione delle Striscia di Gaza, «portando avanti una politica sistematica tesa a isolare e privare di risorse» i civili.
D'altro canto il rapporto rimarca anche che il lancio di missili contro Israele da parte palestinese costituisce «un crimine di guerra e può essere ritenuto crimine contro l'umanità» in quanto non distingue fra obiettivi militari e civili. Hamas è sotto accusa. Nel presentare il rapporto,il giudice Goldstone ha anche esortato i miliziani i palestinesi a liberare il soldato israeliano Gilad Shalit, sequestrato nel 2006 e da allora tenuto prigioniero a Gaza.
ACCUSA E DIFESA
Goldstone, un ebreo, ha definito «ridicole» le accuse di antisemitismo che gli sono state rivolte da ambienti israeliani del rapporto. «Accusarmi di antisemitismo è ridicolo» ha detto Goldstone, presentando il rapporto dell'Onu molto critico su comportamento degli israeliani, ma anche dei palestinesi, nel corso dell' operazione militare «Piombo Fuso». In una conferenza stampa al Palazzo di Vetro Goldstone ha detto: «Sono ebreo, ho legami con Israele, e sono stato profondamente deluso» dall'atteggiamento israeliano nei miei confronti in questa vicenda. «Penso che quello che ho fatto sia nell'interesse di Israele». Goldstone ha chiesto che il suo rapporto sia trasmesso alla Corte Penale Internazionale (Cpi) dell'Aja, e al Consiglio dei diritti umani dell'Onu, che lo ha ordinato. Il pubblico ministero della Corte de L'Aja, l'argentino Luis Moreno-Ocampo, dovrà esaminare il dossier preparato da Goldstone «il più rapidamente possibile», ha auspicato il giudice sudafricano.
GERUSALEMME FURIOSA
Durissima la reazione d’Israele. Quel rapporto si legge in una nota di reazione diffusa dal ministero degli Esteri da Gerusalemme «scrive un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto dei popoli all'autodifesa». Nella nota si afferma che «il verdetto era stato già scritto in anticipo a Ginevra» e si accusa la commissione guidata da Goldstone di «essersi limitata a raccogliere testimonianze false o unilaterali contro Israele» nella sua recente missione nella regione. Di qui la convinzione del ministero degli Esteri israeliano che «il rapporto scriva un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto all'autodifesa dei popoli». Principio, quest'ultimo, invocato da Israele a fondamento dell'operazione Piombo Fuso.

mercoledì 26 agosto 2009

Gli Usa non mollano l'osso

Gli Usa non mollano l'osso

Antonio Sciotto

il manifesto del 22/08/2009

Incriminati ex manager Ubs e un legale: favorivano le frodi

Se qualcuno pensava che il capitolo «lotta all'evasione» si potesse concludere - almeno per questo periodo - con l'accordo Usa-Ubs di qualche giorno fa, si deve ricredere: gli States di Barack Obama hanno deciso di perseguire duramente i trasgressori e adesso sono passati a una guerra aperta contro il segreto bancario svizzero, arrivando a incriminare un manager della Neue Zurcher Bank (Nzb), quadro di Ubs fino al 2002, e un avvocato di uno studio legale zurighese: i due sono accusati di aver aiutato clienti statunitensi ad evadere le tasse e di aver corrotto un funzionario svizzero. Intanto proprio ieri è arrivata la sentenza di un caso che ha molto fatto discutere in America, quello del manager - anche lui ex Ubs - Bradley Birkenfeld: rischiava cinque anni per aver aiutato un miliardario americano, Igor Olenicoff, a evadere le tasse, trasferendo 200 milioni di dollari in Svizzera e in Liechtenstein; è stato condannato a 40 mesi, perché ha confessato e collaborato. Inoltre, Birkenfeld aveva fatto da corriere per ricchi statunitensi, trasportanto clandestinamente gioielli e oggetti d'arte, fino a nascondere un diamante nel tubetto di dentifricio, per poterlo far entrare negli Usa.
La denuncia contro il banchiere e l'avvocato zurighesi è il terzo procedimento di questo tipo delle autorità Usa contro manager di banche svizzere accusati di aver aiutato gli evasori fiscali. Il primo ad essere denunciato era stato proprio Birkenfeld; il secondo Raoul Weil, ex responsabile della gestione patrimoniale, che non si è presentato dinanzi alle autorità americane ed è quindi stato dichiarato latitante. Tornando ai due personaggi denunciati ieri, il Wall Street Journal parla di quattro clienti citando l'atto di accusa: si tratta di Jeffrey Chernick e John McCarthy, due uomini d'affari che si sono già dichiarati colpevoli di aver evaso il fisco, e di altri due clienti rimasti anonimi.
I due accusati «hanno falsificato documenti bancari per far sembrare che gli asset dei loro clienti americani appartenessero a cittadini svizzeri - dice la denuncia - e hanno falsificato documenti per far sì che il rimpatrio degli asset sembrasse un'eredità ricevuta dall'estero». «Hanno spiegato ai loro clienti che i loro asset sarebbero stati più al sicuro alla Nzb visto che la banca non è presente negli Stati Uniti» e quindi «era meno probabile che le autorità americane potessero fare pressione per ottenere le loro identità». Il manager coinvolto nella vicenda è stato licenziato non appena appreso della denuncia, ha annunciato la Nzb.
Il banchiere e l'avvocato avrebbero aiutato Chernick e McCarthy a evadere le tasse attraverso società a Hong Kong collegate a un conto corrente Ubs. Inoltre - secondo il Dipartimento di giustizia Usa - i due avrebbero versato 45 mila dollari in favore di «un rappresentante del governo svizzero» per sapere se Chernick figurava nella lista dei 285 nomi che Ubs ha consegnato lo scorso febbraio alle autorità americane». Ieri il ministero pubblico della Confederazione elvetica ha confermato di aver avviato un'inchiesta contro ignoti per corruzione e violazione del segreto d'ufficio, mentre sembra che le autorità abbiano già emesso mandati di cattura nei confronti dei due uomini.
«La mossa degli Usa - afferma il New York Times - apre un nuovo fronte nella sfida fra Washington e la tradizione del segreto bancario svizzero ed è un segnale di come le autorità americane stiano ampliando il proprio attacco al segreto bancario. In Svizzera ci sono circa un terzo dei 7 mila miliardi di asset che si ritiene siano depositati offshore». «Si tratta di un nuovo passo nell'ambito degli sforzi per perseguire gli asset in paradisi nascosti, non importa dove» - ha spiegato il commissario dell'Internal Revenue Service (Irs, agenzia del fisco Usa) Douglas Shulman, precisando che le autorità «stanno ottenendo l'accesso a un numero crescente di informazioni su istituzioni e individui coinvolti in schemi di evasione fiscale tramite paradisi offshore».

Furbetti a stelle e a strisce

Furbetti a stelle e a strisce

Matteo Bosco Bortolaso

il manifesto, 23/08/2009

In America il caso della banca svizzera Ubs riapre la caccia agli evasori, finiti sul banco d'accusa come i manager delle banche fallite. E il Times sollecita il Congresso ad approvare subito la nuova legge anti-evasione

Su Madison Avenue, dietro Grand central, la stazione delle ferrovie di New York, c'è uno splendido palazzo che porta il nome di Leona Helmsley, donna ricchissima che lasciò parte della sua fortuna - 12 milioni di dollari - al suo cane maltese, Trouble. «Dovete pagare molte tasse», le disse una volta Elizabeth Baum, una governante. «Noi non le paghiamo - rispose la regina degli immobili newyorchesi - le tasse sono cosa per il popolino». Qualche tempo dopo, la Baum parlò in tribunale. E la ricca signora fu condannata ad un anno e mezzo di carcere.
E' un episodio che potrebbe ripetersi presto. Dopo i manager di Wall Street che si premiano con i bonus dorati, l'America in crisi ha trovato un nuovo capro espiatorio: gli evasori. Questa settimana è arrivata una decisione storica: la Svizzera ha deciso di collaborare con gli Stati Uniti, rendendo noti - più poi che prima - i nomi di migliaia di correntisti americani accusati di aver aggirato il fisco con l'aiuto del gigante elvetico Ubs. La banca ha tentacoli ovunque, con grosse sedi negli States: New York, New Jersey, Connecticut. Un suo spot diceva confidenzialmente: «You and us», tu e noi.
I clienti? Uomini d'affari, industriali, amanti degli yacht. Centinaia, migliaia di furbetti a stelle e strisce che popolano le coste della Florida e quelle della California. In cima alla lista c'è John McCarthy, imprenditore di Malibù che ha usato un conto corrente di Ubs - controllato da Hong Kong - per evitare di pagare tasse. Poi c'è Steven Michael Rubinstein, il contabile di una società di yacht della Florida, accusato di non aver denunciato milioni di dollari circolati su un conto elvetico gestito da una società di comodo sulle Isole Vergini. Nella galleria degli evasori troviamo anche Robert Moran, altro patito degli yacht che ha ammesso di non aver dichiarato oltre tre milioni di dollari controllati da un'azienda fittizia panamense. C'è Jeffrey Chernick, rappresentante di costruttori di giocattoli cinesi a New York che ha cercato di nascondere al fisco otto milioni di dollari, tenuti in conti segreti controllati ad Hong Kong.
Il caso più eclatante, però, è quello del re dell'immobile Igor Olenicoff, che ama la vodka e divide il suo tempo tra Orange County, in California, e Lighthouse Point, in Florida. Tra tasse evase, multe ed interessi, ha dovuto pagare al fisco americano 52 milioni di dollari. I loschi traffici di Olenicoff sono stati aiutati da Bradley Birkenfeld, ex banchiere della Ubs che si è pentito.
Birkenfeld è una figura chiave dell'affare Ubs: decidendo di collaborare con la giustizia americana, ha aperto le porte sull'universo dei ricchi evasori. Non è un caso che il 44enne, originario del Massachusetts, studi negli States e in Svizzera, abbia ricevuto attestati di stima da parecchie parti: dal senatore Carl Levin, che da tempo indaga sulla banca elvetica, dai responsabili della Securities and Exchange Commission (la Consob americana) e dalla Internal Revenue Service, l'agenzia che riscuote le tasse degli Stati Uniti.
Il pubblico ministero aveva chiesto che Birkenfeld fosse condannato a due anni e mezzo. Il giudice di Fort Lauderdale, in Florida, ha preferito una pena di tre anni, comunque meno del massimo possibile (un lustro). L'ex banchiere, in effetti, non è senza colpe: ha aiutato Olenicoff e altri abbienti ad aggirare il fisco, con sotterfugi rocamboleschi come gli ormai famosi diamanti nascosti in un tubetto del dentifricio.
L'opinione pubblica, però, è perplessa: perché punire il pentito e non il furbetto che continua a godersi il sole di Emerald Beach? Olenicoff, il 66enne re del mattone aiutato da Birkenfeld, ha pagato i 52 milioni di dollari di arretrati e se l'è cavata con la condizionale. «Quello più ricco non è andato in carcere - commenta rabbioso un lettore di Usa Today, che si firma Brutus Buckeye - ancora una volta, se hai i soldi per pagare le multe, evadere le tasse è un rischio accettabile!». In effetti, la legge degli Stati Uniti prevede il carcere per gli evasori, ma chi riesce a pagare può evitare la galera. Secondo Tax Justice Network, un'associazione che combatte i paradisi fiscali, gli evasori hanno nascosto a livello planetario più di 11 trilioni di dollari. Se la Svizzera, viste le prime crepe nel segreto bancario, non sembra più essere un luogo sicuro, i furbetti puntano ad altri lidi: Singapore, Panama, Liechtenstein.
Ieri il New York Times ha dedicato alla faccenda il primo dei suoi editoriali, suonando la carica: «Il Congresso - scrivevano le penne della pagina Op-Ed - dovrebbe approvare la legislazione anti-evasione preparata per il bilancio 2010». Con le nuove norme, spiega il giornale, l'agenzia per la riscossione potrebbe chiedere alla banche all'estero di rendere note alcune informazioni sui risparmi dei cittadini americani, con la possibilità di prelevare le tasse non pagate.

domenica 9 agosto 2009

Amazzonia all'avanguardia

Amazzonia all'avanguardia

Gianni Proiettis

il manifesto del 05/08/2009

Dopo i sanguinosi scontri di giugno nella Amazzonia peruviana, il governo di García credeva di avere stroncato il movimento di resistenza indigena. Ma si è sbagliato

La strage della Curva del Diablo, perpetrata nei pressi di Bagua nell'Amazzonia peruviana il 5 giugno scorso, costituisce «un nuovo episodio della storia di lotta e resistenza dei popoli per la vita», come è stato scritto, mostra la forza e la maturità del movimento indo-amazzonico e marca un prima e un dopo nella storia recente del Perú.
Per i fatti di Bagua - in cui furono uccisi 24 poliziotti e un numero imprecisato, ma certamente superiore, di indios amazzonici - la stampa peruviana ha già creato un neologismo: un «baguazo», un colpo alla Bagua, servirà a indicare d'ora in poi la repressione omicida esercitata a tradimento dallo Stato contro una protesta popolare.
Gli indios awajún e wampis che bloccavano la strada statale Fernando Belaúnde all'altezza della Curva del Diablo avevano una valida ragione per la loro lotta: impedire il saccheggio e la devastazione delle terre ancestrali, salvare l'Amazzonia dalla cupidigia dell'uomo bianco e dall'ombra mortale del suo «sviluppo».
Con un nome preso in dalla mitologia greca, selva primordiale e terra incognita per eccellenza, bacino fluviale delle dimensioni di un continente, l'Amazzonia non è solo «il polmone del pianeta» per i suoi 7 milioni di km quadri di vegetazione, ne è anche il rene - gigantesco filtro acquatico - e l'utero, in quanto crogiuolo umido e fecondo della massima biodiversità.
Divisa fra sette paesi - Brasile, Guyana, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia - l'Amazzonia è una delle regioni linguistiche più complesse del pianeta: 300 lingue autoctone, derivate da 20 famiglie differenti, per meno di due milioni di parlanti. La sola Amazzonia peruviana ospita 60 gruppi etnici diversi e altrettante lingue e cosmovisioni.
Immortalato da Claude Lévi-Strauss, studiato da generazioni di etnografi e antropologi, ammirato in crescendo dai lettori occidentali, l'indio amazzonico, al di là della varietà delle sue etnie e culture, presenta paradossalmente, in una società considerata «senza scrittura», le capacità poliedriche di un saggio del Rinascimento: architetto (e costruttore), artista, astronomo, botanico (e terapeuta), guerriero (e cacciatore), musicista, naturalista, inventore. E, soprattutto, guardiano della foresta, scudo umano contro il «progresso» occidentale portato dalle grandi compagnie, che non arretrano neanche di fronte all'etnocidio e all'ecocidio.
Preceduta da un anno di proteste contro i decreti-legge del presidente Alan García - fast track all'apertura indiscriminata di una regione grande una volta e mezza l'Italia alle multinazionali, soprattutto estrattive e agro-industriali, ignorando l'esistenza e i diritti degli abitanti originari - l'aggressione poliziesca di Bagua, che nelle intenzioni del governo avrebbero dovuto porre fine a quasi due mesi di scioperi, occupazioni e blocchi stradali, ha provocato invece un effetto domino nella realtà nazionale e il risveglio della campagna in difesa dell'Amazzonia e dei suoi popoli a livello mondiale.
Dopo il ritiro dei decreti più apertamente incostituzionali - uno dei quali chiamato ironicamente ley de la selva, la legge della giungla - ci sono state le dimissioni del governo di Yehude Simon, a metà luglio. Simon, che ha un suo progetto di carriera politica a lungo termine, ha evitato dimettendosi di pagare due conti: quello con le comunità amazzoniche e le loro organizzazioni e, soprattutto, quello con la giustizia, a cui dovrebbe rispondere per la strage di Bagua.
Con la formazione del nuovo governo, guidato da Javier Velázquez Quesquén, che guardacaso è stato il maggior responsabile, come presidente del Congresso, del ritardo del dibattito parlamentare sui decreti amazzonici, il presidente Alan García manda un messaggio forte e chiaro: dopo l'effimera vittoria del movimento indigeno con il ritiro dei decreti, che ci si prepari a una stagione di repressione dura. C'è già chi lo ha definito un «governo di trincea», preoccupato soprattutto, dopo le giornate di lotta del 7-8 luglio di molti settori e in tutto il paese, di non farsi sfuggire di mano la situazione.
Tutte le promesse fatte da Yehude Simon - ormai ribattezzato popolarmente Judas, Giuda - si stanno avverando al contrario: per i cinque principali dirigenti dell'Aidesep (la Asociación Interétnica para el Desarrollo de la Selva Peruana, l'organizzazione che raggruppa 1350 comunità della selva, varie organizzazioni regionali ed è l'unico interlocutore valido del governo) non si vogliono ritirare i mandati di cattura, credendo così di decapitare il movimento.
Ad Alberto Pizango, il lucido e battagliero leader shawi rifugiato in Nicaragua, si sono aggiunti i fratelli Cervando e Saúl Puerta Peña, a cui il governo peruviano ha concesso il lasciapassare. Teresita Antazu, presidente della Unión de Nacionalidades Asháninka-Yanesha, ha rifiutato l'asilo politico di Managua e ha preferito restare in clandestinità in Perù, da dove rilascia combattive interviste in cui sottolinea l'assurdità delle accuse con cui si vorrebbe addossare ai dirigenti indigeni la responsabilità dei fatti di Bagua, proprio mentre loro si trovavano a Lima impegnati nelle trattative con il governo.
Anche Santiago Manuín, un leader del movimento indo-amazzonico riconosciuto a livello continentale, non ha voluto esiliarsi in Nicaragua. Voluto né potuto, visto che è ancora ricoverato nell'ospedale di Chiclayo dopo aver ricevuto otto colpi di una raffica di mitra la mattina del 5 giugno alla Curva del Diablo. Santiago si stava dirigendo verso i poliziotti con le mani in alto, esortandoli a non aprire il fuoco. Nessuno dei manifestanti che partecipavano al blocco stradale aveva armi da fuoco. Al massimo, le loro lance di legno, che usano anche come simboli di identità.
Varie organizzazioni nazionali e internazionali stanno chiedendo al presidente García e alla magistratura peruviana che si cambi il mandato di cattura a Santiago Manuín e agli altri dirigenti con uno di comparizione. Ma non sembra esserci nessuna volontà di ammorbidimento nel nuovo governo, anzi. Si è cercato di dividere l'Aidesep (www.aidesep.org.pe), facendo convocare un'assamblea per il cambio di direzione da un ex-dirigente estromesso per peculato.
Lo zampino fin troppo scoperto del governo in questa operazione divisionista si è scontrato con una direzione provvisoria - Daysi Zapata sostituisce attualmente Alberto Pizango - decisa a far valere la legalità. Gli otto apus, i soli rappresentanti regionali con la facoltà statutaria di convocare un'assemblea di quel tipo, sono venuti a Lima per confermare l'attuale direzione. I divisionisti sono rimasti con le pive nel sacco di fronte alla dimostrazione di forza e unità del movimento, ormai con appoggio a livello nazionale e solidarietà mondiale.
Da parte del governo, che gode di bassissima popolarità, non c'è da aspettarsi una conversione: è di pochi giorni fa la notizia che il ministro degli esteri José Antonio García Belaúnde ha protestato presso il governo nicaraguense per aver permesso un intervento telefonico di Alberto Pizango in un congresso del movimento indigeno dell'Amazzonia centrale. Secondo il governo peruviano, si «varcati i limiti» del diritto d'asilo.
Ma nella trincea opposta, quella che difende l'Amazzonia, non si sta mani in mano. Daysi Zapata era attesa ao a Ginevra i primi d'agosto per accusare di razzismo il presidente Alan García di fronte a un'apposita commissione. L'Onu, che ha già inviato in Perù il relatore sui diritti umani James Anaya, insiste perché sia un organismo indipendente e internazionale a indagare sui fatti di Bagua. Amnesty International ha già mandato due osservatrici per un'inchiesta sul luogo.
Alan García, che ha pronunciato un discorso alla nazione il 28 luglio, festa dell'Indipendenza e inizio del quarto e penultimo anno del suo mandato, non ha smesso, neanche per l'occasione, di farneticare sul «complotto internazionale» contro il Perú, capitanato da Evo Morales e Hugo Chávez ed eseguito da alcune perfide ong.
«Se si prendessero la briga di vedere da dove vengono i maggiori finanziamenti all'Aidesep», dice Maria Pia Dradi, «avrebbero la sorpresa di scoprire che vengono soprattutto da Spagna e Germania, due paesi poco propensi alla sovversione». Maria Pia è la responsabile del Fondo Italo-Peruano, un fondo da 200 milioni di dollari che si trasformano da debito estero in cooperazione allo sviluppo. Con una prassi che andrebbe riprodotta in molti altri paesi, il Fondo seleziona fra i progetti presentati dalle ong quelli più interessanti e urgenti - produttivi, ecologici, culturali, archeologici e così via - e li finanzia. Va menzionato l'ottimo lavoro di Terra Nuova, presente da più di 20 anni in Amazzonia, con progetti di salute, educazione, acquicoltura, etnoturismo e agroforesteria.
Le scelte e le decisioni del comitato direttivo del Fondo si prendono per consenso più che per maggioranza. E' un omaggio al principio del consenso comunitario praticato nelle assemblee indo-americane o è un esperimento democratico per superare la vecchia e oppressiva regola della maggioranza?
Intanto è trapelato che, negli stessi giorni in cui venivano ritirati i decreti amazzonici, il ministero per l'energia e le miniere ha firmato un contratto di concessione alla compagnia petrolifera anglo-francese Perenco, che investirà due miliardi di dollari nella perforazione di cento pozzi nel Block 67, ai confini con l'Ecuador. La previsione è di estrarre 100mila barili di greggio al giorno. Poco importa che gli studi di impatto ambientale abbiano segnalato la presenza di due tribù incontattate nella zona: il governo ha dichiarato la concessione «necessità nazionale».