domenica 9 agosto 2009

Amazzonia all'avanguardia

Amazzonia all'avanguardia

Gianni Proiettis

il manifesto del 05/08/2009

Dopo i sanguinosi scontri di giugno nella Amazzonia peruviana, il governo di García credeva di avere stroncato il movimento di resistenza indigena. Ma si è sbagliato

La strage della Curva del Diablo, perpetrata nei pressi di Bagua nell'Amazzonia peruviana il 5 giugno scorso, costituisce «un nuovo episodio della storia di lotta e resistenza dei popoli per la vita», come è stato scritto, mostra la forza e la maturità del movimento indo-amazzonico e marca un prima e un dopo nella storia recente del Perú.
Per i fatti di Bagua - in cui furono uccisi 24 poliziotti e un numero imprecisato, ma certamente superiore, di indios amazzonici - la stampa peruviana ha già creato un neologismo: un «baguazo», un colpo alla Bagua, servirà a indicare d'ora in poi la repressione omicida esercitata a tradimento dallo Stato contro una protesta popolare.
Gli indios awajún e wampis che bloccavano la strada statale Fernando Belaúnde all'altezza della Curva del Diablo avevano una valida ragione per la loro lotta: impedire il saccheggio e la devastazione delle terre ancestrali, salvare l'Amazzonia dalla cupidigia dell'uomo bianco e dall'ombra mortale del suo «sviluppo».
Con un nome preso in dalla mitologia greca, selva primordiale e terra incognita per eccellenza, bacino fluviale delle dimensioni di un continente, l'Amazzonia non è solo «il polmone del pianeta» per i suoi 7 milioni di km quadri di vegetazione, ne è anche il rene - gigantesco filtro acquatico - e l'utero, in quanto crogiuolo umido e fecondo della massima biodiversità.
Divisa fra sette paesi - Brasile, Guyana, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia - l'Amazzonia è una delle regioni linguistiche più complesse del pianeta: 300 lingue autoctone, derivate da 20 famiglie differenti, per meno di due milioni di parlanti. La sola Amazzonia peruviana ospita 60 gruppi etnici diversi e altrettante lingue e cosmovisioni.
Immortalato da Claude Lévi-Strauss, studiato da generazioni di etnografi e antropologi, ammirato in crescendo dai lettori occidentali, l'indio amazzonico, al di là della varietà delle sue etnie e culture, presenta paradossalmente, in una società considerata «senza scrittura», le capacità poliedriche di un saggio del Rinascimento: architetto (e costruttore), artista, astronomo, botanico (e terapeuta), guerriero (e cacciatore), musicista, naturalista, inventore. E, soprattutto, guardiano della foresta, scudo umano contro il «progresso» occidentale portato dalle grandi compagnie, che non arretrano neanche di fronte all'etnocidio e all'ecocidio.
Preceduta da un anno di proteste contro i decreti-legge del presidente Alan García - fast track all'apertura indiscriminata di una regione grande una volta e mezza l'Italia alle multinazionali, soprattutto estrattive e agro-industriali, ignorando l'esistenza e i diritti degli abitanti originari - l'aggressione poliziesca di Bagua, che nelle intenzioni del governo avrebbero dovuto porre fine a quasi due mesi di scioperi, occupazioni e blocchi stradali, ha provocato invece un effetto domino nella realtà nazionale e il risveglio della campagna in difesa dell'Amazzonia e dei suoi popoli a livello mondiale.
Dopo il ritiro dei decreti più apertamente incostituzionali - uno dei quali chiamato ironicamente ley de la selva, la legge della giungla - ci sono state le dimissioni del governo di Yehude Simon, a metà luglio. Simon, che ha un suo progetto di carriera politica a lungo termine, ha evitato dimettendosi di pagare due conti: quello con le comunità amazzoniche e le loro organizzazioni e, soprattutto, quello con la giustizia, a cui dovrebbe rispondere per la strage di Bagua.
Con la formazione del nuovo governo, guidato da Javier Velázquez Quesquén, che guardacaso è stato il maggior responsabile, come presidente del Congresso, del ritardo del dibattito parlamentare sui decreti amazzonici, il presidente Alan García manda un messaggio forte e chiaro: dopo l'effimera vittoria del movimento indigeno con il ritiro dei decreti, che ci si prepari a una stagione di repressione dura. C'è già chi lo ha definito un «governo di trincea», preoccupato soprattutto, dopo le giornate di lotta del 7-8 luglio di molti settori e in tutto il paese, di non farsi sfuggire di mano la situazione.
Tutte le promesse fatte da Yehude Simon - ormai ribattezzato popolarmente Judas, Giuda - si stanno avverando al contrario: per i cinque principali dirigenti dell'Aidesep (la Asociación Interétnica para el Desarrollo de la Selva Peruana, l'organizzazione che raggruppa 1350 comunità della selva, varie organizzazioni regionali ed è l'unico interlocutore valido del governo) non si vogliono ritirare i mandati di cattura, credendo così di decapitare il movimento.
Ad Alberto Pizango, il lucido e battagliero leader shawi rifugiato in Nicaragua, si sono aggiunti i fratelli Cervando e Saúl Puerta Peña, a cui il governo peruviano ha concesso il lasciapassare. Teresita Antazu, presidente della Unión de Nacionalidades Asháninka-Yanesha, ha rifiutato l'asilo politico di Managua e ha preferito restare in clandestinità in Perù, da dove rilascia combattive interviste in cui sottolinea l'assurdità delle accuse con cui si vorrebbe addossare ai dirigenti indigeni la responsabilità dei fatti di Bagua, proprio mentre loro si trovavano a Lima impegnati nelle trattative con il governo.
Anche Santiago Manuín, un leader del movimento indo-amazzonico riconosciuto a livello continentale, non ha voluto esiliarsi in Nicaragua. Voluto né potuto, visto che è ancora ricoverato nell'ospedale di Chiclayo dopo aver ricevuto otto colpi di una raffica di mitra la mattina del 5 giugno alla Curva del Diablo. Santiago si stava dirigendo verso i poliziotti con le mani in alto, esortandoli a non aprire il fuoco. Nessuno dei manifestanti che partecipavano al blocco stradale aveva armi da fuoco. Al massimo, le loro lance di legno, che usano anche come simboli di identità.
Varie organizzazioni nazionali e internazionali stanno chiedendo al presidente García e alla magistratura peruviana che si cambi il mandato di cattura a Santiago Manuín e agli altri dirigenti con uno di comparizione. Ma non sembra esserci nessuna volontà di ammorbidimento nel nuovo governo, anzi. Si è cercato di dividere l'Aidesep (www.aidesep.org.pe), facendo convocare un'assamblea per il cambio di direzione da un ex-dirigente estromesso per peculato.
Lo zampino fin troppo scoperto del governo in questa operazione divisionista si è scontrato con una direzione provvisoria - Daysi Zapata sostituisce attualmente Alberto Pizango - decisa a far valere la legalità. Gli otto apus, i soli rappresentanti regionali con la facoltà statutaria di convocare un'assemblea di quel tipo, sono venuti a Lima per confermare l'attuale direzione. I divisionisti sono rimasti con le pive nel sacco di fronte alla dimostrazione di forza e unità del movimento, ormai con appoggio a livello nazionale e solidarietà mondiale.
Da parte del governo, che gode di bassissima popolarità, non c'è da aspettarsi una conversione: è di pochi giorni fa la notizia che il ministro degli esteri José Antonio García Belaúnde ha protestato presso il governo nicaraguense per aver permesso un intervento telefonico di Alberto Pizango in un congresso del movimento indigeno dell'Amazzonia centrale. Secondo il governo peruviano, si «varcati i limiti» del diritto d'asilo.
Ma nella trincea opposta, quella che difende l'Amazzonia, non si sta mani in mano. Daysi Zapata era attesa ao a Ginevra i primi d'agosto per accusare di razzismo il presidente Alan García di fronte a un'apposita commissione. L'Onu, che ha già inviato in Perù il relatore sui diritti umani James Anaya, insiste perché sia un organismo indipendente e internazionale a indagare sui fatti di Bagua. Amnesty International ha già mandato due osservatrici per un'inchiesta sul luogo.
Alan García, che ha pronunciato un discorso alla nazione il 28 luglio, festa dell'Indipendenza e inizio del quarto e penultimo anno del suo mandato, non ha smesso, neanche per l'occasione, di farneticare sul «complotto internazionale» contro il Perú, capitanato da Evo Morales e Hugo Chávez ed eseguito da alcune perfide ong.
«Se si prendessero la briga di vedere da dove vengono i maggiori finanziamenti all'Aidesep», dice Maria Pia Dradi, «avrebbero la sorpresa di scoprire che vengono soprattutto da Spagna e Germania, due paesi poco propensi alla sovversione». Maria Pia è la responsabile del Fondo Italo-Peruano, un fondo da 200 milioni di dollari che si trasformano da debito estero in cooperazione allo sviluppo. Con una prassi che andrebbe riprodotta in molti altri paesi, il Fondo seleziona fra i progetti presentati dalle ong quelli più interessanti e urgenti - produttivi, ecologici, culturali, archeologici e così via - e li finanzia. Va menzionato l'ottimo lavoro di Terra Nuova, presente da più di 20 anni in Amazzonia, con progetti di salute, educazione, acquicoltura, etnoturismo e agroforesteria.
Le scelte e le decisioni del comitato direttivo del Fondo si prendono per consenso più che per maggioranza. E' un omaggio al principio del consenso comunitario praticato nelle assemblee indo-americane o è un esperimento democratico per superare la vecchia e oppressiva regola della maggioranza?
Intanto è trapelato che, negli stessi giorni in cui venivano ritirati i decreti amazzonici, il ministero per l'energia e le miniere ha firmato un contratto di concessione alla compagnia petrolifera anglo-francese Perenco, che investirà due miliardi di dollari nella perforazione di cento pozzi nel Block 67, ai confini con l'Ecuador. La previsione è di estrarre 100mila barili di greggio al giorno. Poco importa che gli studi di impatto ambientale abbiano segnalato la presenza di due tribù incontattate nella zona: il governo ha dichiarato la concessione «necessità nazionale».