lunedì 5 luglio 2010

«I PALESTINESI? TABÙ PER NOI PROF AI TEL AVIV» COHEN, PRESIDE, SPIEGA I TERRITORI OCCUPATI AI SUOI RAGAZZI. LA KNESSET: «LICENZIAMOLO»

«I PALESTINESI? TABÙ PER NOI PROF AI TEL AVIV» COHEN, PRESIDE, SPIEGA I TERRITORI OCCUPATI AI SUOI RAGAZZI. LA KNESSET: «LICENZIAMOLO»

Il Secolo XIX del 5 luglio 2010

Ilaria De Bonis

«I miei ragazzi devono esser consapevoli del fatto che è in corso un'occupazione militare. Che ci sono i checkpoint e il muro di separazione in Cisgiordania. Strade e infrastrutture accessibili solo agli ebrei israeliani. E mio dovere parlarne e questo non significa che sto facendo politica ma che parlo di diritti umani». Ram Cohen, israeliano, 43 anni, da nove preside del Tichon IroniAlef, un noto istituto d'Arte di Tel
Aviv, è finito su tutti i giornali quest'anno per via delle sue posizioni "sovversive". Rischiando il licenziamento. Cohen parla pacatamente, senza enfatizzare, racconta di aver dovuto affrontare un'audizione parlamentare alla Knesset, chiamato dai deputati di destra, il 21 giugno scorso. Accusato di aver parlato troppo, di aver eliminato qualche tabù mettendo gli studenti di fronte ad una realtà non edulcorata.
Lei si e espresso contro l'occupazione, le colonie e i check point. Ma erano cose veramente così nuove per i suoi studenti?
«Sì, certo. I ragazzi non sanno cosa c'è dall'altra parte. Era l'inizio dell'anno accademico e ho deciso di tenere il mio discorso d'apertura in modo diverso dal solito, davanti agli studenti dell'ultimo anno. Ho parlato dei palestinesi. Ho detto ai ragazzi di non essere apatici, di prendere una posizione, qualunque essa sia. I più giovani non sanno neanche come sono fatti i palestinesi, hanno paura di loro. Non sono mai stati neanche a Gerusalemme est o nelle colonie. Sviluppano posizioni contrarie ai due stati per due popoli».
Che responsabilità ha in questo, secondo lei, l'informazione israeliana?
«Anche i mass media sono confusi. Non sanno se chiamarla occupazione, non sanno se parlare di territori palestinesi. Ad esempio non parlano di West Bank ma di Giudea e Samaria. Usano nomi neutrali».
Dei coloni che cosa pensa? «Credo che stiano facendo un grosso errore, ma non li odio: fanno parte del mio Paese. Però mettono a rischio sia me che il mio Paese».
Di che cosa ha paura la destra? Che lei racconti la verità ai giovani? «Uno dei timori è che io possa spingerli a rifiutare il servizio militare, che qui è obbligatorio. Temono che i miei discorsi contro l'occupazione, possano allontanarli dall'esercito. La nostra è una scuola tra le più aperte! I genitori sono giornalisti, artisti, molti scrivono per Haaretz, il quotidiano di sinistra. Eppure gli studenti non hanno coscienza politica e questo è grave».
Lei nei Territori palestinesi c'e mai stato? «Sì, ed è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. A metà dell'anno accademico ho partecipato ad un tour in Cisgiordania, organizzato da una Ong di donne israeliane. Non ho portato gli studenti, perché mi sembrava prematuro, sono andato con altri insegnanti. E il giorno dopo era sui giornali. Hanno detto che avevo oltrepassato il limite e che dovevo essere licenziato. Il dibattito a quel punto era: un educatore ha il diritto di dire quel che pensa? Dove finisce la libertà di espressione per un insegnante? Ed è stato anche l'argomento dell'audizione alla Knesset».
Che cosa e successo in Parlamento? «A maggio ho cercato di organizzare un altro tour nei Territori Palestinesi ma la sera prima ho ricevuto una telefonata. Diceva chiaramente che sarei saltato. I membri della destra della Knesset volevano licenziarmi. Allora ho cancellato il tour e poi mi hanno chiamato per incontrare pubblicamente il ministro dell'istruzione».
Quale verdetto ha ricevuto dalla commissione parlamentare? «Nessuno. Si è aperto un dibattito. I parlamentari avevano posizioni diverse: alcuni chiedevano "che occupazione c'è?" Se pensi che ci sia un'occupazione in corso vai alla corte suprema e lamentati. Altri ritenevano che fossi contro il mio paese. Alcuni che volessi spingere i ragazzi a non fare il militare, altri cercavano solo di capire. La sinistra mi ha protetto e ha parlato della libertà di espressione e si sono opposti all'idea che non siamo degli occupanti. Sono stato stupito del ministro dell'istruzione: mi ha difeso nonostante sia di destra».
Professore, lei contesta il suo Stato? «No, non sono contro il mio paese, non sono un sovversivo. Questo ho cercato di far capire. Io voglio stare e lavorare in Israele».
Come si comporterà adesso con i suoi studenti? «Adesso mi sento stanco. Non è facile essere al centro di un ciclone. Attaccati da persone che pensano che tu non faccia bene il tuo lavoro o che quello che fai non è il tuo lavoro. Non è facile proteggersi... Sono veramente stanco. Il prossimo anno penserò ancora al mio diritto di dire ai ragazzi di essere consapevoli di quello che succede. Organizzerò un altro tour alternativo. Perché mi dovrei nascondere? Ma al momento per me è importante conservare il lavoro e lo stipendio».

giovedì 1 luglio 2010

"FAMIGLIA SVALUTATA" L'IRA DEL CARDINALE CONTRO LE UNIONI CIVILI

"FAMIGLIA SVALUTATA" L'IRA DEL CARDINALE CONTRO LE UNIONI CIVILI

La stampa, del 1 luglio 2010

Andrea Rossi

Dicono che quando si è diffusa la voce che l'emendamento Genisio -via l'espressione «pari opportunità» dalla delibera sulle unioni civili- fosse stato in qualche modo suggerito dalla Curia, il cardinale Severino Poletto non l'abbia presa bene. E quando l'altra sera il Consiglio comunale, con il voto favorevole anche dei cattolici del Pd, ha approvato la delibera l'arcivescovo abbia deciso che la misura era colma. In Curia si sono presi due giorni di tempo per riflettere, calibrare parole ed espressioni. Poi hanno emesso una nota durissima, che non porta la firma del cardinale ma ne rispecchia il pensiero. In via Arcivescovado si dicono «amareggiati e perplessi». La delibera sulle unioni civili «va nella direzione di azioni tendenti a svalutare l'istituto della famiglia», è scritto nel documento. «Si enfatizzano vincoli alternativi», cosa che potrebbe indurre una «mentalità libertaria dove ognuno vorrebbe che ogni scelta di vita ottenesse comunque una legittimazione di copertura giuridica». Si parla di scelta «ideologica», in controtendenza con quanto servirebbe a un Paese in «grave crisi demografica» e con poche leggi «a favore della famiglia», che andrebbe invece sostenuta «nella sua stabilità già fin troppo vacillante». Non manca una stoccata al sindaco. Chiamparino non viene mai citato, ma il riferimento alle sue parole di martedì - «il nostro è un segnale forte nei confronti del Parlamento, l'Italia ci segua» - è chiaro: «Qualcuno ha salutato la delibera come un traguardo di civiltà da accogliere con orgoglio, quasi che Torino debba presentarsi come campione che fa da apripista per una battaglia iniziata da anni e finalizzata a emarginare passo dopo passo il nucleo essenziale della società qual è la famiglia fondata sul matrimonio». In serata, da Roma, Chiamparino prende carta e penna e risponde. Toni cauti, ma non cede di un millimetro. Cerca però di gettare acqua sul fuoco ed evitare lo scontro aperto con la Curia: «Non è un mistero che sul tema delle coppie di fatto ci sia una divergenza di opinioni. Tuttavia non è fondata la preoccupazione secondo cui l'istituto della famiglia verrebbe svalutato. Quello approvato dal consiglio comunale è infatti un percorso del tutto parallelo che non si confonde con i valori della famiglia». Il sindaco si fa forte del voto incassato sul provvedimento da «autorevoli esponenti del mondo cattolico». Gli stessi che lanciano segnali di preoccupazione: nessuna marcia indietro, solo il timore che si enfatizzi - a cominciare proprio dal sindaco - il ruolo di Torino come città apripista. Quadro che fa dire a Domenica Genisio che «Chiamparino ha un po' esagerato. Non abbiamo innovato proprio niente». Il disagio è palpabile. Le bordate del centrodestra erano state messe in conto. Meno quelle del cardinale. E ora hanno buon gioco i cattolici da sempre contrari alla delibera, a cominciare dagli assessori all'Anagrafe Ferraris e al Welfare Borgione. «È un provvedimento inutile, funzionale solo a sostenere che a Torino c'è una discriminazione verso chi non è sposato, cosa del tutto falsa», sostiene Olmeo dell'Api.