martedì 29 aprile 2008

Calabria, villette in costruzione sopra un tempio ellenistico

Calabria, villette in costruzione sopra un tempio ellenistico
13 GIUGNO 2007, LA REPUBBLICA

CASO
Torre Melissa, intervengono i carabinieri. Rutelli: pene più dure per i vandali

Alcuni reperti sono finiti in una discarica

ROMA - Un tempio del IV secolo avanti Cristo è stato scoperto a Torre Melissa, sulla costiera ionica, durante i lavori di costruzione di alcune villette a schiera. Un nuovo episodio di scempio del nostro patrimonio archeologico: alcune colonne e capitelli sono stati usati per abbellire un villaggio turistico, altri reperti sono finiti in una discarica mentre gran parte dell´edificio sarebbe stato sepolto da una colata di cemento. Sono stati i carabinieri del comando tutela patrimonio artistico a bloccare tutto dopo una serie di sopralluoghi effettuati anche con gli elicotteri. Due persone sono state denunciate e il cantiere è stato posto sotto sequestro.
«Si tratta di un ritrovamento molto importante - ha commentato il ministro dei beni culturali Francesco Rutelli - un tempio del III-IV secolo avanti Cristo, probabilmente ellenistico, con tracce doriche e ioniche che viene alla luce è un autentico tesoro, ritrovato grazie ai carabinieri». Il ministro ha anche annunciato che il presidente Napolitano ha firmato il disegno di legge con delega al governo che prevede pene più dure contro il vandalismo, i furti d´arte e gli scavi clandestini.
Le caratteristiche del tempio, come ha spiegato il soprintendente per la Calabria Pietro Guzzo sono uniche per la presenza di elementi diversi e riportano alla popolazione dei Brezzi. L´unico edifico simile è il tempio di Apollo Aleo di Cirò, scoperto nel 1916. I carabinieri del comando tutela patrimonio artistico hanno avuto alcune informazioni su un ritrovamento casuale (il cantiere aveva tutte le autorizzazioni in regola) e hanno aspettato diversi giorni prima di entrare in azione. «Quando la notizia si è sparsa, tutta la città si è data da fare perché neanche una pietra andasse perduta», ha spiegato il sindaco di Torre Melissa, Giuseppe Bonessi. L´area potrebbe trasformarsi in un sito archeologico.
(m. l.)

lunedì 28 aprile 2008

"Quell´aeroporto è uno scempio"

"Quell´aeroporto è uno scempio"
MAURIZIO BOLOGNI
MARTEDÌ, 21 AGOSTO 2007, la repubblica - Firenze

Asor Rosa, a nome dei comitati, contro il progetto per il nuovo scalo

Criticata anche la realizzazione del residence da 51 alloggi a Campiglia

«Il primo caso, quello di Campiglia Marittima - ricostruisce Asor Rosa - appartiene alla classe dei fenomeni degenerativi, che il ministro dei beni culturali, Francesco Rutelli, ha recentemente definito "villettopoli". Si tratta infatti di un progetto per la realizzazione di 51 mini appartamenti in grado di occupare, con i servizi, ben più di 25.000 metri quadrati del tutto visibili dall´antica Rocca di Campiglia, il quale rappresenterebbe un intollerabile lesione di un territorio assolutamente prezioso e da conservare totalmente; anche per la sovrastante presenza dell´altra Rocca di San Silvestro». Il leader dei comitati boccia anche il progetto di ampliamento dell´aeroporto di Siena. «Il caso dell´aeroporto di Ampugnano - afferma infatti Asor Rosa - appartiene al novero delle così dette grandi opere d´interesse pubblico il cui effetto in realtà è di apportare benefici nulli e di provocare inauditi disastri ambientali. La vicenda genera legittime preoccupazioni nella popolazione locale che rischia di subire passivamente la mercificazione del proprio territorio in nome di interessi non condivisi».
Giudizi lapidari sui due progetti, ai quali Asor Rosa fa seguire una allarmata riflessione generale. «Di fronte al moltiplicarsi di fenomeni di tale natura - scrive il professore - lecita è la valutazione che siamo di fronte ad una situazione uscita da qualsiasi controllo. In tal modo si accentua la divaricazione ormai endemica tra amministratori e amministrati e fra politiche di bassa cucina e interessi strategici autentici dell´ambiente toscano e nazionale». Quindi, a nome della Rete toscana dei comitati, Asor Rosa chiede «il pronto intervento del ministero dei beni culturali, perché, come accadde opportunamente a Monticchiello, sia apposto il vincolo tale da impedire tempestivamente la creazione di una nuova "villettopoli"». E invoca «il pronto intervento della Regione Toscana e della Provincia di Siena, perché, tornando sugli orientamenti in qualsiasi modo già espressi, evitino lo scempio dell´inutile aeroporto di Ampugnano». Infine una promessa: «La Rete toscana è comunque impegnata a fare anche di questi due casi emblematici delle vere e proprie bandiere nazionali, da sostenere con i mezzi più efficaci dell´informazione e dell´agitazione».

Aeroporto a Siena, no degli ambientalisti

Aeroporto a Siena, no degli ambientalisti
L'Unità ed. Firenze, 23-08-2007

Ambientalisti contro l’ampliamento dell’aeroporto di Ampugnano.
Ad alzare il livello di attenzione le notizie secondo le quali Banca Monte dei Paschi e Aeroporto di Siena spa, hanno sottoscritto un accordo con il fondo Galaxy, per lo sviluppo dell’impianto. Un comitato di cui fanno parte anche Italia nostra, Wwf, Legambiente di Siena, professor Alberto Asor Rosa, ha fatto sentire la sua voce contraria ieri in un incontro mettendo in evidenza i pericoli che un progetto del genere avrebbe sull’ambiente.
«Sarebbe una ferita gravissima» ha puntualizzato Nicola Caracciolo presidente regionale di Italia Nostra. In una nota il comitato rileva che la zona interessata «rientra tra le venti aree nazionali più rappresentative per la tutela della biodiversità dell’intera ecoregione mediterranea. Un aeroporto internazionale non è solo una pista di atterraggio: l’impatto di una struttura simile va molto al di là del territorio in cui insiste la pista ed è paragonabile a quello di una vasta area industriale». «Sull’aeroporto di Ampugnano ci sarà una decisione condivisa» ha detto il presidente della Provincia di Siena Fabio Ceccherini, in un dibattito alla festa dell’Unità con il presidente della Regione Claudio Martini. «Ampugnano - ha continuato Ceccherini - è una struttura che è stata fino ad oggi minimamente operativa. Attualmente la società di gestione è nella fase di verifica della fattibilità del completamento dello scalo, anche in relazione ai bisogni della mobilità turistica e alle esigenze economiche del territorio. Negli anni scorsi la Fondazione Mps affidò un incarico per studiare come procedere per completare l’opera e in seguito a quello studio la società di gestione ha fatto un bando pubblico per capire l’interesse di investitori privati nel completamento e nella gestione dell’impianto. Ecco siamo a questo punto. A settembre le società interessate presenteranno i relativi progetti».

Riparte la «Tirrenica». E torna il fronte del no

PAESAGGIO - Riparte la «Tirrenica». E torna il fronte del no
Marco Gasperetti
Corriere della Sera 28/04/2008

GROSSETO - L`autostrada Livorno-Civitavecchia si farà.
Parola di Altero Matteoli, senatore di An e sindaco di Orbetello.
E, salvo colpi di scena, prossimo ministro delle Infrastrutture.
Affermazioni autorevolissime, dunque, che già stanno mettendo in allarme l`esercito dei contrari: comitati e ambientalisti, vip ed ecologisti da anni schierati sul fronte del no.
«Sono passati 38 anni da quando da consigliere comunale a Livorno presentai una mozione per il completamento dell`autostrada - ricorda Matteoli - e ancora non è stato fatto niente. Io sono per informare, ascoltare tutti e poi agire. E il governo Berlusconi agirà, perché Pecoraro Scanio non può più bloccare niente e la Regione Toscana è favorevole. I Costi? La Tirrenica si finanzia da
sola grazie al project financing».
Riccardo Conti, assessore Pd (area Ds) alle Infrastrutture della Regione Toscana è d`accordo: «Se Matteoli conferma di essere favorevole al tracciato costiero ha il nostro ok convinto.
Anche perché fu lui a bocciare l`ipotesi del ministro Lunardi, collega di governo, di un tracciato collinare e ad appoggiare la nostra proposta. Il progetto è all`analisi del Cipe. Il ministro Antonio Di Pietro aveva espresso parere favorevole. Attendiamo fiduciosi l`inizio dei lavori».
Il governatore Claudio Martini conferma: «Completare la Tirrenica, infrastruttura strategica, è una delle cinque priorità del programma della Regione».
Eppure c`è chi pensa che il via ai lavori non sarà ormai una pura formalità. L`opposizione all`autostrada è trasversale.
Contrari sono il fisico Gianni Mattioli, lo storico Nicola Caracciolo, il professore Alberto Asor Rosa, il giornalista Furio Colombo. Sostengono le ragioni del no, pure i parlamentari Franco Bassanini ed Esterino Montino. E il neo senatore Pancho Pardi,
Italia dei Valori, lo stesso partito del favorevole Di Pietro.
«Non capisco il voltafaccia della Regione che una volta era favorevole al rimodernamento dell`Aurelia senza nuovi tracciati - dice Pardi - e poi ha scelto la via dei costi e del maggior impatto ambientale. Anche perché il vecchio tracciato nell`Aurelia non si può eliminare».
Pronto a dare battaglia Vittorio Emiliani, già presidente della Rai: «Docenti del Politecnico e della Cattolica di Milano hanno dimostrato che il progetto ha un rapporto costi benefici assolutamente negativo. Altro che project financing: per risparmiare 12 minuti si spenderanno un sacco di soldi e i luoghi più belli della Maremma saranno invasi da traffico e cemento».
Gli ambientalisti annunciano battaglia. Fulco Pratesi (Wwf): «Basta con gli scempi. C`è un bel progetto dell`Anas per il raddoppio dell`Aurelia».
Fabio Roggiolani, leader dei Verdi toscani: «Torna lo spettro dell`autostrada che devasta il territorio e mangia i soldi dei cittadini. Torneremo in piazza».

Afghanistan, la ricostruzione non parte L’Occidente in balia dei talebani

Afghanistan, la ricostruzione non parte L’Occidente in balia dei talebani
Il Messaggero del 28 aprile 2008, pag. 6

di Marco Guidi

I talebani hanno colpito a Kabul. Lo hanno fatto con i kalashnikov, ma anche con razzi e missili. Ma soprattutto, attaccando il presidente Hamid Karzai durante una cerimonia ufficiale (e che cerimonia, l'anniversario della vittoria dei mujahiddin sui sovietici e i comunisti afghani), hanno dimostrato quello che, purtroppo, tutti sapevano. Tutti sapevano e sanno che ormai i talebani non stanno soltanto sulle montagne e nel Sud del Paese ma che si sono radicati praticamente ovunque, capitale Kabul compresa. L'attacco, a prescindere dai suoi risultati (gli attentatori si sono dimostrati abbastanza maldestri) segna una svolta. Ormai nessuno potrà dirsi più ai sicuro da nessuna parte in Afghanistan, tranne forse che nel Nord, retto con mano di ferro dal signore della guerra uzbeko, Rashid Dostum e, poco più in là, dagli eredi di quel grande uomo che fu Ahmad Sha Massud.

Il problema dell’Afghanistan sta ormai guastando i sonni degli strateghi e dei politici occidentali. Anche perché, stando le cose come stanno, non ci sono vie di uscita se non quella di perdere, magari lentamente, magari non quest'anno ne il prossimo, la guerra contro i talebani e i loro alleati di Al Qaeda e di quell'assassino che risponde al nome di Gulbuddin Hekmatyar, l'uomo che ha distrutto larghe fette di Kabul durante la sua guerra contro Massud.

Il perché di questa sconfitta annunciata sono chiari. Il primo è che la ricostruzione dello sventurato Paese (non è possibile chiamarla nazione, divisa com'è tra etnie, religioni, lingue...) non e mai nemmeno partita. Troppa differenza tra i denari che sarebbero serviti e quelli realmente erogati, troppe cose che andavano fatte e non lo sono state. Mancano strade, acquedotti, elettricità, scuole, ospedali. La gente fuori dalle città vive tuttora in condizioni medievali vittima dei signorotti locali e dei grandi trafficanti. La polizia, l'esercito, i magistrati, i funzionari pubblici sono talmente mal pagati da rendere la corruzione un obbligo più che un reato. In questa situazione i talebani non fanno molta fatica a riconquistare cuori, intelletti e posizioni di potere.

C'è poi il fatto che la guerra, quella combattuta sul campo, non va bene. E non va bene perché i 40 mila uomini che costituiscono i contingenti stranieri (sia quelli venuti per combattere che quelli venuti, almeno ufficialmente, per appoggiare la ricostruzione) sono ridicolmente pochi. Basti pensare che non furono sufficienti 150 mila sovietici e 50 mila governativi a sconfiggere i mujahiddin ai tempi della lotta antisovietica. E' ridicolo pensare che una forza che e meno di un terzo possa vincere sul campo oggi. Anche perché la guerra tecnologica pensata dagli americani, fatta di aerei senza pilota e di bombardamenti in quota non serve a molto, in un terreno come quello afghano.

Quindi bisognerebbe cambiare tutto, aumentare gli aiuti, riuscire davvero a ricostruire, avere molti (molti) più uomini sul terreno, creare finalmente una nuova classe dirigente afghana, limitare il potere di capi tribù, signori della guerra, trafficanti di droga, clero fondamentalista. Bisognerebbe bloccare la frontiera con il Pakistan (magari anche quella con l'Iran) da dove filtrano aiuti e uomini per i talebani.

Nessuna di queste cose è stata fatta, nessuna appare possibile a breve termine. Quindi perché stupirsi se i talebani colpiscono a Kabul durante una cerimonia con Karzai?

venerdì 25 aprile 2008

E' partito il saccheggio delle riserve indiane in nome della lotta al "global warming"

E' partito il saccheggio delle riserve indiane in nome della lotta al "global warming"

di Sabina Morandi

Liberazione del 23/04/2008

Come sfruttare le terre dei nativi d'America? Coinvolgendoli in progetti "ecologici" per poter accedere legalmente ai giacimenti

E' cominciato tutto nel 2003, con una turbina eolica da 750 chilowatt costruita dai Sioux Rosebud nel South Dakota. Il vecchio sogno di un capitalismo ecologico sembrò incarnarsi in quell'accordo transcontinentale «in cui tutti ci guadagnano» scrisse entusiasta il Business Journal , aggiungendo che il progetto consentiva «di combattere contro il riscaldamento globale producendo energia pulita e, al contempo, di aiutare i nativi americani». In effetti, nel sottosuolo delle riserve indiane di occasioni di profitto ce ne sono parecchie: secondo il Dipartimento degli Interni nelle viscere dei territori tribali potrebbero esserci 54 miliardi di tonnellate di carbone, 38 trilioni di piedi cubi di gas naturale e 5,4 miliardi di barili di petrolio, circa il 35% delle risorse fossili degli Stati Uniti secondo l'Indigenous Environmental Network. A tutto ciò bisogna aggiungere le fonti alternative: «il vento che soffia nelle riserve indiane, solo considerando i quattro stati settentrionali delle Grandi pianure, può generare almeno 200 mila megawatt di energia» scriveva nel 2005 Winona LaDuke su Indian Country Today, aggiungendo che, arruolando «i nativi del sud-est degli Stati Uniti si potrebbe generare abbastanza elettricità da chiudere tutte le altre centrali del paese».
In questi tempi di montante anti-imperialismo e crescente instabilità politica, i territori indiani dell'Ovest selvaggio possono essere molto attraenti per i petrolieri. Scarsi controlli, esenzioni fiscali e facilitazioni legali, rendono molto appetibile un'attività che, al contempo, consente di dare una verniciata di verde ai propri affari approfittando della «nuova politica energetica nazionale che» come ha dichiarato Theresa Rosier della segreteria gli Affari Indiani «mira allo sviluppo energetico delle comunità native nelle riserve e in Alaska per aiutare il paese ad avere affidabili fonti energetiche». L'idea che il futuro energetico americano sia legato allo sfruttamento dei giacimenti nazionali più che all'abbattimento dei consumi dissennati, può essere rintracciata in molte delle normative sfornate da allora per rendere possibile lo sfruttamento dell'energia delle riserve. Il problema è che i territori indiani appartengono a nazioni originarie - le tribù - e non agli Stati Uniti o all'industria energetica. Se però una compagnia riesce a fondare una società mista coinvolgendo una delle tribù che abita nelle riserve non solo può accedere alle risorse ma si mette al riparo dalle normative ambientali e dai controlli federali, una vera e propria cuccagna per un settore che ha sempre mal sopportato le regole.
Le prime compagnie miste risalgono al 1971, quando il Congresso stanziò un miliardo di dollari per sponsorizzare la nascita delle "compagnie tribali" in Alaska. In realtà l'obiettivo era di spezzare il fronte delle tribù che si opponevano alla costruzione dell'oleodotto, ma l'iniziativa venne presentata come un modo per stimolare l'economia delle riserve e mitigare la terribile povertà degli indiani. Solo che, quasi subito, cominciò a succedere un fatto strano: le compagnie si aggiudicavano contratti federali per milioni di dollari che poi venivano dati in subappalto. La Olgoonik Corporation della tribù degli Inupiat Eskimo, per esempio, fra il 2002 e il 2005 ha guadagnato più di 225 milioni di dollari costruendo basi militari in giro per il mondo. In realtà, grazie al suo "status tribale" la Olgoonik poteva ottenere i contratti senza partecipare alle gare per poi darli in appalto a una compagnia tristemente nota, l'Halliburton. Nel 2004 un'altra azienda nativo-americana, la Alutiiq, si accaparrò parecchi contratti governativi e poi li subbappaltò alla britannica Wackenhut. Nello stesso periodo un'altra compagnia tribale, la Chugach Alaska Corp. di proprietà di 1.900 nativi dell'Alaska, superò giganti come IBM, Motorola, Goodrich, Goodyear e AT&T nella quantità di contratti per la difesa. Il modello sperimentato in Alaska era perfetto: associandosi con gli indiani le corporation potevano entrare nelle riserve, ottenere contratti fuori gara, godere di notevoli incentivi fiscali e, soprattutto, vendere la privatizzazione delle risorse del sottosuolo come "aiuto allo sviluppo".
Nell'aprile del 2003, quando la NativeEnergy completò la turbina eolica dei Rosebud Sioux ormai era diventato chiaro che il modello basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili avrebbe avuto vita breve e che la nuova frontiera erano le rinnovabili. Del resto NativeEnergy era stata fondata nel 2000 proprio per «aiutare i consumatori abbracciare uno stile di vita amico del clima» attraverso la costruzione di «turbine eoliche e altri impianti per la produzione di energia rinnovabile». La scelta di sviluppare l'eolico nei territori indiani venne presentata come un modo per portare un lavoro, per giunta pulito, ai cittadini più poveri del Nord-America. In realtà la NativeEnergy è stata fondata da Tom Boucher, una vecchia volpe dell'industria energetica che pensò bene di finanziare il progetto approfittando del sistema di scambio delle emissioni previsto dal protocollo di Kyoto. Secondo questo schema le compagnie ecologicamente responsabili producono "crediti d'inquinamento" da rivendere alle industrie più sporche, che possono così "bilanciare" le loro emissioni senza ridurle. La mossa geniale fu quella di comprare dai Rosebud Sioux tutti i crediti di emissione che si presume verranno risparmiati finché la turbina eolica funzionerà (qualcosa come 50 mila tonnellate di anidride carbonica) e poi rivenderli per finanziare il progetto pilota.
Nell'agosto del 2005 l'Intertribal Council on Utility Policy ha comprato la maggioranza delle azioni per conto dei membri delle tribù e NativeEnergy è diventata una compagnia tribale a tutti gli effetti, con l'obiettivo di costruire nuove turbine in otto riserve. Pat Spears, il presidente del consiglio intertribale e membro della tribù dei Brule Sioux, si è detto entusiasta del progetto «perché dimostra che vivere in armonia con la Madre terra non fa solo bene all'ambiente ma anche al business». Probabilmente non è una coincidenza che, in quegli stessi giorni, sia passata una legge - l'Energy Policy Act - che contiene specifiche disposizioni sulle risorse energetiche delle riserve. Tenendo a mente che le compagnie a maggioranza indiana sono esentate da normative e controlli, che possono ottenere contratti governativi senza passare per le gare d'appalto e, infine, che quella legge ha stanziato forti sussidi per l'energia eolica in particolare, la nuova normativa sembra fatta apposta per NativeEnergy.
Nella legge, però, ci sono parecchie disposizioni decisamente allarmanti. Prima di tutto si dà agli Stati Uniti il potere di assicurarsi dei diritti sulle terre indiane senza chiedere il permesso alle tribù se entra in ballo l'interesse strategico. Oltretutto, secondo l'esperto di energia dell'Indigenous Environmental Network, Clayton Thomas-Muller, l'Energy Policy Act «fa a pezzi due leggi fondamentali per la protezione ambientale, il National Environmental Policy Act e il National Historic Preservation Act, entrambi utilizzate dalle comunità indigene per proteggere i loro luoghi sacri». Ma non è tutto. Con la scusa di accrescere la sovranità dei nativi, l'Energy Policy Act trasferisce la responsabilità del monitoraggio ambientale dal governo federale a quello tribale. Non ci vuole un genio per capire che difficilmente gli indiani delle riserve saranno più efficienti nel monitorare l'industria energetica del governo federale o delle Nazioni Unite.
D'altro canto è necessario un atto di fede per credere che l'industria energetica, notoriamente rapace e decisamente poco interessata al disastro climatico che sta provocando in nome del profitto, improvvisamente sia diventata così sensibile nei confronti dell'ambiente o dei diritti dei popoli indigeni.
Dal punto di vista degli indiani è ancora più difficile credere che un'ulteriore deregulation accoppiata con incentivi economici possa portare a qualcosa di diverso dalla solita rapina. Alla fin fine il boom di infrastrutture energetiche tribali si rivela per quello che è: l'inizio di una nuova corsa per accaparrarsi le terre indiane da parte dei soliti noti. Si spera almeno che, attraverso lo sviluppo dell'eolico, del solare e di altre energie rinnovabili, le tribù possano conquistare un minimo di indipendenza energetica. Nel qual caso, forse, si potrà cominciare a parlare davvero di sovranità tribale.

lunedì 21 aprile 2008

California, Stati Uniti d'America. Dal mutuo subprime alla baraccopoli

California, Stati Uniti d'America. Dal mutuo subprime alla baraccopoli

di Gianni Ventola Danese
Liberazione del 20/04/2008

Braccialetto rosso, viola o bianco? E' questa oggi la realtà del cosiddetto popolo dei subprime, le vittime della bolla speculativa immobiliare statunitense. Hanno perso la casa, pignorata dalle banche, e si sono ritrovati in mezzo a una strada, homeless, da un giorno all'altro. Il giorno prima erano media borghesia, benestanti, come ce ne sono tanti anche da noi, con un lavoro e un mutuo da pagare. Ora vivono accampati in baraccopoli e tendopoli (shanty towns e tent city, detto in inglese dà perfino l'idea di qualcosa di suggestivo) che nascono spontaneamente nell'interland di Los Angeles, California. La mitica California. E sono così tanti che l'efficienza americana è corsa subito ai ripari istituendo dei posti di controllo all'entrata delle tendopoli. Anche le tende non sono per tutti, decide il colore del braccialetto. Bianco, hai accesso. Rosso, sei respinto. Viola, da decidere. Vicino ai binari della ferrovia che porta dritti all'aeroporto Ontario di Los Angeles spicca una tenda rossa che porta la scritta "Registration". Paradossale, ma questa è una baraccopoli particolare dove è necessario registrarsi, come negli hotel. Lo può fare solo chi dimostra di avere subìto il pignoramento di una precedente dimora.
Nell'area di Ontario i pignoramenti hanno raggiunto il record di uno su ogni 43 famiglie e la situazione è particolarmente critica. Il nostro inviato dall'inferno è Patrick Ersig, uno dei tanti che documenta tutto e pubblica i suoi video su YouTube. Nell'era di Internet le notizie arrivano direttamente da dove nascono, per mano dei protagonisti. Impiegato presso una piccola azienda informatica, una moglie e due figli piccoli che scorazzano in bicicletta tra le tende. Una bandiera a stelle strisce, consunta, è stata issata, con orgoglio tutto americano, sopra un panorama che potrebbe essere quello di Nairobi. Camper abbandonati che sono diventati alloggi di fortuna, baracche improvvisate con materiali di scarto, lamiere, plastiche, tante piccole tende che hanno sostituito il tetto per cui non era più possibile pagare il mutuo, latrine da campo, fango e condizioni igieniche precarie. Immagini dal "giudizio universale" o, come afferma Patrick, dal "Giudizio Economico" sceso sulla Terra.
Siamo nel sud della California, e la tendopoli accoglie nuovi rifugiati, di giorno in giorno, e nuovi braccialetti scattano ai polsi di gente che fino al giorno prima aveva una vita assolutamente normale: la casa, il Suv, il baseball nel cortile con i propri figli. Ora le tende sono 150, le persone che vivono in questo campo sono ormai quasi 400. Ma come si vive? Senza elettricità, alcuni dormono nelle automobili, quelle che non sono state requisite dalle banche, gli attacchi acqua sono solo due, per 400 persone. Inutile dire che si vive in condizioni da Terzo mondo. Un paesaggio che aspetta solo le telecamere del regista Michael Moore, per denunciare ciò che nessun americano medio avrebbe mai osato immaginare. In un altro video, è Tom a parlare. Magro, abbronzato, e arrabbiato. Non lo hanno accettato, porta al polso il braccialetto rosso, lui una casa non ce l'ha mai avuta. Si allontana maledicendo il suo cosiddetto paese.
La crisi dell'economia americana fa le sue prime vittime, e c'è chi teme che tutto questo sia solo l'inizio. La mancanza totale di uno stato sociale, la latitanza di un vero sistema assicurativo, fanno sì che perdere la casa rappresenti per molti una crisi senza via d'uscita, l'inizio di una nuova vita. Così le tendopoli continuano a sorgere, come funghi: a Sacramento, Fresno, San Francisco, nei canyon nei dintorni di San Diego. Cose mai viste nella assolata California.
E' per quanto sta accadendo che nelle loro prossime sedute i parlamenti degli stati americani dovranno affrontare innanzitutto le conseguenze del tracollo del sistema finanziario riflesso nella crisi dei mutui e nella crisi bancaria, e il fatto che il Congresso federale ha sostanzialmente deciso di non fare nulla. L'associazione dei parlamentari degli stati (Ncsl) ha recentemente condotto un sondaggio d'opinione da cui risulta che quello del bilancio è l'argomento più scottante che i parlamentari debbono affrontare nel 2008. Mark Falzone, vice presidente della Ncsl e parlamentare nello stato del Massachusetts, ha dichiarato: per l'anno nuovo «attendiamo il peggio». Per affrontare la situazione il governatore Schwarzenegger vuole dichiarare una «emergenza fiscale», che comporterebbe tagli del 10 per cento del bilancio e il rilascio anticipato di 20mila detenuti per risparmiare sui costi. Ma non è tutto. Schwarzenegger vorrebbe raccomandare in primo luogo la privatizzazione delle infrastrutture, come da tempo richiedono Felix Roharyn e George Shultz, secondo la formula da essi sperimentata in Cile, dove la fecero applicare dal regime fascista portato al potere nel 1973.
Il governatore della California propone inoltre che gli sia concesso di ricorrere a sua discrezione alla Performance Based Infrastructure (Pbi), un altro nome per la partnership pubblico privato (Ppp). Chiederà ai parlamentari dello stato di concedergli il potere di «espandere quei progetti, servizi ed enti di governo che possono rientrare nel modello Pbi»; in altre parole ben poco resterà in mano alle funzioni del governo, sotto il controllo e la direzione dei funzionari democraticamente eletti. A questa cessione dei poteri ai big della finanza si aggiungono i tagli feroci alla sanità, l'istruzione e i servizi sociali.
Commentando le decisioni di Schwarzenegger, Lyndon LaRouche, attivista politico e presidente del "Movimento internazionale per i Diritti Civili", ha notato che una dichiarazione di emergenza economica in California equivale ad un'emergenza in tutti gli Stati Uniti, se si considera l'importanza e le dimensioni economiche dello stato. Ricordiamo che la California era uno dei massimi polmoni agro-industriali alla base della potenza economica americana, ma che nell'ultimo ventennio ha perso centinaia di migliaia di posti di lavoro qualificati, precariamente sostituiti da lavori sottopagati nei servizi, turismo e intrattenimento. A proposito delle politiche dei repubblicani, LaRouche ha dichiarato che «le misure del governatore della California non sono che una palese ammissione del fallimento economico completo della presidenza Bush, fin dal primo giorno, non solo per la California ma per tutto il paese».
Nel frattempo il numero delle tendopoli come quella di Ontario continua ad aumentare esponenzialmente, e oggi sono 200mila le persone diventate homeless, assistite dalle associazioni di volontariato. La situazione continua a peggiorare, ma non senza aspetti cinicamente surreali. Ne è un esempio quello che accade, non solo in California, ma anche nel Michigan: gli agenti immobiliari affittano dei bus per portare potenziali acquirenti a fare il giro delle case pignorate, finite sul mercato a prezzi convenienti. Le case abbandonate dai proprietari sono talmente tante che occorre pianificare un "giro turistico" per visitarle tutte. E allora pullman granturismo con aria condizionata e sistema di filodiffusione. Benché l'occasione sia ghiotta per chi ha qualche soldo da investire, sono decine di migliaia le case che restano invendute. La città di Philadelphia ha proposto una moratoria a questo triste mercimonio, ma naturalmente banche e agenti hanno gridato allo scandalo illiberale.
A Miami, luogo dove ogni europeo cafone con due quattrini ambiva a comprarsi l'appartamentino, adesso tre camere, due bagni, giardino e garage si vendono ad appena 100mila dollari (meno di 70mila euro) ma nessuno se li compra. Nel New England, una ditta di traslochi si è specializzata nel "bonificare" le case abbandonate dai proprietari sfiniti dal mutuo, che spesso se ne vanno lasciando i mobili dentro. La ditta svuota e rivende all'asta: un bel business. Non tutti vanno via senza fiatare. Le banche sono indignate perché molti, prima di consegnare le chiavi agli istituti di credito divenuti proprietari, si vendicano bucando pareti, sfondando bagni, devastando cucine, allagando salotti. La banca chiede i danni, ma chi dorme in macchina ha ormai poco da perdere. Qualche banca è arrivata a offrire mille dollari per andare via senza spaccare tutto.
E in Italia? Risale a pochi giorni fa una ricerca di Altroconsumo : su una platea di circa 530mila famiglie, quelle con problemi di insolvenza sono circa 110mila, mentre 420mila sono in difficoltà. Col decreto Bersani è possibile trasferire il proprio mutuo su un'altra banca più conveniente e a costo zero. Ma alcuni istituti di credito si sono rifiutati di farlo. Ecco l'elenco: Bnl, Unicredit, Deutsche Bank, Banca Sella, Bipop Carire, Banca Popolare di Bergamo, Banca Popolare di Verona e Novara, Banca Popolare di Lodi, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare di Vicenza, Banca Regionale Europea, Banco di Brescia, CariParma, Credit Agricole, Banca Nuova.

Affondo di Jean Ziegler contro i biocarburanti: «Crimine contro l'umanità»

Corriere della Sera 21.4.08
Affondo di Jean Ziegler contro i biocarburanti: «Crimine contro l'umanità»
L'inviato Onu: «La crisi del cibo è uno sterminio silenzioso»
E Ban Ki-moon: «A rischio progresso sociale e sicurezza»
di Danilo Taino

Sott'accusa i sussidi Ue: «Così gli agricoltori producono meno per evitare eccedenze e sostenere i prezzi»

BERLINO — La crisi alimentare globale sta diventando un problema politico molto serio in Europa. Ieri, il relatore speciale dell'Onu per il diritto al cibo, Jean Ziegler, ha sostenuto che gli aumenti dei prezzi di grano, mais, riso, soia stanno spingendo verso «un omicidio di massa silenzioso» nei Paesi più poveri. Pochi giorni fa, aveva detto alla radio tedesca che la produzione di biocarburante — che è un obiettivo dell'Unione Europea, ma aliena terreni alla produzione alimentare — è «un crimine contro l'umanità».
L'inviato Onu ci mette molta ideologia nel sostenere l'allarme. Ma la questione è così seria che anche la politica continentale inizia a preoccuparsene. Ieri, il ministro dell'Agricoltura tedesco, Horst Seehofer, ha detto in un'intervista che la Politica agricola comunitaria (Pac) deve essere rovesciata: negli ultimi anni — ha notato - ha spinto gli agricoltori, con il sistema dei sussidi, ad abbandonare 3,8 milioni di ettari di terreno produttivo, per evitare le eccedenze di latte, carne, vino e per sostenere i prezzi. «Abbiamo bisogno di un rinascimento agricolo — ha sostenuto — e di un aumento della produzione in Germania, nella Ue e, soprattutto, nei Paesi in via di sviluppo». Anche Ziegler aveva messo i sussidi della Pac tra i fattori responsabili dell'esplosione dei prezzi, assieme a biocarburanti, aumento dei consumi mondiali e speculazione finanziaria.
Secondo l'Onu, dal gennaio 2007, i prezzi dei prodotti alimentari di base sono aumentati del 55%. Ciò ha portato a rivolte popolari in alcuni Paesi e al blocco delle esportazioni agricole in altri. Le scorte sono a livelli minimi. Fenomeni che non si verificavano da decenni. Ieri lo stesso segretario generale dell'Onu ha lanciato un grido d'allarme: aprendo la Conferenza sul commercio e lo sviluppo ad Accra, in Ghana, Ban Ki-moon ha detto che «se l'attuale crisi non viene affrontata correttamente, potrebbe scatenare una cascata di altri crisi multiple», spiegando che questo si ripercuoterà «sulla crescita economica, il progresso sociale e la stessa sicurezza politica mondiale».
Una decina di giorni fa, l'Agenzia europea per l'Ambiente aveva raccomandato alla Commissione di Bruxelles di sospendere i suoi obiettivi di introduzione del bioetanolo, perché ciò sta già portando in molti Paesi alla distruzione delle foreste per fare spazio alle nuove produzioni. Peter Brabeck-Letmathe, il presidente della Nestlé, ha sostenuto che «assicurare enormi sussidi per la produzione di biocarburanti è moralmente inaccettabile e irresponsabile », e ha aggiunto che se non si cambia direzione «non resterà niente da mangiare».
L'allarme lanciato su un giornale austriaco ieri da Ziegler, che arriva dopo quello molto autorevole della Banca Mondiale la settimana scorsa, è accompagnato da un'analisi discutibile. L'inviato Onu sostiene che la globalizzazione sta «monopolizzando le ricchezze della terra» e che le multinazionali sarebbero responsabili di una «violenza strutturale». «Abbiamo — aggiunge — un gregge di operatori di mercato, di speculatori e di banditi finanziari che sono diventati selvaggi e hanno costruito un mondo di disuguaglianze e orrore: dobbiamo mettere una fine a tutto questo». Diversamente, la gente si ribellerà: «È possibile, proprio come lo è stata la Rivoluzione Francese». Molta ideologia, ma è un fatto che il problema sia uno dei più seri che il mondo debba affrontare oggi. Sia la Politica agricola comunitaria sia la scelta di usare bioetanolo nei carburanti sono strade che la «ricca» Ue ha deciso di seguire nel suo modo di relazionarsi al resto del mondo: per difendere i suoi agricoltori o per difendere l'ambiente. Se però ieri sembravano inadeguate perché non tenevano conto delle esigenze dei Paesi emergenti, oggi appaiono addirittura distruttive degli equilibri internazionali. Questioni non solo europee: gli Usa non sono da meno. Ma, decisamente, anche europee.

venerdì 18 aprile 2008

Il biocarburante di Lula affama l’India

Il biocarburante di Lula affama l’India

Il Riformista del 18 aprile 2008, pag. 1

di Sonia Oranges

Sembra la scoperta dell'acqua calda: il mondo, chi più chi meno e anche quello a noi assai prossimo, ha fame. E non l'ha presa bene. Persino nell'India che, insieme alla Cina, è stata l'acceleratore della crescita mondiale. E’ indiana, infatti, l'ultima rivolta del pane (o, meglio, del riso). Ancora sotto controllo e passata sottotraccia anche perché oscurata dalla vicina crisi tibetana. Eppure, nella Nuova Delhi dove 16mila uomini delle forze di sicurezza ieri erano mobilitati per il passaggio della torcia olimpica, in realtà non si parla d'altro. La piazza indiana di queste ultime settimane, più che impegnata contro la repressione in Tibet, è accesa dal caro-prezzi. Anzi, carissimo, visto che l'inflazione ha raggiunto un picco del 7,41%, nell'ultima settimana di marzo, con l'immediata conseguenza che un'ampia fetta della popolazione della più grande democrazia del mondo, semplicemente non può più comprare il cibo. Un indicatore per tutti: negli ultimi due mesi il riso è aumentato del 33%. Cosi, la gente è scesa in piazza a più riprese. Manifestazioni spontanee, per ora, su cui il principale partito d'opposizione del paese (Bharatiya Janata Party) è pronto a mettere il cappello. Il Bjp, insieme con altri partiti minori, ha portato la protesta in parlamento, nel vero senso della parola, urlando al governo di «essere totalmente inutile, non avendo fermato l’inflazione».


Il ministro dell'Economia Palaniappan Chidambaram ha promesso misure idonee a breve: «Non so ancora esattamente quando si riunirà la commissione prezzi, ma appena lo farà certamente verranno presi provvedimenti contro l'inflazione e per il contenimento dei costi». Un po' poco, in effetti, per placare una folla sempre più nervosa. Basti pensare che i dati dell’inflazione hanno registrato il record degli ultimi tre anni, gli aumenti dei generi alimentari sono nettamente maggiori della media di quelli dei prezzi al consumo. E, come ha sottolineato recentemente il premier Manmohan Singh, «un'eccessiva crescita dei prezzi alimentari rende incontrollabile l'inflazione», a maggior ragione nei paesi in via di sviluppo dove proprio i generi alimentari sono il cuore della struttura dei prezzi. Il problema è che l'lndia (come la stragrande maggioranza dei paesi asiatici) si è preoccupata molto più di aiutare servizi e industrie, che di sviluppare politiche che favoriscano l'agricoltura. E ora, come i suoi vicini, di fronte all'impennata dei prezzi dei cereali, ha potuto soltanto proibire l'esportazione dei legumi e del riso non-basmati che dà da mangiare al 65% della popolazione. Tecniche di sopravvivenza lontane anni luce dalla discussione che si consuma dall'altra parte del globo, con il presidente brasiliano Lula da Silva a sponsorizzare (populisticamente) i biocarburanti, contrapposto alle Nazioni Unite (e a parte della Ue) che in quegli stessi biocarburanti vedono la causa primigenia della crisi dei cereali. Crisi che sta mettendo a soqquadro il globo: forse anche l'acqua calda è più complicata di quanta sembra.

giovedì 17 aprile 2008

Biocarburanti, da soluzione a illusione «Troppi campi sottratti alle colture di cibo»

Biocarburanti, da soluzione a illusione «Troppi campi sottratti alle colture di cibo»

Liberazione del 17 aprile 2008, pag. 3

di Ivan Bonfanti
All'inizio fu acclamazione. Ricavare carburante non più dall'estrazione, che ha devastato e prosciugato le risorse del pianeta, ma dai campi di grano, un'energia fossile che non inquina, verde e dal nome suggestivo: biocarburante. Poi venne, quasi subito, chi alzò una mano sollevando domande cruciali. Troppo terreno sottratto all'agricoltura, troppi boschi devastati per nuove colture, «non si può fare», avvertì qualche studioso. Ma tanto fa, e l'operazione fu varata in pompa magna.
E così mentre in Gran Bretagna, già oggi, qualunque carburante venduto al dettaglio ha l'obbligo di contenere almeno il 2% di biocarburanti, in Italia è stata la Finanziaria 2007 a sanzionare, con specifiche pene pecuniarie in caso di violazione, l'obbligo per le aziende petrolifere di immettere al consumo una quantità di biocarburante pari all'1% della quantità di carburante da idrocarburi (benzina e gasolio) distribuito l'anno precedente. La quota, all'oggi, non è stata raggiunta, ma di sanzioni non se ne ha notizia, del resto siamo in Italia. Eppure il problema della terra sottratta al ciclo alimentare permane, soprattutto per quanto riguarda il bioetanolo, che si ricava da mais e canna da zucchero cioè dalla stessa filiera destinata alla alimentazione (mentre il biodiesel essenzialmente deriva da soia, colza e girasoli).
Rimane tuttavia anche la domanda. C'è oppure no un legame tra la crisi delle derrate alimentari e il lancio delle colture sui biocarburanti? Le opinioni confliggono, gli esperti si accapigliano. In Gran Bretagna, dove la quota obbligatoria è già al 2%, la critica è stata da subito feroce. La Rspb, un ente dedito alla difesa dell'ambiente che in Inghilterra è quasi un'istituzione e che non ha certo fama catastrofista, ha pubblicato uno studio che definisce la legge Rtfo (Renewable Transport Fuel Obbligation, la legge che fissa al 2% la quota "bio") «una perfetta follia». «Obblligare i produttori a inserire una quota di biofuel senza fissare degli standard per impedire che i biocarburanti siano il frutto di deforestazioni o distruzioni di habitat naturali o destinati all'alimentazione vuol dire apporre la parole fine alla struttura ambientale del pianeta», osserva Graham Wynne, capo esecutivo dell'ente ecologista. «L'impatto del biofuel è già evidente - insiste Wynne - in troppe aree del mondo le coltivazioni sono state sottratte alle foreste o alle terre dove vivono animali e vita selvaggia: la cosa peggiore è che la distruzione del mondo viene pagata dai consumatori con l'illusione che stiano inquinando meno».
Non tutti, però, condividono l'opinione di Wynne e delle migliaia che hanno inviato mail di protesta al governo Brown. Una su tutti, la commissaria Ue all'Agricoltura Mariann Fischer-Boel. Il suo portavoce, Michael Mann, replicando alle critiche di chi considera i biocarburanti responsabili dell'impennata dei prezzi dei cibi ha assicurato che «l'obiettivo dell'Unione europea di aumentare la produzione di biocarburanti al 10 per cento entro il 2020 non rischia di ridurre la produzione agricola a scopi alimentari».
Sarà, ma la versione dei burocrati Ue non convince neppure la Banca Mondiale (Wb). Marcelo Giugale, che della Wb è il direttore della sezione America Latina, spiega che l'aumento del tasso di povertà collegato al caro prezzi - raddoppiati o addirittura triplicati in certi casi negli ultimi tre anni e che rischia di far diventare ancora più poveri 100 milioni di persone - ha tra le sue cause anche l'impennata dei biocarburanti. Secondo Giugale sono cinque i fattori principali che stanno dietro al boom dei prezzi: i sussidi per la produzione di cereali destinati ai biocarburanti, che hanno spostato questi prodotti dal mercato alimentare a quello energetico; l'aumento dei costi del gasolio e dei fertilizzanti utilizzati in agricoltura; il maltempo in grandi aree produttive come l'Australia, che ha causato la peggiore siccità da 100 anni a questa parte; il forte aumento dei consumi di carne in molti paesi asiatici; il sospetto di un aumento della speculazione sui future di beni alimentari di prima necessità, come riso e grano, che ha portato i prezzi alle stelle.
Anche gli Stati Uniti, come raccontano le storie che arrivano dalla Pennsylvania, dove i i media hanno parlato di rivincita per Maria Antonietta, la regina di Francia passata alla storia per aver risposto all'obiezione che il popolo non aveva più pane esclamando «che mangino brioches». Allora era ironia, e lei finì sulla ghigliottina. Oggi è tragicamente reale, come dicono le storie dei contadini dello Stato settentrionale americano raccolti dai media Usa. «Il mangime animale è diventato carissimo, per cui con i maiali e con le mucche abbiamo improvvisato. Per qualche giorno li abbiamo riempiti di cioccolato, poi anacardi e chips alla banana, quindi un mix di uvette ricoperte di yogurt e farinacei avanzati». Sembra che le bestie abbiano gradito. Di certo, hanno raccontato i farmers della Pennsylvania, «abbiamo risparmiato un bel po' di soldi rispetto ai prezzi del solito mix di grano e fagioli». «Ho speso il 10% in meno di quanto avrei dovuto sborsare coi mangimi», ha assicurato ai reporter il più intraprendente, che alle vacche sbigottite ha servito un blob fatto di popcorn, patatine al formaggio e frutta. «No, non sembravano granché entusiaste».

Assalti al pane e prezzi alle stelle Il cibo non basta, è la crisi del Secolo

Assalti al pane e prezzi alle stelle Il cibo non basta, è la crisi del Secolo

Liberazione del 17 aprile 2008, pag. 2

di Francesca Maretta
La crisi dei mutui subprime che dagli Stati Uniti si è sentita nel Regno Unito e in Europa, a cui ha fatto seguito l'allarme per il "credit crunch", ovvero la chiusura dell'accesso al credito da parte delle banche, turbano i sonni di chi vive in occidente. Per noi questa è l'emergenza. Chi non ricorda a inizio anno il panico scatenato nel Regno Unito e sui mercati finanziari internazionali, dal pericolo di insolvenza per la banca Northern Rock? Le immagini delle code di risparmiatori che si affrettavano a ritirare i propri risparmi dalla banca finirono sulle prime pagine dei giornali e aprirono i notiziari della sera alla televisione.
Una crisi ben diversa ha portato la popolazione di Haiti la scorsa settimana ad assediare il palazzo presidenziale a Port-au-Prince: durante le proteste contro l'aumento dei prezzi dei generi alimentari sono morte sette persone. Nelle Filippine si sono viste fiumane umane mettersi in fila per accedere alle scorte governative di grano.
Manifestazioni analoghe, in cui ci sono scappati morti, hanno interessato Egitto, Marocco, Mauritania, Costa d'Avorio, Cameroon, Senegal e Burkina Faso. Anche zone del territorio di paesi come Messico, Argentina, Thailandia e Pakinstan sono scosse dalla crisi alimentare.
Questo tipo di recessione che interessa i bisogni basilari per la sopravvivenza, non è relazionabile in maniera diretta alla mancanza o alla riduzione della produzione e della crescita economica. Lo scorso anno la produzione mondiale di grano ha raggiunto i due miliardi di tonnellate, registrando un incremento del 5% dei raccolti rispetto all'anno precedente. In un editoriale apparso su The Independent, lo scrittore ambientalista George Monbiot fa una riflessione sulla questione e pone un interrogativo: «La crisi è cominciata prima ancora che le forniture di cibo siano colpite dagli effetti del cambiamento climatico. Se la fame si fa sentire adesso, cosa accadrà quando i raccolti diminuiranno?» L'anteprima delle conseguenze l'abbiamo vista nelle già citate rivolte per cibo che ad esempio in Cameroon hanno provocato quaranta morti. Se la produzione agricola, in teoria, abbonda, la bolletta alimentare è paradossalmente costata lo scorso anno il 57% in più rispetto ai dodici mesi precedenti.
Di questo passo, il prezzo del riso è aumentato del 40% dall'inizio dell'anno. Quello del grano è triplicato in quattro anni. Nonostante la previsione della Fao di un aumento dell'1,8%, ovvero di 12 milioni di tonnellate, della produzione mondiale di riso, in condizioni climatiche normali, la domanda globale continua a superare l'offerta, con le scontate conseguenze a livello del prezzo. Per porre un freno alla crisi dei gioni scorsi ad Haiti, dove oltre ai morti è stato destituito il Primo Ministro Jacques Eduard Alexis, il presidente Preval ha annunciato un calo del 15% del prezzo del riso, portando il costo di un sacco del cereale da 51 a 43 dollari, grazie all'intervento dei paesi donatori. La consolidata formula di solidarietà a rendere.
Una delle ragioni per cui degli oltre due miliardi di tonnellate di grano a disposizione, solo la metà, secondo dati della Fao, servirà a nutrire esseri umani, è la produzione di biocarburanti. Da questa settimana i carburanti per i trasporti venduti nel Regno Unito devono contenere per legge una percentuale di "biofuel" del 2,5%. Questo renderà 33 milioni di automobili meno inquinanti ed il governo britannico potrà dimostrare di essersi impegnato per ridurre le emissioni di Co2. La conseguenza diretta di questa alternativa destinazione delle colture, è che ve ne sono di meno a disposizione per mangiare.
Questo ha spinto il relatore dell'Onu per il diritto all'alimentazione Jean Ziegler ad invocare una moratoria di cinque anni nella produzione di biocarburanti. Per Ziegler il fatto che quest'anno 100 milioni di tonnellate di grano serviranno a far circolare veicoli invece che garantire la sopravvivenza di esseri umani è «un crimine contro l'umanità». Di conseguenza, il ministro dei Trasporti britannico ha dichiarato che le politiche del governo possono essere aggiustare di fronte ad altri tipi di esigenze. Per ora, usando per legge dei biocarburanti, siamo complici di quello che accade. Va fatta una distinzione. Non è l'uso di vegetali per produrre carburanti ecologici tout court ad essere messo sotto accusa, ma l'uso di vegetali sottratti al consumo alimentare. Se fossero usati gli scarti vegetali, anziché le colture buone, la faccenda sarebbe diversa. Sempre Ziegler ha suggerito ai governi di tracciare una linea di confine per la produzione di biocarburanti: «vegetali sì, alimenti no».
La risposta all'attuale crisi alimentare va ricercata in un'altra causa, di cui si parla molto meno, ma che ha effetti ancora più devastanti del "biofuel":"noi" ricchi, mangiamo troppa carne (e tanta ne buttiamo nella spazzatura).
Se per fare il pieno alle automobili ci vogliono 100 tonnellate di grano che sarebbe potuto diventare cibo, per dar da mangiare agli animali che troveremo al supermercato onfezionati con quintali di packaging sotto forma di filetti e costolette, occorrono 760 tonnellate dello stesso cereale. Ergo, la serata alla "Steak House" affama i poveri del mondo più della sosta al distributore di ecobenzina. Per produrre un chilo di carne bovina servono otto chili di cereali e circa 3mila litri di acqua. Un po' meno iniquo mangiare pollo: per produrne un chilo da mangiare occorrono 2 chili di mangime, ma sempre 300 litri di acqua.
Più i paesi diventano ricchi, più aumenta il consumo di carne. Attualmente si registra un vero e proprio boom della bistecca in Asia ed America Latina. Al contrario in paesi come il Regno Unito, che consumavano in abbondanza cibo pregiato già in passato, il consumo di carne è più o meno uguale a quello registrato alla fine degli anni '70. Un cittadino britannico mangia in media un chilo di carne alla settimana. Un americano, invece, quasi il doppio. A livello di consumo globale si prevede per il 2050 il raddoppio dell'attuale consumo di carne. Naturalmente nelle proporzioni attuali: a chi tanto e a chi niente. Tutto questo vuol dire che tutto l'occidente ed i paesi emergenti devono optare per la medesima scelta dell'0,4% della popolazione vegana britannica o del 3% che nel Regnio Unito è vegetariano?
Se ci si volesse davvero immolare per la causa di chi fa la fame la risposta sarebbe «si». Un più realistico giusto mezzo si può trovare limitando, almeno un po', la nostra sovrabbondante alimentazione.
Per spiegarlo anche ai cinesi, che diventando sempre più benestanti hanno triplicato il consumo di carne procapite dagli anni '80, è disponibile uno studio pubblicato a novembre dal World Cancer Research Fund, che ci informa sulla relazione esistente tra il consumo eccessivo di carne, malattie cardiache e tumori. A chi non sa che pesci pigliare tra la fame nel mondo e l'uso del biocaburante in nome della salvaguardia del pianeta, è fornito un esempio utile a suggerire un minor consumo di carne: le 10 milioni di mucche del Regno Unito producono una quantità giornaliera di metano che supera l'equivalente dell'inquinamento un fuoristrada che va a sessanta all'ora.

L'odissea dei kurdi in Turchia: perseguitati e impoveriti, trattati da potenziali terroristi

L'odissea dei kurdi in Turchia: perseguitati e impoveriti, trattati da potenziali terroristi

di Stefano Galieni

Liberazione del 04/04/2008

Tre giovani sono stati uccisi, tre terroristi in meno per un governo ed un esercito che considerano tutti i kurdi potenziali terroristi. E pensare che era Newroz, la loro festa nazionale, un momento per riaffermare la propria cultura, la propria lingua, il proprio sentirsi popolo. Ma quest'anno è stato un Newroz di sangue. Perché l'esercito turco, presente in maniera ancora più massiccia in quelle province, dopo gli attacchi al confinante Kurdistan iracheno, stavolta ha tentato di impedire le manifestazioni, picchiato e sparato. Succede, è successo anche a Sirnak, una cittadina di 70 mila abitanti, e il suo sindaco Ahmet Ertak ieri era a Roma insieme a Bengi Yildiz, deputato eletto nel collegio di Batman, nel Kurdistan turco. Erano in Italia per incontrare i rappresentanti dei partiti che negli anni hanno dimostrato di avere a cuore i bisogni del popolo kurdo. Come Rifondazione comunista: «Mi auguro che la Sinistra Arcobaleno abbia successo alle elezioni. Abbiamo bisogno dei compagni che ci sono rimasti vicini» ha detto infatti Yildiz. L'incontro di ieri è stato organizzato con Fabio Amato, responsabile esteri del Prc, Giorgio Mele, parlamentare di Sd e Gino Barsella, responsabile pace del Pdci. Tutti insieme ad ascoltare i sostenitori delle associazioni che da tempo seguono tali vicende come Azad, e i ragazzi che vivono nel centro Ararat, della comunità kurda a Roma. Bengi Yildiz parla a lungo dell'instabilità della situazione turca: «Si è arrivati al punto di chiedere la chiusura del partito di governo, l'H.P. di Erdogan, per attentato alla laicità. La realtà è che faticano sempre più a convivere - sotto una costituzione frutto di colpi di stato- una componente governativa, i kurdi e gli islamici. L'esercito domina ancora. Unione Europea e Stati Uniti sembrano non comprendere il rischio che le nostre province diventino teatro di un conflitto di proporzioni. Le operazioni militari effettuate in Iraq hanno aggravato la situazione e la tensione è tornata ai livelli degli anni 90». Sono 22 i parlamentari kurdi eletti a luglio come indipendenti, anche se di fatto si riconoscono nello stesso partito, il Partito Democratico della Società, come prima cosa è stato chiesto loro di condannare il PKK. Al rifiuto sono partiti processi illegali, molti di loro hanno subito percosse durante le manifestazioni. Non è migliore la situazione che racconta Ahmet Ertak: «Sono uno dei 54 sindaci kurdi, ognuno di noi ha già sulle spalle una montagna di procedimenti di accusa, io circa 20. Qualsiasi iniziativa per migliorare le condizioni di vita dei nostri concittadini è stroncata, alcuni consigli comunali sono stati sciolti per le ragioni più assurde. Il tutto in città sempre più povere, mancano le infrastrutture e le industrie, la disoccupazione è altissima e le persone se ne vanno a cercare fortuna nelle metropoli turche o europee. La centralizzazione delle risorse fa si che nelle nostre province non si investa, non arrivino interventi sanitari, scolastici, non si creino opportunità di sviluppo. So che esistono fondi inviati dall'Ue ma noi non abbiamo visto nulla. Quando si tratta di destinare risorse in base al numero degli abitanti per noi viene considerato un censimento di 15 anni fa, in 15 anni le nostre città hanno una popolazione che è cresciuta di sei volte. E pensare che stiamo tentando, nonostante tutto, di avviare processi di forte partecipazione popolare alle scelte delle amministrazioni». I due rappresentanti sono convinti che sia in atto una vera e propria strategia per costringerli ad assumere posizioni sempre più separatiste e nazionaliste, per poter poi reprimere con il plauso internazionale: «Ci vorrebbero isolati invece cerchiamo anche in parlamento di occuparci in parlamento dei problemi di tutto il popolo turco - riprende Yildiz - noi vogliamo convivenza nel rispetto delle identità culturali e religiose, non cerchiamo un isolamento che non ha senso nel ventunesimo secolo. Ma questo significa democrazia reale, un concetto poco gradito a chi pensa di utilizzare le armi e la paura, come collante per nascondere una crisi profonda. Noi vogliamo che nessun partito, neanche l'HP sia messo fuorilegge eppure, anche se ci sentono dire queste cose continuano a considerarci tutti nemici». Sperano nell'ingresso nell'Unione Europea come una opportunità affinché la Turchia adegui i propri standard in merito al rispetto dei diritti umani, ma ricordano come si parli di uno stato dominato ancora da una "Gladio" (le forze per la guerra speciale) che è al di sopra del governo e in cui in venti anni sono stati chiusi 24 partiti e distrutti circa 4mila villaggi. Una proposta, che arriva dall'associazione Azad, viene presa in seria considerazione: se al di là degli interventi occasionali si riuscisse a stabilire una relazione stabile fra gruppi parlamentari italiani e kurdi, un "gruppo di amicizia", forse l'isolamento mediatico sarebbe minore. Fabio Amato raccoglie la proposta e con lui gli altri politici presenti, ricorda a ragione come per alcune crisi sia scarsa l'attenzione internazionale e quanto sia necessario invece lavorare in Europa per costringere la Turchia a rispettare i diritti del popolo kurdo.

Il Pkk kurdo non è «terrorista» dice la Corte di giustizia europea

Il Pkk kurdo non è «terrorista» dice la Corte di giustizia europea

di Orsola Casagrande

Il Manifesto del 04/04/2008

Una decisione «storica». Il partito di Ocalan era stato inserito dalla Ue fra i gruppi terroristi nel 2002. Ma la prima reazione dell'Unione è: «Sentenza irrilevante»

Il Pkk non va inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dall'Unione europea nel 2002. Il tribunale di prima istanza della corte di giustizia europea del Lussemburgo ha pronunciato ieri un verdetto per molti versi storico.
Il consiglio dei ministri della Ue, all'indomani dell'attentato alle Torri gemelle l'11 settembre 2001, aveva stilato una lista di organizzazioni ritenute terroristiche disponendo anche il congelamento dei loro beni e conti correnti. Tra queste c'era anche il Partito dei lavoratori del Kurdistan fondato da Abdullah Ocalan. Era stato il fratello di Ocalan, Osman, a presentare un ricorso contro l'inclusione del Pkk nella lista. Ma il 15 febbraio 2005 il ricorso era stato respinto con la motivazione che Osman Ocalan non aveva l'autorità di rappresentare il Pkk. Il fratello del leader incarcerato nell'isola di Imrali dal 1999 non aveva accettato la sconfitta ed era nuovamente ricorso in appello. Quello di ieri è il verdetto in risposta a questo secondo appello. Ed è un verdetto destinato a far discutere. Anche perché il governo turco ha lavorato anni per far inserire nella lista dei gruppi terroristi il Pkk.
La stessa decisione del tribunale ha riguardato anche il Kongra-Gel, per così dire il braccio «politico» dell'organizzazione kurda. Il presidente del Kongra-Gel, Zuber Aydar, ha dichiarato ieri che «la decisione della corte del Lussemburgo è un passo avanti nel cammino verso la libertà. Si tratta di un risultato molto importante». Aydar ha anche ricordato che il Pkk rimane nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dagli Stati uniti. Immediata anche la risposta dell'Unione europea. Secondo un funzionaro della Ue, citato anonimamente dalla Reuters, «la decisione della corte di prima istanza è irrilevante». Commentando il verdetto del secondo tribunale più importante dell'Unione europea, il funzionario ha anche sottolineato che una nuova versione della lista delle organizzazioni terroristiche è stata stilata dalla Ue nel dicembre 2007. Anche in quella lista è stato inserito il Pkk. «Per il consiglio dei governi europei - ha detto senza mezzi termini il funzionario - il Partito dei lavoratori del Kurdistan continua a rimanere nella lista».
Nel motivare la sua decisione la corte del Lussemburgo ha anche sottolineato che quando, nel 2002, l'Unione europea aveva inserito il Pkk nella lista delle organizzazioni terroristiche, non aveva sufficientemente motivato la sua scelta. In passato la corte aveva ritenuto non inseribile nella lista anche il gruppo di opposizione iraniano in esilio, i Mujaheddin del popolo. La corte è formata da un giudice e sei avvocati. I componenti vengono eletti ogni sei anni.
Intanto in Turchia continua il dibattito sulla richiesta di chiusura del partito al governo, l'Akp di Recep Tayyip Erdogan e Abdullah Gul per attività anti- laiche. La corte costituzionale ha ritenuto infatti ammissibile la richiesta presentata dal procuratore capo della corte suprema. In parlamento il leader del partito kurdo Dtp, Ahmet Turk ha pronunciato un duro discorso sostenendo che «la richiesta di chiusura dell'Akp è la conseguenza di una guerra di potere interna allo stato». Per Turk «ci sono tre stati in Turchia. Il primo vuole che la Turchia cambi e si muova sempre più verso l'Unione europea. Il secondo mira a proteggere lo status quo e il terzo sta lavorando perché a prevalere sia il cosiddetto 'stato profondo'".
Come l'Akp anche il Dtp è sottoposto a un procedimento di chiusura da parte della magistratura. «E' evidente - ha detto Turk - che ci sono ambienti che temono una maggior democrazia e libertà». E l'Akp, secondo Turk, «non ha lottato contro questi ambienti. Se avessero combattuto contro queste forze e per la democrazia, adesso la democrazia turca non sarebbe così in pericolo. La soluzione alla questione kurda - ha aggiunto Turk, lui stesso sotto processo come gli altri venti deputati kurdi eletti nel luglio scorso - rappresenterebbe il passo più importante verso la democratizzazione dello stato turco. Continuare a chiudere gli occhi sul problema kurdo significa arrendersi allo status quo o accettare di esserne vittima».

Gli speculatori si buttano sul business dell'agricoltura. E mezzo mondo rischia la fame

Gli speculatori si buttano sul business dell'agricoltura. E mezzo mondo rischia la fame

di Sabina Morandi

Liberazione del 05/04/2008

Dopo avere spolpato il mercato immobiliare americano la finanza si butta sulle materie prime alimentari, e sono guai. L'aumento globale della popolazione, la crisi ambientale e la follia dei biocarburanti sono ottime notizie per la finanza speculativa che approfitta dell'occasione per spostare le proprie fiches su altri tavoli. Come ha scritto Roberto Capezzoli sul Sole 24 ore «Il flusso di denaro che proviene dagli hedge fund è tale da sommergere e alterare, per periodi più o meno lunghi, le tendenze tradizionalmente legate al clima, alle dimensioni dei raccolti e alla propensione al consumo». Il risultato, oltre ai soliti enormi profitti dei soliti noti, è l'impennata del prezzo dei prodotti alimentari di largo consumo come frumento, soia e soprattutto il riso che dà da mangiare all'Asia, dove risiede metà della popolazione mondiale. Chi criticava da anni il modello incentrato sul mercato globale è servito: i paesi più liberisti, quelli che hanno destinato le proprie terre alla produzione di colture destinate all'export - e hanno firmato accordi commerciali vincolanti in tal senso - sono anche i più penalizzati. Paradossalmente chi è rimasto indietro nel magnifico e trionfale cammino verso l'integrazione globale dei mercati è favorito: l'agricoltura familiare basata sulle produzioni tradizionali destinate all'auto-sussistenza dovrà combattere contro le calamità di sempre, ma almeno darà qualcosa da mettere nel piatto.
A leggere le notizie delle ultime settimane c'è da aver paura. In Messico, Argentina, Egitto, Marocco, Niger, Mauritania, Senegal e Sierra Leone, ci sono già state le prime rivolte del pane, mentre manifestazioni contro i rincari si sono tenute nelle Filippine, in India, in Indonesia e perfino in alcuni ricchi paesi del Golfo - come Arabia Saudita e Kuwait. Spaventati, i rispettivi governi stanno cercando di correre ai ripari: alcuni, come i paesi produttori di petrolio che sono importatori netti di cereali, hanno ulteriormente tagliato i dazi. Altri, come la Cambogia, l'India e le Filippine, ma perfino un grande produttore come il Vietnam, stanno restringendo le esportazioni per rimpinguare le scorte. In Africa, dove i governi non sono in grado di determinare la propria politica alimentare - che viene decisa a Bruxelles o a Washington - e dove la terra migliore viene destinata a coltivare i prodotti per le nostre tavole, la bolletta alimentare è salita del 50 %. In un continente cronicamente afflitto dalla fame e dalla malnutrizione ha l'effetto di una bomba atomica, meno spettacolare ma altrettanto devastante.
I fan della globalizzazione sono rimasti spiazzati e preferiscono non commentare questa valanga di misure protezionistiche che, assicurano i governi, sono temporanee. L'importante è tranquillizzare i guardiani del dogma che siedono al Fondo Monetario: nessuno vuole mettere in dubbio la bontà di un modello basato sulle monoculture industriali e sull'accesso al mercato internazionale, quello stesso mercato che per vent'anni ha spinto al ribasso il prezzo dei generi alimentari rovinando i produttori, e che ora lo spinge al rialzo rovinando anche i consumatori poveri. Ai sindacati contadini che da anni presidiano i grandi vertici economici chiedendo di salvare, insieme al loro posto di lavoro, anche la sovranità alimentare, i superburocrati del Wto hanno sempre opposto un netto rifiuto. Il vero sviluppo - ci è stato ripetuto in tutte le lingue - è garantito solo dalle produzioni industriali destinate all'esportazione e senza l'integrazione con il mercato del Nord del mondo non c'è speranza. L'autosufficienza alimentare, così come la protezione delle industrie nazionali o delle piccole imprese contro lo strapotere delle multinazionali, è stata liquidata come un'eresia. Le colture tradizionali sono state sostituite da quelle che tirano sul mercato globale: semi omologati, certificati e brevettati fatti apposta per un'agricoltura drogata di chimica, il più possibile meccanizzata e connessa con la lunga - e inquinante - filiera che porta dritto agli scaffali dei nostri supermercati. Nel frattempo i contadini, diventati salariati delle grandi piantagioni industriali, non coltivano più il cibo che consumano e devono, come noi, acquistarlo. E quando i prezzi salgono sono dolori.
Non ci sarebbe momento più propizio per riformare questo modello. Invece veniamo rassicurati che le misure protezionistiche di questi giorni non dureranno esattamente come - ci viene detto - sono misure temporanee i "prestiti ponte" concessi alle banche rovinate dal gioco dei subprime. Imperturbabili, i giornalisti televisivi rassicurano i cittadini, le cui tasse vengono utilizzate per salvare gli speculatori invece che per pagare scuole decenti e medicine per tutti, che le banche torneranno private appena ricominceranno a fare profitti e che la libera circolazione dei prodotti alimentari riprenderà dopo che gli speculatori saranno sciamati altrove. Nel frattempo, però, si continuano a firmare accordi commerciali capestro che ripetono in tutte le lingue il mantra del mercato globale.

Prezzi del grano alle stelle torna il fantasma carestia

Prezzi del grano alle stelle torna il fantasma carestia

di Roberto Tesi

Il Manifesto del 11/04/2008

Dopo riso e grano, anche le quotazioni del mais toccano un record storico. Le scorte dei prodotti alimentari sono ai minimi da 25 anni. Milioni di persone non hanno da mangiare

Altro giorno, altro record. Ieri è stato il mais ha toccare un nuovo massimo storico: al Chicago board of trade - la principale borsa merci del mondo - la quotazione del granturco ha toccato i 6,05 dollari al bushel, circa 15 centesimi di euro al chilo. Dall'inizio dell'anno i prezzi sono già aumentati del 30%. Ma non è solo il mais a toccare prezzi mai raggiunti in passato: nelle scorse settimane anche grano, soia e riso (le cui quotazioni sono salite del 40% dall'inizio dell'anno) avevano toccato quotazioni record dopo una crescita costante iniziata oltre un anno fa. L'aumento dei prezzi è anche conseguenza di una diminuzione delle scorte alimentari precipitate ai minimi degli ultimi 25 anni.
L'unica cosa certa è che degli aumenti dei prezzi i beneficiari non sono i produttori, ma è altrettanto certo che a pagare caro sono i consumatori: quelli dei paesi industrializzati e soprattutto quelli dei paesi in via di sviluppo e soprattutto quelli dei paesi nei quali lo sviluppo non è mai iniziato. E più i paesi sono poveri, maggiore è il danno che provocano gli aumenti dei prezzi. E questo perché - perfino gli economisti lo hanno capito da tento tempo - la spesa per l'alimentazione, in rapporto alla spesa totale degli individui, decresce al crescere del reddito. Questo significa che se in Italia si spende in media il 17% per mangiare, nei paesi più poveri la percentuale assorbe quasi tutto il reddito disponibile e in certi paesi (soprattutto dell'Africa) l'aumento si traduce in impossibilità di mangiare. Mentre in Italia ci lamentiamo per aumenti di pane e pasta dell'orine del 15-20 per cento, in altri paesi gli aumenti sono decisamente maggiori e a macchia d'olio la protesta assume la forma di «moti di piazza», purtroppo con contorno di morti. Ma perché questa improvvisa impennata dei prezzi?
Non c'è una sola causa, ma una concomitanza di elementi che stano influenzando i prezzi gettando nella disperazione e nella fame altre decine di milioni di persone. Partiamo dalla causa più immediata: il prezzo del petrolio. L'impennata delle quotazioni dell'oro nero sta spingendo al rialzo i costi di produzione. Un paio di giorni fa la Cia, La Confederazione italiani degli agricoltori, ha diffuso una tabella con i rincari intervenuti tra il febbraio di quest'anno e quello del 2007: il dato più preoccupante è che negli ultimi 12 mesi i concimi sono aumentati del 30,1% e i mangimi del 22,4%. Il costo dei concimi è influenzato dalla quotazione del petrolio, mentre il costo dei mangimi ha origine dagli aumenti dei prodotti agricoli destinati all'alimentazione.
Il boom del prezzo del petrolio ha spinto molti paesi a intensificare l'utilizzo dei biocarburanti e dei motori ibridi con largo uso di alcool estratto dalla canna da zucchero in Brasile. Negli Usa , invece, al posto o in concorso con la benzina, c'è la rincorsa al bioetanolo ricavato dal mais. Un assurdo, reso possibile unicamente dai forti sussidi federali e statali che hanno avuto come unico effetto quello di mantenere abbastanza stabile il prezzo del benzina negli Usa.Da notare che non si tratta quasi mai di produzioni agricole accedenti, ma di enormi raccolti dedicati alla produzione di specifici prodotti (mai o Canna da zucchero) quasi sempre coltivati sottraendo terre agricole a altri prodotti. Anche l'Europa si era appassionata ai biocarburanti. Poi, per fortuna, il 4 aprile è arrivata una buona notizia: il ministro dell'ambiente Sigmar Gabriel ha annunciato la cancellazione del piano sui biocarburanti che prevedeva dal 2009 l'uso generalizzato di benzina con il 10% di bioetanolo. Ma altrove (in Amazzonia) si disbosca per il pascolo e per la soia e le conseguenze (ambientali) le vedremo nei prossimi anni.
Ma la colpa della scarsa offerta non è solo del petrolio: c'è la modifica dei consumi alimentari in Cina con la crescita degli allevamenti che necessitano di mangimi; c'è una gravissima siccità in Australia; c'è la riduzione delle terre destinate all'agricoltura per l'avanzata della industria. Senza contare la modifica delle colture derivante da una modifica del modello di produzione che ha privilegiato l'ortofrutta a danno delle coltivazioni di cereali. Ne parleremo i prossimi giorni.

Il deficit Usa ricomincia a salire

Il deficit Usa ricomincia a salire

su Il Manifesto del 11/04/2008

L'euro è sempre più rampante: ieri il dollaro è sceso a un nuovo minimo storico a 159,13, prossimo cioè alla soglia di 1,6 che solo un paio di mesi fa sembrava dificilmente raggiungibile. Ma la svalutazione della moneta verde (che ieri è scesa sotto quota 7 nei confronti dello yuan cinese) non sembra portare grande giovamento alla bilancia commerciale: in febbraio il deficit è risalito a 62,3 miliardi di dollari, contro i 59 miliardi di gennaio e contro una attesa di circa 57 miliardi, secondo le previsioni degli analisti. Un certo ottimismo, invece, l'hanno dato i dati settimanali sulle richieste iniziali di sussidi di disoccupazione che, dopo il forte aumento della settimana precedente, hanno registrato una flessione.
Secondo il dato del dipartimento del Commercio nel mese le importazioni sono cresciute del 3,1% a 213,7 miliardi di dollari nonostante la debolezza del dollaro a conferma di una domanda che rimane abbastanza vivace, nonostante la crescita dei prezzi e la caduta dei redditi. Le esportazioni, invece, sono aumentate solamente del 2% a 151,4 miliardi. Questo significa che la svalutazione del dollaro non è ancora sufficiente a rilanciare la competitività delle merci Usa. Unica eccezione nell'aumento delle importazioni è la discesa dell'import di petrolio sceso a 37,7 miliardi dopo undici mesi consecutivi di incremento. Il deficit della bilancia commerciale con la Cina è risultato in flessione per il secondo mese consecutivo: - 9,6% a 18,4 miliardi, al livello più basso dal marzo 2007.
A proposito di petrolio, una discesa delle quotazioni o una secca frenata dei consumi interni potrebbero far migliorare il saldo della bilancia commerciale. Mentre gli ultimi dati indicano che gli Usa bruciano meno petrolio a causa della recessione, per quanto riguarda la discesa dei prezzi non sembrano esserci molte speranze. Anche perché l'Opec non intende aumentare la produzione. L'ultimo a dirlo è stato ieri il ministro dell'energia dell'Arabia Saudita che ha giudicato il livello produttivo attuale più che sufficiente.

La seconda guerra afghano-irachena: 5mila suicidi all'anno tra i marines

La seconda guerra afghano-irachena: 5mila suicidi all'anno tra i marines

di Lorenzo Carbone

Liberazione del 12/04/2008

Un giorno di guerra in più in Iraq è un secondo in meno sugli schermi delle televisioni italiane. Guardando i telegiornali pare che ci sia un appuntamento fisso a settimana per gli attentati con più di quaranta morti. Se i morti sono meno di quaranta, se i terroristi hanno usato meno di tre autobombe per volta, se la strage è "minore"allora non conta, non fa notizia. L'Iraq sfuma dagli schermi. Ma non è così: nel Golfo c'è ancora la guerra che provoca 53 morti al giorno.
E poi c'è un'altra guerra, una guerra oscurata dai media, una guerra di solitudine, una guerra che combattono al buio e in silenzio tutti i soldati americani reduci dall'Iraq. Mentre la guerra in Iraq è ormai più un'eco dilatato e attutito che una notizia vera e propria, i drammi psicologici dei sopravvissuti che tornano dalle famiglie sono cancellati. Non esistono.
A novembre 2007 è uscita una ricerca del network americano Cbs apparsa anche sul Times Online . Riguarda i suicidi dei militari tornati dall'Iraq e dall'Afghanistan. La Cbs ha stimato, a seguito di una ricerca durata 5 mesi e condotta sulle singole famiglie vista la reticenza delle vie ufficiali, che il numero di morti suicidi nel solo anno 2005 è 6256. I caduti americani sul campo dall'inizio della guerra irachena sono 4mila. I morti suicidi tra i soldati reduci da Iraq e Afghanistan sono 6256 nel 2005. Un dato che confonde. Un dato che d'impatto può far pensare ad un errore grossolano compiuto dall'autorevole Cbs , ma il numero 6256 risulta più realistico rapportato ad altri numeri.
L'Istat conta in Italia 4mila suicidi all'anno. L'Unione Europea ha denunciato 58mila suicidi nel 2005 in Europa. Alla luce di questi dati la ricerca della Cbs si mostra più fondata. «Tornato a casa i suoi occhi erano già morti, non avevano più luce» a parlare è la mamma di Tim Bowman, un soldato di 23 anni che si è sparato otto mesi dopo il ritorno, nel giorno del Ringraziamento. La guerra dei numeri è sempre la solita commedia seccante per sostenere il proprio pensiero, ma qui risulta indispensabile.
Il tasso di suicidi in America è già elevato, 9-10 individui per 100mila abitanti scelgono la morte volontaria. Tra i reduci di guerra il numero raddoppia a 18,9 per 100mila abitanti, e cresce ancora fra i reduci di giovane età tra i 20 e i 24 anni, toccando i 22,9 su 100mila campioni. 6256 suicidi nel 2005 significa 120 morti a settimana, 17 al giorno, un suicida ogni 75 minuti. Il 60% di questi uomini suicidi sono usciti poco fa dal liceo, cominciano adesso ad assaporare il mondo, hanno tra i 19 e i 24 anni, e decidono di togliersi la vita. Come successe per la censura che il Pentagono impose sulla distribuzione delle immagini delle bare americane che rimpatriavano dall'Iraq, censura svelata nel 2004 con scandalo degli americani, così i dati Cbs passano sotto silenzio per evitare "l'effetto-Vietnam", ossia il crescente sdegno della popolazione per la guerra.
Poi ci sono i reduci che scelgono di vivere. Dall'inizio della guerra in Afghanistan e Iraq sono stati impiegati circa di 1milione e 600mila uomini. Secondo il "National Center for Post Traumatic Stress Disorder", l'organismo che si occupa di soggetti che hanno vissuto un trauma violento, l'insorgere della patologia chiamata Post Traumatic Stress Disorder (PTSD) «è normale in tutti coloro che sono stati impiegati in zone di guerra». La patologia PTSD prevede l'insorgere di diversi sintomi psicologici e fisici per quelli che hanno subito un trauma particolarmente violento. Uno stupro, un rapimento o nel 60% dei casi complessivi un vissuto di guerra. A tre mesi dall'evento scatenante insorgono i primi sintomi. Spesso passano anni di relativa serenità prima che si verifichi la crisi. «Ho iniziato ad avere dei flashback. Come un tuffo in acqua, all'improvviso rivivevo l'evento. Era terribile, non mi trovavo più dov'ero, si era creata una bolla galleggiante in cui vivevo ininterrottamente quei momenti. Ogni volta avevo paura di morire di nuovo». Chi parla è un ufficiale tornato dall'Iraq che accusa uno dei disturbi principali associato al PTSD: rivivere i traumi come se stessero accadendo di nuovo. Attraverso immagini, suoni, odori e sentimenti attivati da avvenimenti quotidiani quali lo sbattere di una porta o un clacson nel traffico, il soggetto perde i contatti con la realtà e rivive davvero i momenti drammatici. Il sonno è, attraverso i sogni, il modo più usuale di rivivere gli eventi vissuti. Allora molti soggetti colpiti da PTSD soffrono di insonnia cronica, di eccitazione, di iper reattività, di condizione di vigilanza costante, hanno il terrore di addormentarsi e vivere nuovamente le loro tragedie. La condizione di insensibilità è un sintomo proprio del PTSD.
Migliaia sono le testimonianze delle mogli e degli amici di reduci che tornati dalla guerra perdono la capacità di emozionarsi. L'insensibilità si manifesta sul piano affettivo e sentimentale, e sul piano sessuale. Lentamente irretisce tutti i settori della vita: nel campo professionale chi ne è colpito tende ad allontanarsi dalla sfera lavorativa fino al licenziamento. Nella sfera sociale alla stessa maniera si tende a ridurre le relazioni di amicizia fino alla solitudine. L'incapacità di emozionarsi si trasforma in uno schermo attraverso cui le sensazioni giungono al soggetto ovattate e smorzate. Questa chiusura emotiva è spesso determinata dalla paura di rivivere gli eventi traumatici attraverso stimoli quotidiani, per ciò il soggetto erige un muro che frena tutte le emozioni senza distinzione.
«La capacità di non percepire il calore della gente», spiega un ufficiale parlando dei suoi sintomi. Irascibilità improvvisa e ingiustificata, anche contro persone amate. I casi di violenza domestica tra i veterani sono il doppio rispetto al resto della popolazione. «Mi sento continuamente in colpa per essere rimasto in vita», afferma un caporale che è tornato da Kabul. Queste patologie assieme a tante altre proprie di gravi forme di depressione, affrontano i soggetti affetti da PTSD. «I traumi con cui i reduci vivono aumenta chiaramente le possibilità che essi facciano uso di droghe, di alcool e di sostanze che stordiscono la percezione. Sono frequenti i divorzi a pochi mesi dal ritorno in patria» spiega il "National Center for PTSD". Un'indagine recente condotta sugli homeless (senzatetto) arriva ad una conclusione significativa: uno su quattro è reduce di guerra. Secondo la "National Alliance to End Homelessness", la federazione che si occupa di chi non ha casa, nel 2005 sono stati ospitati 194mila veterani nei dormitori, tutti soldati appena tornati dal fronte che prima di partire possedevano una famiglia e un appartamento.
Trascorsero dieci anni prima che i soldati rimpatriati dal Vietnam "rovinassero" le loro vite in alcool, droghe e divorzi, e si affacciassero nelle mense e nei dormitori. Oggi il processo si è velocizzato. Pochi mesi dopo aver dismesso la mimetica, soprattutto giovani ventenni diventano vagabondi. E lo Stato cosa fa?
Pochi giorni fa Dana Priest e Anne Hull del Washington Post hanno ricevuto il Pulitzer 2008 per l'inchiesta sociale condotta sul "Walter Reed Hospital" di Washington, denunciando uno stato di sporcizia e trascuratezza, e un grado di inefficienza e incapacità assolute. Il "Walter Reed" è il principale centro di cura psichica e fisica dei reduci di Iraq e Afghanistan. Nell'anno corrente il Dipartimento dei Veterani prevede che i suicidi saranno 5mila. La Seconda Guerra Irachena miete vittime da anni. Ma è un conflitto senza proiettili luminosi e bombe dal cielo, senza bombardieri e kalashnikov, senza palazzi che crollano e senza morti spettacolari, senza niente da vedere. E quindi senza televisione. E' la guerra di dolore sordo che deve combattere ogni soldato che torna a casa vivo.

La Casa Bianca? «Un consiglio delle torture»

La Casa Bianca? «Un consiglio delle torture»

di Tiziana Barrucci

Liberazione del 12/04/2008

Abc denuncia Rice, Cheney, Rumsfeld, Powell, Ashcroft e Tenet

La cupola dell'organizzazione anti terrorista e soprattutto di quella che decideva le torture da infliggere si incontrava quasi alla luce del sole: nelle stanze della Casa Bianca di Washington. Che soldati e agenti statunitensi abbiano torturato in Afghanistan come in Iraq presunti terroristi, è cosa ormai nota e documentata da tempo. Ciò che ancora non sapevamo infatti è che i sei "grandi" della Casa Bianca si riunivano periodicamente nella "White House Situation Room" per impartire direttive in tal senso.
Era la primavera del 2002 quando cominciavano i primi arresti di sospetti militanti o affilliati ad al Qaeda (alcuni in seguito risultati innocenti), e alla Casa Bianca la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice, assieme al vice presidente Dick Cheney, al segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, al segretario di Stato Colin Powell, al ministro della giustizia John Ashcroft (l'ideatore del Patriot Act) e al capo della Cia George Tenet organizzavano riunioni per coordinare i soldati e gli agenti nei loro interrogatori.
E' quanto ha raccontato l'emittente statunitense Abc basandosi su testimonianze di dirigenti proprio della Casa Bianca rilasciate in forma anonima. La cupola dell'amministrazione Usa, riunita in quello che il Washington Post ha definito senza mezzi termini «il consiglio delle torture della Casa Bianca» si occupava di tutti i dettagli relativi alle «tecniche d'interrogatori severi», fornendo virtualmente quelle «coreografie» necessarie, e cioè i vari tipi di tortura da applicare in modo combinato: colpi e percosse, privazione prolungata del sonno, deprivazione sensoriale e infine la famigerata simulazione diannegamento, altrimenti detta «waterboarding».
I servizi segreti americani all'epoca ricevevano innumerevoli richieste da parte dei propri agenti desiderosi di spremere gli interrogati per una formale autorizzazione legale delle torture da mettere in pratica. E i "sei" le fornivano agevolmente, discutendo tra di loro. Al tempo, dice la Casa Bianca, si era convinti che un nuovo attacco da parte di al Qaeda sul territorio americano «fosse imminente», ma di fatto la cupola si è riunita fino al 2004.
I "sei" erano coordinati da Condoleezza Rice che, secondo le fonti dell'emittente televisiva (confermate ieri dall'Associated press), era quella «che non aveva mai ripensamenti». Il più «incerto e timoroso» era invece John Ashcroft, che pur concordando con i colleghi sulle metodologie, si è posto a più riprese il problema di tenere quegli incontri proprio alla Casa Bianca: «perché parliamo di questo proprio qui?» Avrebbe chiesto in diverse occasioni «la storia non ci giudicherà in maniera positiva».
E proprio Ashcroft è l'unico dei "sei" che la Abc non è riuscita a contattare durante la sua inchiesta, mentre i portavoce di Tenet, Rumsfeld e Powell si sono rifiutati di commentare le loro discussioni «private»: il funzionario di Powell ha anche aggiunto che «centinaia di incontri si tenevano in quel periodo», su diversi argomenti e che «non ha la libertà di parlare di discussioni private». Nessun commento neanche sull'operato di Rice e Cheney. Ma l'anno scorso intervistato proprio dalla Abc Tenet aveva spiegato, sempre a proposito delle torture, che interrogare i detenuti in quel modo «ha permesso di salvare molte vite umane. Era un'attività legale secondo l'avvocatura Generale degli Stati Uniti d'America».
Le riunioni iniziarono con la cattura di Abu Zubaydah, considerato uno dei principali leader di al Qaeda in Pakistan. Zubaydah fu portato in una prigione thailandese. «Avevo spiegato che quell'uomo poteva renderci le cose facili oppure molto difficili», ricorda l'agente della Cia John Kiriakou. E poco dopo si decise il piano. Con un documento dell'estate 2002, ritirato nel 2004 e conosciuto come "Golden Shield" la Casa Bianca "copriva" politicamente gli agenti Cia coinvolti negli interrogatori dei presunti terroristi: «Gli atti violenti non sono tortura - dicevano tra l'altro quei fogli - e se ti capita di torturare, non preoccuparti avrai una difesa assicurata».

Wal Mart, 30 anni di abusi filmati minuto per minuto

Wal Mart, 30 anni di abusi filmati minuto per minuto

di Daniele Zaccaria
Liberazione del 13/04/2008

Un reality ante-litteram lungo trent'anni; migliaia e migliaia di ore di filmati a bassa definizione nel cuore di Wal Mart: riunioni strategiche, seminari di marketing, festini tra capi, capetti e funzionari. Una videoteca sterminata, con tanta materia da romanzo, tanta etnografia aziendale e tanta miseria umana.
«Sono dei documenti impressionanti e per certi versi irresistibili», giurano tutti coloro che hanno osservato alcuni estratti della vita quotidiana nei piani alti del gruppo, in gran parte scambi e conversazioni informali. In uno dei video che più ha suscitato indignazione si vedono due manager che si sbellicano dalle risate commentando la denuncia di un bambino di 12 anni rimasto sfregiato a causa di un flacone di benzina che gli è esploso sul viso per un difetto di fabbricazione: «Ha messo la benzina sul legno e...boom. Sarà stato il fuoco di Dio, ah ah ah».
Era la fine degli anni 70 quando il colosso americano della distribuzione (più di 300 miliardi di dollari di fatturato annuo) contattò la Flagler Production, una piccola casa di produzione del Kansas per commissionare un appalto di sorveglianza video dei suoi dirigenti. I filmati, oltre che al controllo dei dipendenti, servivano anche a scopi celebrativi, come le riprese delle assemblee annuali degli azionisti, eventi pubblicitari e altre kermesse di natura autoreferenziale.
La Flager ha prestato servizio per Wal Mart fino al 2006, quando è stata sostituita da una casa di produzione più ricca per realizzare addirittura una commedia musicale in onore del grande marchio. Una stucchevole prosopopea sul sogno americano, incarnato dall'irresistibile ascesa degli ipermercati dell'Arkansas -lo Stato più povero degli Usa- diventati oggi la più grande impresa del pianeta, le cui vendite rappresentano il 2,5% del prodotto interno lordo statunitense sorpassando di gran lunga quello di nazioni industrializzate come la Svezia. Un cd musicale su cinque, un tubo di dentifricio su quattro, un pannolino su tre sono oggi acquistati negli Usa in un negozio della catena. La quale ha vissuto un'espansione che non sembra avere limiti, dagli Usa al Messico (1991), al Canada (1994), al Brasile e all'Argentina (1995), alla Cina (1996), fino all'approdo nei mercati europei con Germania (1998) e Gran Bretagna (1999).
Dieci giorni dopo la rescissione del contrato, Mike Flagler, fondatore e propietario della società di produzione ha venduto la baracca a due suoi giovani dipendenti, Mary Lyn Villanueva e Gregory Pierce i quali hanno proposto di restituire gli archivi video a Wal Mart per alcuni milioni di dollari di compenso. D'altra parte le casse della Flagler languivano, considerando che i servizi per Wal Mart assorbivano il 90% del suo giro d'affari. Poco lungimirante e molto spocchiosa la replica dei responsabili: «Quei film non interessano proprio a nessuno, li compriamo per 500mila dollari, prendere o lasciare».
Villanueva e Peirce hanno lasciato. Anzi, hanno rilanciato la posta, aprendo al pubblico (al prezzo di pochi dollari) il materiale della videoteca. E calamitando lo sguardo interessato di decine di avvocati dei consumatori e delle associazioni di cittadini che ora promettono impugnare i filmati intentando centinaia di azioni legali contro il colosso. «In quelle immagini c'è tutto quel che volete sapere su Wal Mart e che non avete mai osato chiedere», scriveva in settimana il Wall Street Journal , il primo organo d'informazione Usa che ha dato risalto alla storia. «Il fatto che Flagler metta in vendita a dei terzi dei video che ci riguardano e che noi abbiamo pagato con le nostre tasche è un atto illegale: andremo tutti dal giudice», tuonano i portavoce della Corporation sperando di riuscire a bloccare la diffusione dei filmati.
Non basterebbe un'enciclopedia per compendiare lo squallore gli episodi contenuti nelle circa 15mila cassette che documentano trent'anni di storia dell'impresa. C'è il disprezzo per i consumatori, presi letteralmente per il culo dai manager che ironizzano sulla pessima qualità dei prodotti in vendita sugli scaffali degli ipermercati. O i consueti attacchi ai lavoratori che contattano i sindacati, messi da parte o licenziati sotto suggerimento dei direttori del personale: un dossier, quello delle relazioni sindacali all'interno di Wal Mart, costellato di cause, denunce e multe milionarie inflitte dai tribunali di mezzo mondo al gigante Usa negli ultimi decenni.
Ma c'è anche spazio per la politica-politica; in un estratto del 1991 si vede il vecchio Sam Walton, storico fondatore dell'azienda, che nel corso di un'affollata assemblea di azionisti, chiede un forte applauso per Hillary Clinton: «E' una di noi». Lady Clinton è stata a lungo consigliera di amministrazione nel board di Wal Mart (1986-1992), un ruolo che non ha mancato di provocare roventi polemiche. Come quando ignorò ed evitò scientemente una manifestazione sindacale che si svolgeva all'esterno della sede centrale, partecipando come se niente fosse a un'importante riunione dei soci.
Lo scorso anno, negli ipermercati americani è stata persino messa in vendita una bambola che clebreva la lunga amicizia tra Walton e la famiglia Clinton, una "Hillary doll"; nella confezione campeggiava la seguente frase: «Un giorno una donna sarà presidente degli Stati Uniti». La bambola è stata ritirata ufficialmente per questioni di par condicio, ma si sospetta che la causa fosse un'altra: all'interno del giocattolo, rigorosamente made in China, erano infatti presenti quantità di piombo che eccedevano i limiti di tossicità previsti dalle norme Usa.
Ma i legami a doppio filo con i Clinton non riusciranno a impedire la diffusione pubblica dei filmati della vergogna. Lo sanno bene le teste d'uovo di Wal Mart che, se avessero previsto i risvolti imbarazzanti della vicenda, avrebbero senz'altro coperto di milioni la Flagler production, comprando a prezzo d'oro il loro silenzio. Ormai è troppo tardi per tornare indietro.

Bush: «Approvai io le torture»

Bush: «Approvai io le torture»

di Matteo Bosco Bortolaso

Il Manifesto del 13/04/2008

Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush sapeva che i suoi più stretti consiglieri discutevano delle torture da infliggere ai prigionieri sospettati di terrorismo. E diede il via libera. «Beh, cominciammo a unire i punti per proteggere il popolo americano - ha detto venerdì, in un'intervista esclusiva alla corrispondente della Casa Bianca della tv Abc, Martha Raddatz - e sì, sono a conoscenza del fatto che la nostra squadra per la sicurezza si incontrava per discuterne. E io approvai».
Il presidente dunque sapeva approvò. La Abc racconta di aver parlato con diverse fonti dell'amministrazione, che hanno illustrato nei dettagli le riunioni del National Security Council, il consiglio per la sicurezza nazionale del governo di Washington: l'appuntamento era nella cosiddetta Situation Room della Casa Bianca, i partecipanti erano i cosiddetti principals del consiglio, gli uomini più vicini al presidente. Erano il suo numero due, Dick Cheney, Condoleezza Rice (che come «esperta di sicurezza» coordinava i lavori), il ministro della difesa Donald Rumsfeld e l'allora segretario di Stato Colin Powell, oltre che il direttore della Cia George Tenet e l'allora ministro della giustizia John Ashcroft.
Le discussioni scendevano in macabri dettagli, tanto da dare il via libera ad interrogare che l'emittente descrive come «coreografati»: si specificava anche il numero di agenti della Cia che potevano utilizzare una certa tecnica. Tra queste c'era il famigerato waterboarding, la simulazione dell'annegamento, ma anche altre «tecniche rafforzate di interrogatorio». Le quali - trapela dalle fonti - potevano essere usate anche in maniera «combinata» se un sospetto terrorista non parlava.
I responsabili dell'amministrazione che hanno parlato con la Abc sottolineano che all'epoca «c'era grande preoccupazione per un nuovo attentato di al Qaeda» simile a quello contro le torri gemelle di New York e il Pentagono a Washington, l'11 settembre 2001. Secondo la ricostruzione, gli agenti della Cia che avevano catturato i sospetti terroristi avrebbero chiesto lumi su come agire in diversi casi: la richiesta sarebbe salita nella scala gerarchica dell'agenzia e dell'amministrazione, fino ad arrivare a Washington. Il primo caso è quello di Abu Zubaydah, catturato nella primavera del 2002 e quindi trasferito in una prigione segreta in Tailandia.
«La Cia voleva che noi firmassimo su ogni caso, ogni volta - racconta una delle fonti - dicevano "abbiamo questo e quest'altro, questo è il piano". Ad ogni discussione, tutti i principals approvarono. La Rice e Powell avrebbero condiviso qualche preoccupazione per le scelte politiche di cui erano artefici, ma Condoleezza avrebbe detto alla Cia: "This is your baby. Go do it" (un via libera alquanto colorito). Nonostante i ripetuti sì, una volta si alzò una voce di protesta, quella dell'ex ministro della giustizia Ashcroft: "Perché stiamo parlando di queste cose alla Casa Bianca? La storia non lo giudicherà con gentilezza». Profetiche e inascoltate parole.
La tv ha cercato di contattare i protagonisti degli incontri nella situation room, ricavando ben poco: soltanto Colin Powell ha risposto, limitandosi ad un «non ricordo, abbiamo avuto molte riunioni su come trattare i sospetti di terrorismo, ma non abbiamo mai discusso di cose che non fossero legali». Questo è un punto sul quale battono molti responsabili dell'amministrazione Bush: «Quello che abbiamo fatto - dicono - è legale». Lo stesso presidente, rispondendo alle domande della Abc, ha difeso l'uso del waterboarding contro Khalid Sheikh Mohammad, conosciuto anche come KSM o «la mente dell'11 settembre». «Avevamo le opinioni legali (un documento tecnico ndr) per farlo - ha detto Bush alla tv - e no, non ho avuto alcun problema a scoprire quello che Khalid Sheikh Mohammad sapeva». Il problema è che le cosiddette «opinioni legali» sono state scritte dalla stessa amministrazione, per autorizzare tecniche che secondo molti esperti violano la convenzione di Ginevra contro la tortura. Un documento segreto che risale all'agosto 2002, ad esempio, viene chiamato «lo scudo dorato» della Cia, perché dà il via libera formale e legale alle cosiddette «tecniche rinforzate». Molti conservatori a stelle e strisce ne fanno addirittura un vanto: sui siti vicini alle loro posizioni si possono acquistare le t-shirt con scritto «preferisco il waterboarding».

Speculazione finanziaria e cibo come merce. Ecco i perché dell'emergenza alimentare

Speculazione finanziaria e cibo come merce. Ecco i perché dell'emergenza alimentare

di Sabina Morandi

Liberazione del 15/04/2008

Prima di tutto non è affatto vero che sono «gli elevati prezzi dell'energia» a far crescere il costo del cibo come ha sostenuto ieri Mario Draghi. Un raddoppio del prezzo in due giorni, com'è avvenuto col riso, non si può ottenere soltanto caricando la bolletta dei trasporti e nemmeno destinando parte delle terre ai biocombustibili, come sospettano gli ambientalisti.
Un'impennata del genere può essere soltanto frutto di una dinamica che Draghi conosce molto bene: la speculazione finanziaria alla quale sono stati legati i destini dei più poveri fra i poveri quando si sono voluti a tutti i costi aprire i mercati e trattare il cibo come una merce fra le altre.
Ma procediamo con ordine.
Dopo l'allarme lanciato ieri dal governatore della Banca d'Italia c'è stato quello di Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, che si è presentato in conferenza stampa con in mano un filone di pane. L'idea era di ricordare quel miliardo di persone che ancora sopravvivono con meno di un dollaro al giorno e per i quali gli ultimi aumenti equivalgono a una condanna.
Le ultime notizie sul fronte del cibo dicono infatti che il costo degli alimenti di base - come il riso, il mais, il latte, il grano e la soia - sta diventando proibitivo soprattutto in quei paesi che hanno preso per buoni i dettami del Wto (da cui proviene Zoellick) rinunciando all'autosufficienza alimentare per aprirsi alle meraviglie del mercato globale. Quello stesso mercato che sta spingendo in alto i prezzi con velocità allarmante: il riso è aumentato del 75 per cento negli ultimi due mesi, il grano è aumentato del 120 per cento nell'ultimo anno. In paesi come lo Yemen una famiglia media spende più di un quarto delle sue entrate solo per comprare il pane.
Anche le stime del Fondo monetario sono allarmanti: dalla fine del 2006 i prezzi dei prodotti alimentari sono cresciuti del 48 per cento a livello globale mentre (dati Ocse) gli aiuti dei paesi ricchi diminuivano dell'8,4 per cento per il secondo anno consecutivo.
A livello nazionale si registrano aumenti anche più forti: in Sudan il grano è aumentato del 90 per cento, in Armenia del 30 per cento e in Senegal è più che raddoppiato. In Uganda il mais costa il 65 per cento in più, mentre in Nigeria è raddoppiato il prezzo del miglio e nelle Filippine è cresciuto dell'80 per cento in un anno il prezzo del riso, alimento base per metà dell'umanità.
Rivolte del pane sono già scoppiate in Egitto, Camerun, Costa d'Avorio, Mauritania, Etiopia, Madagascar, Filippine e Indonesia, e quasi ovunque i rispettivi governi hanno risposto con la repressione.
Ma le crisi, si sa, sono occasioni proficue per alcuni. La Banca Mondiale, che invita i paesi donatori a mettere mano al portafoglio, ha stanziato un pacchetto d'emergenza di dieci milioni di dollari per Haiti ma ha già annunciato che il grosso della sua iniziativa verterà su di una nuova valanga di prestiti per l'agricoltura africana (si parla di 100 milioni) anche se non è dato sapere se questi soldi arriveranno ai piccoli agricoltori - che con l'agricoltura di sussistenza potrebbero dare una mano ai consumatori poveri - o se pioveranno sulle grandi aziende votate all'export come raccomanda la Banca, così da rendere i paesi poveri ancora più dipendenti dalle importazioni.
Naturalmente è subito partita la solita campagna pro-organismi geneticamente modificati - che "sfameranno il mondo", come la lobby biotech promette da vent'anni - mentre i guardiani della fede liberista implorano i governi di non bloccare le esportazioni per rimpinguare le scorte nazionali, ai minimi storici in quasi tutti i paesi.
Resta il fatto che gli autorevoli economisti riuniti a Washington hanno fatto finta di ignorare che la vera causa della crisi è, appunto, una dinamica speculativa, che si è creata quando i capitali sono fuggiti dal mercato immobiliare per paura dei mutui facili e si sono messi a caccia di altre occasioni di profitto, come i titoli legati alle materie prime alimentari e non - da cui l'impennata di petrolio e oro. Scommettendo sui prezzi futuri di soia, mais e grano, questa enorme massa di liquidità ha inciso sul prezzo di oggi, facendolo aumentare con una velocità che non ha alcun aggancio con l'economia reale della domanda e dell'offerta (per non parlare dei costi di produzione o di distribuzione).
Insomma: giocando con i fiammiferi negli uffici di Wall Street i traders hanno provocato un incendio di dimensioni globali. Come rimediare? La cosa dovrebbe essere abbastanza semplice visto che il mercato azionario ha i suoi meccanismi di compensazione che servono proprio a impedire rialzi o ribassi sospetti o troppo destabilizzanti per l'economia reale. Come si fa con il titolo di un'azienda quando comincia a fluttuare troppo pericolosamente, basterebbe sospendere i futures alimentari per eccesso di rialzo: i capitali speculativi si sposterebbero altrove mentre la maggior parte della popolazione della terra potrebbe avere qualche speranza di continuare a nutrirsi dignitosamente.
Sarebbe un brutto segnale per i mercati? Ma c'è segnale peggiore di una carestia globale?