mercoledì 29 dicembre 2010

Il fondatore di Wikileaks annuncia che è uscito solo l’1% dei cablo segreti Usa: siamo in ritardo

l’Unità 24.12.10
Il fondatore di Wikileaks annuncia che è uscito solo l’1% dei cablo segreti Usa: siamo in ritardo
Israele sotto tiro. Il Mossad in allarme per le prossime informazioni riservate sullo Stato ebraico
La missione di Assange: «Pubblicare tutto o morire»
«Pubblicare o morire». Julian Assange dalla villa nel Suffolk promette nuove rivelazioni. «Solo l’1% del materiale che abbiamo è stato diffuso». Chiede al Brasile asilo per sé e per una nuova base operativa del sito
di Rachele Gonnelli

Julian Assange concede interviste a raffica. Serio e compassato su fondale di stoviglie inglesi intervistato da sir David Frost per Al Jazeera, sciolto e ironico di spalle ad un caminetto acceso per Paris Match, nordico e sognante tra le nevi
nell’immagine del quotidiano di San Paolo del Brasile. Un vero tour de force per lo zelig australiano in questa fine d’anno che in molti pensano abbia contrassegnato, lui più di chiunque altro.
Nel 2011 rischia di essere estradato in Svezia, dove lo attende un processo per stupro, e probabilmente negli Stati Uniti per cospirazione. La Cia, l’unica delle 16 agenzie d’intelligence statunitensi a non aver adottato il sistema intranet del Pentagono da cui sono stati scaricati i files che hanno messo in serio imbarazzo la Casa Bianca, ora indaga su di lui. Ha costituito una task force speciale incaricata di accertare le conseguenze delle rivelazioni di Wikileaks pubblicate finora. Ma gli agenti speciali anti-wiki non hanno visto ancora niente. Ad oggi, Wikileaks ha pubblicato nel complesso meno di 2.000 cable su oltre 251.000 di cui è in possesso, più o meno l'1% del totale. Per pubblicare tutto il materiale, ha calcolato Assange, ci dovrebbero volere circa sei mesi. «Siamo in ritardo. Siamo solo a un cinquantesimo della nostra missione». E comunque la missione è «pubblicare o morire, non abbiamo altra scelta». La morte qui è relativa al sito, ma Assange teme anche per sè stesso. Daniel Ellsberg, il veterano della guerra in Vietnam che rivelò i segreti di Nixon ai giornali Usa , considera «possibile» un attentato alla sua vita orchestato dal governo americano. Perciò Julian fa appello al Brasile, quasi fosse una nuova Sakineh, facendosi forte dell’appoggio che il presidente Luiz Inacio Lula da Silva gli ha espresso quando è stato arrestato in Inghilterra per i presunti stupri delle due donne che svedesi che lo accusano. «Sarebbe ottimo se mi fosse concesso asilo in Brasile. afferma il biondo fondatore di Wikileaks al quotidiano brasiliano Estado de S.Paulo -E potremmo anche istallare in Brasile una nostra base operativa. È un paese grande a sufficienza per essere indipendente dalla pressione degli Stati Uniti, e ha forza economica e militare per farlo. Inoltre non è un paese come la Cina e la Russia che non sono tanto tolleranti con la libertà di stampa». Assange rivela di essere in possesso di almeno 2mila cablo dell’ambasciata Usa su Lula e gli interessi del Brasile nel mondo.
LE NUOVE RIVELAZIONI
L’organizzazione di Wikileaks annuncia il suo principale artefice ha ancora da far conoscere al mondo la gran parte dei documenti riservati concernenti ad esempio Israele. Al momento si fa trapelare solo i possibili titoli della lista: la guerra in Libano del 2006, l'assassinio del comandante di Hamas Mahmoud al-Mabhouh ucciso in un hotel di Dubai lo scorso 20 gennaio, l'omicidio del generale siriano Muhammad Suleiman. Dei circa «3.700 documenti su Israele, 2.700 arrivano dalle sedi diplomatiche nello Stato ebraico», ha detto Assange. Il Mossad sarebbe già in allarme. E la Cina su cui prima dell’arresto a Londra aveva promesso dirompenti rivelazioni? Alla domanda, che gli viene posta nel programma Frost over world, risponde che sì, ci stanno lavorando ma c’è qualche difficoltà connessa alla diversa diffusione di Internet e che per ora hanno un dossier sulla Corea del Nord. Però il lavoro di divulgazione dei segreti diplomatici si potrà d’ora in avanti avvalere del contributo di altre testate giornalistiche importanti come Novaya Gazeta, il quotidiano di Anna Politkovskaja. La rete di protezione dei partner di Wikileaks che comprende New York Times, Le Monde, Guardian, El Pais e Der Spiegel si estende dunque alla stampa anti Putin.

sabato 25 dicembre 2010

Why is Iraq in Chaos? NO END IN SIGHT Now On DVD



The first film of its kind to chronicle the reasons behind Iraq's descent into guerilla war, warlord rule, criminality and anarchy, NO END IN SIGHT is a jaw-dropping, insider's tale of wholesale incompetence, recklessness and venality.

giovedì 23 dicembre 2010

Cinquanta rabbini contro la vendita di case ad arabi e stranieri, cortei anti-immigrati A Tel Aviv

l’Unità 23.12.10
Il sondaggio. Il 55% favorevole al divieto di vendita o affitto a non ebrei
Gerusalemme. Giovani aggrediscono palestinesi: non toccate le nostre donne
Il fronte del no. la condanna di Burg, Sternhell, Michael, Yael Dayan e Shulamit Aloni
Un vento xenofobo soffia su Israele
Allarme degli intellettuali
Cinquanta rabbini contro la vendita di case ad arabi e stranieri, cortei anti-immigrati A Tel Aviv. Yehoshua: un crimine contro la convivenza
di Umberto De Giovannangeli

Abraham Bet Yehoshua pesa le parole, perché, da grande scrittore qual è, sa che le parole spesso fanno più male delle pietre, producono ferite nell' anima difficili da cicatrizzare. Ma di fronte all'uscita dei 50 rabbini ultraortodossi non frena la sua indignazione: «Si tratta dice a l'Unità di un fatto disgustoso. Affermare certe cose è un crimine contro la convivenza».
Un fatto disgustoso. Questo: nelle scorse settimane, una cinquantina di rabbini capo municipali di città e villaggi di tutto Israele hanno firmato una pubblica presa di posizione contro la vendita o l'affitto di immobili a arabi e lavoratori stranieri. I firmatari, che sono tutti stipendiati dallo Stato, citano versetti religiosi per sostenere che le leggi religiose ebraiche includono precisi divieti contro l'affitto di immobili a gentili e avvertono che chi dovesse violare questo divieto, anche dopo ripetuti ammonimenti, rischia di essere ostracizzato dalla sua comunità. Tra le ragioni del divieto i rabbini citano i matrimoni con non ebrei che «sono un peccato e offendono il nome di Dio». Lo stile di vita dei gentili, si afferma ancora, «è differente da quello degli ebrei e tra i gentili ci sono anche quelli che ci hanno perseguitato e ci hanno resto la vita impossibile». Questi rabbini hanno anche aggiunto una ragione economica: «E' noto sostengono che l'affitto di una casa a un gentile ha causato la perdita di valore delle case dei vicini». «L'errore più grave che si potrebbe fare è considerare queste uscite vergognose come espressione di una sparuta minoranza di fondamentalisti. Purtroppo non è così», ci dice al telefono Zeev Sternhell, tra i più autorevoli storici israeliani.
La riprova viene da un sondaggio pubblicato da Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano d'Israele: il 55% degli intervistati si sono detti favorevoli all'appello dei 50 rabbini. Il 58% degli intervistati si è detto contrario a chiedere le dimissioni dei rabbini che hanno aderito all' appello. Alla domanda: che cosa farebbe se una famiglia araba comprasse una casa, o la prendessero in affitto nelle vicinanze, il 57% ha risposto che la cosa sarebbe fastidiosa; il 24,5% ha detto che agirebbero, o prenderebbero in considerazione l'idea di agire per impedire il trasloco della famiglia araba nelle mentre il 7% ha affermato che avrebbe traslocato dalla zona. La percentuale degli oltranzisti aumenta a Gerusalemme: fra gli “haredim”, i religiosi più tradizionalisti, la quota dei favorevoli sale fino all'84%.
Un dato che non meraviglia Avraham Burg, già presidente della Knesset, il più giovane nella storia dello Stato d'Israele: “Gerusalemme rimarca è una città che divide, che emargina, che espelle. Guardo con angoscia e sgomento a ciò che Gerusalemme è diventata: la capitale del fanatismo, di un oltranzismo zelota che ha cambiato i connotati della città. La capitale degli israeliani – ebrei e arabi – si stata trasformando sempre più nella capitale di pericolosi fanatici”. Quella dell'intolleranza, dai tratti razzisti, è una metastasi che da Gerusalemme si sta propagando anche nella «laica» Tel Aviv. «Quella che i sta imponendo annota Menachem Klein, docente di Scienze Politiche all'Università Bar-Ilan di Tel Aviv è una “democrazia etnica” che si manifesta anche in una simbiosi fra Stato e coloni”. «Si inizia con gli arabi, si prosegue con gli immigrati di qualsiasi provenienza. Il razzismo che si fa scudo della religione è un tarlo che sta corrodendo il tessuto democratico e la stessa convivenza civile in Israele», sottolinea il romanziere Sami Michael.
La cronaca supporta questo grido d’allarme. «Non vogliamo aver paura a casa nostra, che gli infiltrati tornino a casa» centinaia di abitanti dei rioni proletari di Tel Aviv hanno dato oggi vita ad una manifestazione contro la crescente presenza nelle loro strade di immigrati africani entrati in Israele nella speranza di trovarvi lavoro. Lunedì nella città di Bat Yam, a sud di Tel Aviv, altri dimostranti erano scesi in piazza per invocare l'espulsione dalle loro strade di arabi originari di Jaffa accusati di «sedurre e corrompere» le donne ebree. In Israele, avverte la stampa, spirano venti xenofobi, fomentati anche da gruppi radicali di destra e da rabbini nazionalisti. La situazione è esplosiva», sostiene un tabloid nell' evidenziare che ormai alle parole seguono anche fatti. Ad Ashdod (a sud di Tel Aviv) ignoti hanno cercato di dare alle fiamme un appartamento abitato da cinque sudanesi. A Tel Aviv ragazze di colore sono state malmenate ed insultate da un gruppo di energumeni. E a Gerusalemme la polizia ha arrestato dieci giovani ebrei (fra cui diversi minorenni e alcune ragazze) sospettati di aver sistematicamente aggredito nel centro della città arabi «sorpresi a corteggiare ragazze ebree».
La situazione rischia di precipitare. Al punto da spingere ieri il premier Benyamin Netanyahu a lanciare un appello ai suoi connazionali a rispettare le leggi, a non attaccare lavoratori stranieri e a non infiammare gli animi contro le minoranze nel paese. L' appello è stato fatto in seguito a ripetute manifestazioni di xenofobia e di ostilità nei confronti di arabi e lavoratori clandestini africani nelle scorse settimane. Nel messaggio del premier, diffuso anche su YouTube e Facebook, Netanyahu afferma: «Io chiedo agli israeliani e su ciò insisto di non farsi giustizia da soli e di non ricorrere a violenze o a incitamenti .... Noi siamo uno Stato che rispetta le persone in quanto tali. Dal canto nostro agiremo per risolvere il problema nel rispetto delle leggi. È ciò che facciamo ed è ciò che chiedo agli israeliani di fare». Netanyahu ha assicurato che il suo governo è attivamente impegnato a risolvere il problema della presenza di migliaia di clandestini africani sia con la costruzione di una barriera fisica lungo il confine con l' Egitto, sia rinviandoli nei loro Paesi e in altri non meglio precisati modi. «Netanyahu è un ipocrita commenta sempre con l’Unità Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista -: questo odio verso i “diversi” è alimentato dalla destra oltranzista che controlla il governo tenendo in ostaggio il futuro d’Israele...». Una tesi rilanciata da Shulamit Aloni, fondatrice di «Peace Now», già ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres: «È straziante dice ma lo Stato di Israele non è più una democrazia. Noi viviamo in una etnocrazia: l’ordinamento di una comunità etnica religiosa che stabilisce rigidamente l’origine etnica dei suoi cittadini secondo una discendenza matrilineare . E il degno rappresentante di questa deriva razzista oscurantista aggiunge è Avigdor Lieberman (ministro degli Esteri e leader di Yisrael Beitenu, destra nazionalista, terza forza politica d’Israele, ndr)».
L’Israele che rivendica la superiorità di Eretz Israel (la Terra biblica) su Medinat Israel (lo Stato), l’Israele che plaude alle parole del ministro della Giustizia, Yaakov Neeman: « Passo dopo passo, noi daremo ai cittadini d'Israele le leggi della Torah e faremo della Halakha la legge fondamentale dello Stato», non contempla nel suo vocabolario politico-ideologico la parola «compromesso». Una parola estranea a ogni fondamentalismo. Scrive Amos Oz: «Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte».

mercoledì 10 novembre 2010

Il business delle false malattie ecco i trucchi delle industrie per venderci farmaci inutil

La Repubblica 29.10.10
Il business delle false malattie ecco i trucchi delle industrie per venderci farmaci inutili
Il costo per sanità pubblica e famiglie: 4 miliardi all’anno
di Michele Bocci

Non ce n´è nemmeno uno. Sul calendario non sono rimasti più mesi, settimane o giorni liberi da malattie. Da prevenire, scoprire prima possibile, sconfiggere, studiare o raccontare a chi sta bene. Cancro, alzheimer, sclerosi multipla, aids sono protagoniste ogni anno di giornate mondiali o italiane, regionali o cittadine. Ma anche la menopausa, l´osteoporosi, l´incontinenza e addirittura la stipsi hanno i loro periodi dedicati, con appuntamenti nelle piazze, davanti ai supermercati, negli ambulatori. Sotto gazebo montati in centro si misurano glicemia e pressione, si fanno valutazioni odontoiatriche e audiometriche ai passanti. C´è un palcoscenico per ogni problema, che sia infettivo e raro come la meningite oppure diffusissimo come l´ipertensione. Molti forse non sanno che in Italia si celebra anche il mese della prevenzione degli attacchi di panico.
Quanti sono gli appuntamenti dedicati alle malattie? Quelli nazionali almeno 60 l´anno, poi ci sono le manifestazioni locali e il numero sale a 300. In molti, tra medici, farmacologi e responsabili di associazioni di malati, sono convinti che sia troppo alto. Spesso l´invito agli screening e il messaggio che molti non sanno di avere una certa patologia, oltre ad avere effetti positivi, creano ansie e timori. E fanno consumare sempre più sanità: esami, visite e medicinali. È ciò che vuole l´industria farmaceutica, che in Italia fattura oltre 25 miliardi di euro all´anno. Lavora per far guarire da problemi seri ma anche per allargare il mercato, un po´ come si fa con i detersivi. Le giornate del malato, normalmente importanti, possono essere un efficace strumento di marketing, e diventare una delle linee di produzione della fabbrica delle malattie.
Quali sono i meccanismi utilizzati per riempire di medicine i nostri armadietti del bagno? Il punto di partenza è la ormai nota frase pronunciata oltre trent´anni fa dal pensionando direttore Merck, Henry Gadsen: «Sognamo di produrre farmaci per le persone sane». Da allora la fabbrica ha scoperto tanti medicinali importanti ma ha anche prodotto nuove patologie e nuovi malati. Eventi naturali della vita come l´invecchiamento e il parto o stati d´animo come la timidezza, oggi, nella grande corsa al benessere assoluto, sono considerati problemi di salute. Così nessuno di noi si sente sano fino in fondo. Probabilmente Gadsen ne sarebbe soddisfatto.

I problemi di salute in piazza
L´idea di partenza è meritoria: portare una patologia in piazza per farla conoscere e magari raccogliere soldi per ricerca e assistenza. Il sistema però è cresciuto a dismisura. «Si rischia di incentivare il consumo di prestazioni sanitarie e di medicine», dice Marco Bobbio, primario di cardiologia a Cuneo e autore per Einaudi del libro "Il malato immaginato". «Tra gli organizzatori delle giornate c´è certamente chi ha uno scopo specultativo. Anche perché nessuno ha mai verificato con studi scientifici se queste iniziative aiutano i pazienti a curarsi meglio o magari spingono qualcuno che ha scoperto i sintomi di un problema ad accentuare artatamente i suoi disturbi, sottoponendosi a esami inutili». E magari a consumare più farmaci. Ma quanti tra coloro che partecipano a una campagna sanno già di avere quel problema di salute?
«L´impressione è che si faccia coinvolgere chi è già seguito per la patologia a cui è dedicata la giornata dice Bobbio Chi fuma non va al banco per la prevenzione del tumore al polmone fuori dal supermarket».
A organizzare questi appuntamenti di solito sono associazioni di malati, con l´appoggio di una società scientifica e il contributo dell´industria. Un evento di medie dimensioni al privato può costare anche 100-150mila euro. Le case farmaceutiche credono in queste iniziative. E non solo loro. Sempre più aziende cercano visibilità per i loro prodotti attraverso i problemi di salute. La giornata dell´osteoporosi oltre a sponsor come Procter & Gamble (che vende un farmaco per questo problema a base di risedronato), o Lilly Italia, quest´anno ha avuto la partnership dell´acqua Sangemini. Sul suo sito la società spiega anche di aver pubblicato un «opuscolo esplicativo sulle proprietà dell´acqua Sangemini, sulla prevenzione e la cura dell´osteoporosi per la donna fashion, ma anche attenta al suo benessere». Il tutto per un problema passato negli ultimi anni da fattore di rischio a malattia, secondo alcuni proprio grazie all´impegno dell´industria. Negli Usa si calcola che le visite per l´osteoporosi siano triplicate dall´introduzione sul mercato del farmaco alendronato della Merck.
Al di là delle normali e lecite sponsorizzazioni, esistono appuntamenti organizzati a tavolino per vendere farmaci? Per dare una risposta basta la storia della "settimana nazionale per la diagnosi e la cura della stitichezza". «In Italia è stata fatta per ben tre anni consecutivi spiega Bobbio Si volevano sensibilizzare medici e cittadini sulla necessità di curare questo problema in previsione dell´arrivo sul mercato di un farmaco». Quel medicinale era a base di tegaserod ed era prodotto dalla Pfizer, che l´ha ritirato dal commercio in Europa nel 2007, perché sono stati segnalati casi di problemi cerebro-vascolari tra chi lo aveva preso. «E dall´anno dopo la settimana della stitichezza è scomparsa dice Bobbio dimostrando che il grande interesse "scientifico" era ingigantito per preparare il lancio commerciale».

Curare malattie che una volta non erano malattie
Le giornate del malato, come certi studi clinici, i convegni e le pubblicità, in alcuni casi possono essere utilizzate per il cosiddetto disease mongering, la creazione a tavolino delle malattie. La stessa osteoporosi, la menopausa, la timidezza, un tempo non erano considerate patologie, ora sì. Una recente ricerca scientifica svolta negli Usa e pubblicata da Social science & medicine, prende in considerazione una decina di situazioni (ansia, deficit di attenzione, insoddisfazione della propria immagine, disfunzione erettile, infertilità, calvizie, menopausa, gravidanza senza complicazioni, tristezza, obesità, disordini del sonno) che sono state medicalizzate, alcune magari anche giustamente, negli ultimi anni e calcola che costino ogni anno alla sanità Usa 77 miliardi di dollari, il 3,9% della spesa. Quanto costa in Italia medicalizzare le patologie che un tempo non esistevano? Rispettando le proporzioni con l´America, circa 4 miliardi di euro. Di recente il British medical journal ha pubblicato il lavoro di un ricercatore australiano, Ray Moynihan, il quale sostiene che il mito della scarsa libido delle donne è stato creato dalle case farmaceutiche, per vendere una versione femminile del Viagra fino ad ora mai scoperta.

Come si aumenta il numero di pazienti
La fabbrica delle malattie non si accontenta mai. Si muove anche per far crescere il numero di persone a rischio. «Basta abbassare il limite della pressione, della glicemia o del colesterolo considerati pericolosi», spiega Roberto Satolli, medico e giornalista dell´agenzia Zadig, che realizza il sito www.partecipasalute.it. «Negli anni Sessanta si era ipertesi con 160-90, negli anni Ottanta e Novanta con 140-90 e adesso con 120-80. Si sposta un po´ la soglia e milioni di persone vengono inserite tra coloro che devono prendere dei farmaci». Il colesterolo un tempo era considerato alto dai 240 in su, adesso anche ben al di sotto dei 200. Un sensibile allargamento del mercato potrebbe essere dovuto proprio in questo periodo al Crestor di AstraZeneca, uno dei medicinali della famiglia delle statine più efficaci per abbassare il colesterolo e quindi prevenire l´infarto. Di recente l´Fda, l´agenzia Usa per il controllo dei farmaci, ha approvato l´estensioni delle indicazioni alle persone senza problemi di colesterolo ma con alti livelli della proteina C-reattiva (un marcatore di infiammazione) e con un fattore di rischio cardiovascolare, come fumo, ipertensione, sovrappeso. Il New York Times ha spiegato come uno studio su larga scala dimostri che, rispetto al placebo, il Crestor per questi soggetti fa scendere la probabilità di un attacco di cuore da 0,37% a 0,17. Il quotidiano fa notare che per prevenire un infarto "a cui normalmente si può sopravvivere" vanno trattate 500 persone. Che magari sono grasse e quindi potrebbero abbassare quel fattore di rischio. Il Nyt calcola che, con l´allargamento dei parametri, 6,5 milioni di americani diventino potenziali utilizzatori del Crestor.
Le statine sono sempre più usate ovunque, da noi il consumo aumenta del 20% all´anno. Si tratta di farmaci che hanno rivoluzionato la cura dei problemi cardiovascolari. Lo sottolinea Sergio Dompé, presidente di Farmindustria: «Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una riduzione di queste patologie senza precedenti. Del resto, più in generale, oggi stiamo meglio di una volta, in 15 anni ne abbiamo guadagnati 3 di vita. Le aziende fanno i loro interessi, ma quando lavorano correttamente perseguono anche il bene della collettività. Certo, alcuni sprechi si possono ridurre. E come dico sempre: il miglior farmaco è avere un bravo medico». Uno dei pilastri della fabbrica delle malattie è il marketing. Ma come si fa a vendere un farmaco?

L´imbuto e il "disease awareness"
Bisogna essere oltre che disinvolti anche scientifici. «I medici sono classificati a seconda della loro capacità di condizionare i colleghi. In cima ci sono gli influenzatori, bravi a parlare in pubblico e seguiti da tanti altri dottori quando si tratta di fare una prescrizione. Poi ci sono gli influenzati ma anche categorie come gli early adopters, gli appassionati delle novità, che amano essere i primi a fare le cose». A parlare è Luca (il nome è finto), che da anni lavora negli uffici marketing del farmaceutico. «A parte l´utilizzo degli informatori, sono importanti i congressi. Si sponsorizzano gli organizzatori e si fanno mettere letture o tavole rotonde incentrate non sul brand del tuo farmaco, cosa vietata, ma sul principio attivo o sulla patologia. Avere questo spazio scientifico costa diverse decine di migliaia di euro. Per il tuo simposio ingaggi i relatori, che paghi tra i mille e 5mila euro, e anche il pubblico, cioè i medici che seguono la patologia di cui si parla e che ospiti al congresso». Il fine è quello di vendere più farmaci. «Si pensi a un imbuto dice Luca Se ho 100 persone che prendono determinati medicinali e la mia azienda copre il 50% del mercato, serve a poco ed è faticoso strappare alla concorrenza il 2 o 3%. A me che sono leader, conviene aumentare i pazienti, farli diventare 200 allargando l´ingresso di quell´imbuto. Si cerca di ridefinire la malattia per poter dire che ne soffre anche chi prima non l´aveva. E partono le campagne di disease awereness, cioè di consapevolezza, fatte un po´ in buona fede e un po´ in malafede. Esiste sempre una quota di persone che non sa di avere una certa malattia: è giusto fargliela scoprire. Così, ad esempio, si organizzano le giornate».

La ricerca in mani private
Le multinazionali hanno in mano la ricerca. Lo spiega Nicola Magrini, farmacologo direttore del Ceveas, che si occupa di valutazione e linee guida sull´uso dei farmaci per la Regione Emilia Romagna e per l´Istituto superiore di sanità. «Negli Usa, pubblico e privato investono nella ricerca il 50% a testa spiega Da noi il pubblico finanzia solo una piccola parte degli studi. Bisognerebbe almeno favorire l´effettuazione di ricerche a cui partecipano più aziende: confrontando più farmaci si bilanciano gli interessi di tutti». Ma cosa sanno i singoli medici dei risultati della ricerca scientifica? «Negli ambulatori arrivano depliant patinati, non informazioni. Il sistema sanitario dovrebbe dare la possibilità a ogni dottore di accedere alle migliori evidenze scientifiche». Crede nelle collaborazioni tra privati per la ricerca anche Dompé. «Capita sempre più spesso che più aziende investano sullo stesso progetto, il nuovo paradigma è collaborare per competere». Il presidente di Farmindustria spiega che nel settore in Italia c´è ancora da fare. «Siamo indietro senza dubbio come struttura industriale, e ancora di più come sistema paese. Ma stiamo crescendo. Il pubblico non può avere i soldi per pagare gli studi sui farmaci, che durano in media 12 anni e mezzo. Allora deve far in modo di individuare centri di eccellenza, e ce ne sono, in grado di competere a livello mondiale e investire solo su quelli».

Siamo tutti doloranti?
Proprio in questo periodo nel nostro paese potrebbe allargarsi il famoso imbuto. Sta partendo la campagna "dolore misterioso", negli studi dei medici di famiglia saranno messi volantini e poster per insegnare a riconoscere il dolore neuropatico e descriverlo (come bruciante, lancinante, formicolante, freddo o folgorante). È stato creato anche un sito www.doloremisterioso.it. L´iniziativa vede impegnate la Fimmg, sindacato dei medici di famiglia, la Simmg, la società scientifica di questi professionisti, e l´associazione Cittadinanzattiva. Sponsor è la Pfizer. Cioè l´azienda farmaceutica che produce il Lyrica, nato quando un prodotto simile della stessa azienda, il Neurontin, è diventato generico (peraltro dopo aver fatto prendere al produttore una multa della Fda da circa 450 milioni di dollari per campagne di marketing scorrette e mancata pubblicazione dei dati di studi negativi). Il Lyrica è a base del principio attivo pregabalin, indicato come terapia aggiuntiva negli adulti con attacchi epilettici, nell´ansia generalizzata ed è l´unico prodotto sul mercato per il trattamento del dolore neuropatico periferico, un problema che con l´approvazione della legge su cure palliative e terapia del dolore è diventato trattabile anche dai medici di famiglia, con gli specialisti. Intanto sul sito tutti possono fare un questionario sul proprio dolore, stamparlo e portarlo ai loro dottori. Se questi prescriveranno il Lyrica lo sapremo nei prossimi mesi. Quando si conosceranno i dati delle vendite.

martedì 9 novembre 2010

Bambini palestinesi uccisi e abusati Rapporto shock sui coloni israeliani

l’Unità 8.11.10
La denuncia di una Ong che si occupa di infanzia: censiti 38 casi di attacchi violenti su minori
Bambini palestinesi uccisi e abusati Rapporto shock sui coloni israeliani
Le violenze sessuali.Sono il 4% dei casi Per i colpevoli completa impunità
di Umberto De Giovannangeli

Pestaggi, attacchi armati, abusi sessuali. È agghiacciante il quadro tracciato dall’Ong Defence for Children. Il rapporto prende in esame il biennio 2008-2010. Almeno 38 casi di violenza. Tre bimbi uccisi.

I palestinesi come Nemici mortali. E non importa se il nemico è un ragazzo o un bambino. Vanno colpiti, se possibile eliminati. Agghiacciante. Documentato. Si moltiplicano le denunce di aggressioni compiute da coloni israeliani contro ragazzi e bambini palestinesi in Cisgiordania. A rivelarlo è un rapporto di Defence for Children International (Dci), un'organizzazione non governativa (ong) che si occupa di diritti umani e tutela dell'infanzia. Nel rapporto, che l'Unità ha potuto visionare in anteprima nella sua interezza, si sottolinea come all'aumento della violenza corrisponda l'impunità pressoché totale dei responsabili.
BIENNIO NERO
Stando al rapporto, che prende in esame la situazione dell'ultimo biennio, dal 2008 sono almeno 38 gli episodi censiti di attacchi violenti perpetrati da coloni contro minorenni palestinesi, con un bilancio di tre ragazzi uccisi e alcune decine di feriti. In 13 circostanze risulta che i coloni abbiano usato anche armi da fuoco, mentre in una minoranza di casi (otto) i fatti si sarebbero svolti sotto gli occhi (e talora con la complicità) di soldati israeliani presenti sul posto. Le aggressioni, a quanto ha potuto accertare l'ong, sono concentrate soprattutto nella zona di Hebron e di Nablus, roccaforti degli insediamenti più militanti inseriti nella galassia dell'ideologia ultranazionalista ebraica. Gli autori del rapporto riferiscono delle preoccupazioni manifestate anche dalle autorità civili o militari israeliani per alcune delle aggressioni più clamorose, ma notano come nessuno dei 38 episodi descritti abbia trovato finora un qualsiasi colpevole condannato in tribunale.
Un ragazzo di quindici anni, Mohammed, e suo fratello Bilal, di un anno maggiore, sono stati arrestati a casa loro alle due di notte. Decine di poliziotti erano andati a cercarli, col viso coperto e nascosti tutt' intorno alla casa. Mohammed, dopo essere stato minacciato e picchiato per quattro ore, ha finito per ammettere di essere effettivamente colpevole... colpevole di aver lanciato delle pietre contro i cani dei coloni ebrei insediati dall'altra parte della strada. È stato per questo condannato a sette mesi di prigione. Suo fratello, Bilal, in seguito all'interrogatorio, è stato ricoverato in ospedale per le contusioni interne riportate ed è stato condannato a un anno di prigione per avere lanciato sassi contro le case dei coloni. Un'altra storia emblematica è quella di Mufid Mansur, un bambino palestinese di 8 anni che era stato investito, l'8 ottobre, da un colono israeliano mentre lanciava pietre contro la sua auto. Quattro giorni dopo, il bimbo è stato prelevato all'alba dalla sua abitazione di Silwan, quartiere periferico di Gerusalemme Est abitato da arabi, ed è stato impedito al padre di accompagnarlo in commissariato. Mufid era stato investito nei giorni scorsi mentre colpiva con delle pietre l'auto di David Beeri, leader di un'organizzazione di estrema destra israeliana, il quale dopo l'incidente è stato fermato e poi rilasciato dalla polizia. Il colono si è giustificato sostenendo di aver investito il bimbo involontariamente, per cercare di sfuggire alla sassaiola di alcuni ragazzini contro la sua vettura. Il padre del bambino aveva invece detto che il bambino non aveva fatto in tempo a scansarsi dalla strada mentre l'auto procedeva ad alta velocità.
CENTO CASI
Solo nel 2009, Dci ha investigato su 100 dichiarazioni sotto giuramento rilasciate da bambini palestinesi: il 97% dei bambini hanno dichiarato di avere avuto le mani legate durante gli interrogatori; il 92% hanno detto che avevano gli occhi bendati o che era stato messo loro un cappuccio nero; l'81% hanno detto di essere stati forzati a confessare;69% hanno detto di essere stati picchiati e di aver ricevuto dei calci; il 65% che erano stati arrestati tra la mezzanotte e le 4 del mattino; il 50% di essere stati insultati; il 49% che erano stati minacciati o avevano tentato di persuaderli; il 32% sono stati obbligati a firmare delle confessioni scritte in ebraico, lingua che essi non comprendevano; il 26% hanno detto che erano stati obbligati a restare in una posizione assai penosa; il 14% hanno detto di essere stati tenuti in isolamento; il 12% sono stati minacciati di abusi sessuali;
E il 4% è stato vittima di abusi sessuali, come quello di stringere loro i testicoli fino alla confessione o di minacciare dei bambini di 13 anni di stupro se avessero rifiutato di confessare «di aver lanciato pietre sulle auto dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata». Nel maggio 2010, Defence for Children International ha chiesto al Rapporteur speciale dell’ONU sulla tortura di aprire un’inchiesta su 14 casi di abusi sessuali dei quali avevano avuto conoscenza e che erano stati commessi da soldati, investigatori e poliziotti dal gennaio 2009 ad aprile 2010. I bambini vittime di questi abusi avevano da 13 a 16 anni ed erano stati arrestati per aver lanciato pietre che non avevano ferito nessuno.

mercoledì 3 novembre 2010

“Il gene umano non si può brevettare"

La Repubblica 31.10.10
“Il gene umano non si può brevettare"
L´annuncio del Dipartimento di giustizia Usa. Insorgono le aziende biotech
"Non invenzioni ma patrimonio dell´umanità" Ma già piovono i ricorsi
di Angelo Aquaro

NEW YORK - Quei gran geni del Dipartimento di giustizia americana si sono accorti dopo decine di anni e 40mila brevetti concessi che i geni dell´uomo non sono brevettabili. Per il mondo delle biotecnologie è una rivoluzione che fa esultare i propugnatori del brevetto libero e gridare allo scandalo le grandi compagnie che nella ricerca genetica a scopo di lucro hanno speso milioni di dollari. Adesso toccherà all´Ufficio brevetti federale decidere se accogliere o meno la decisione del ministero. Presa seguendo la procedura dell´amicus brief: che in giurisprudenza è l´intervento di una corte super partes cioè non chiamata direttamente in causa. La lite infatti è quella tra due non profit - l´American Civil Liberties Union e la Public Patent Foundation - e quella Myriad Genetics che con l´Università dell´Utah ha brevettato due geni chiamati BRCA1 e BRAC2. L´obiettivo della compagnia e dei ricercatori è scoprire se questi geni predispongono al tumore alle ovaie e al seno. Ma per farlo hanno proprio bisogno di brevettare le due "scoperte"? Un tribunale ha già decretato di no ma Myriad si è appellata e la causa continua.
Dice però adesso il documento del ministero Usa che «la struttura chimica dei geni umani è un prodotto della natura»: i geni non sono "invenzioni" e dovrebbero quindi essere patrimonio dell´umanità intera. I propugnatori del brevetto non ci stanno: i geni isolati dal corpo sono strutture chimiche differenti da quelle che si trovano nel corpo e quindi si possono brevettare. Ma gli esperti del governo ri-ribattono: anche quando la struttura è "isolata" dal suo ambiente naturale resta prodotto della natura. Né più né meno «delle fibre di cotone che vengono separate dai semi del cotone. O del carbone che viene estratto dalla terra».
Detto così sembra lapalissiano. Ma il New York Times che ha svelato la decisione del ministero il professor James Evans dell´Università della Carolina del Nord parla di «tappa importante: una linea tracciata nella sabbia». Le sabbie però sono mobili per definizione e il pressing delle grandi compagnie sull´Ufficio brevetti è appena cominciato.
Il venti per cento del genoma umano è già stato brevettato. L´iniziativa più nota è quella dell´Human Genome Project lanciato proprio dal governo degli Stati Uniti negli Anni ‘90 che però è stato subito surclassato dagli sforzi privati della Celera di Craig Venter. Proprio nei giorni scorsi la creatura dello scienziato-imprenditore ha fatto registrare un boom del 30 per cento dei guadagni e il business delle biotecnologie è uno dei più floridi del momento passato praticamente indenne attraverso la recessione.
Il ministero della giustizia adesso riconosce che la decisione non solo è un vero e proprio cambio di rotta rispetto alla linea fin qui suggerita ma contrasta con la politica di altre strutture pubbliche: dall´Ufficio brevetti fino addirittura al National Institute of Heath che negli ultimi anni ha chiesto e ottenuto direttamente brevetti per l´isolamento del Dna. Ma gli esperti della giustizia sostengono che l´impatto sull´industria biotecnologica non sarebbe così grave: le manipolazioni del Dna - tipo quelle usate per creare i transgenici o particolari terapie genetiche - possono continuare a essere brevettate perché appunto «prodotte dell´ingegno dell´uomo». Sempre che la linea tracciata nella sabbia non si sposti ancora un po´.

sabato 4 settembre 2010

Tutti i Paesi dove si uccide con la lapidazione

l’Unità 4.9.10
L’orrore non solo in Iran
Tutti i Paesi dove si uccide con la lapidazione
La lista nera di Amnesty: dall’Arabia Saudita al Pakistan, dal Sudan al Bangladesh pietre scagliate contro i condannati alla pena di morte
di Umberto De Giovannangeli

Non solo Sakineh. Non solo Iran. Il caso di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana tuttora a rischio di lapidazione per adulterio, ha riportato l'attenzione su questa pratica barbara, illegale e crudele. Amnesty International ha tracciato la «mappa dell'orrore»: quella dei Paesi in cui continua a vigere questa orrenda pratica di morte. Esecuzioni di sentenze giudiziarie alla lapidazione, negli ultimi anni, sono state riferite solo dall'Iran. Nonostante le autorità avessero annunciato una moratoria nel 2002, quattro anni dopo sono state lapidate almeno sei persone. Una morte atroce, quella per lapidazione, regolata dagli Articoli 102 e 104 del Codice penale iraniano: «La donna deve essere seppellita in piedi sino al seno. Le pietre con le quali deve essere colpita alla testa non devono essere né troppo grandi, perché la ucciderebbero subito, nè troppo piccole». Una pena che ha lo scopo di infliggere dolore e una lenta sofferenza, sino alla morte. Ci sono al momento 11 detenuti in Iran che rischiano la lapidazione come Sakineh, denuncia Amnesty, che ricorda come in Iran gruppi di attivisti per i diritti umani si stanno battendo da anni per l’abolizione della lapidazione. Per Azadeh Kian Thiebaut, specialista della società iraniana al « Centre national de la recherche scientifique (Cnrs, la più grande organizzazione di ricerca pubblica in Francia «le donne molto spesso sono di più punite poiché i giudici ritengono che andando contro la legge, appannino l’immagine di purezza della donna musulmana». Di fronte all’adulterio, la popolazione femminile è particolarmente fragile. Se il marito può invocare il matrimonio temporaneo, che gli permette di contrarre una relazione “ufficiale” che può andare da alcuni minuti a 99 anni con qualsiasi donna, la coniuge accusata d’adulterio finirà sotto la frusta del giudice oppure al peggiore dei casi all’uncino di una gru. Poiché in Iran, l’inesattezza è un crimine suscettibile della pena di morte».
Il rapporto di Amnesty International (AI) «Basta alle esecuzioni tramite lapidazione», fornisce un ampio quadro della legislazione e delle procedure relativi a questa pena. La lapidazione resta in vigore, come sanzione penale, in diversi Paesi o regioni di Paesi, tra cui, oltre all'Iran, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Nigeria, il Pakistan, il Sudan, lo Yemen, il Bangladesh. Nella provincia di Aceh, Indonesia, la pena della lapidazione è stata introdotta nel 2009. Lapidazioni vengono eseguite anche da attori non statali. Amnesty non riesce a tenere una traccia completa di tutte le lapidazioni, ma riceve molte notizie, in particolare dalla Somalia. Dalla caduta dei talebani in Afghanistan, pare che le lapidazioni siano avvenute assai raramente, ma AI ha potuto confermare che una coppia è stata uccisa a colpi
di pietre il 15 agosto 2010 nel nord del paese, su ordine di un comitato locale di talebani che hanno assunto il controllo della zona. Notizie non confermate di una lapidazione per adulterio in Afghanistan risalgono al 2005, e sarebbe avvenuta su ordine di uomini di religione locali, non dei talebani. Un gruppo alleato coi talebani del Pakistan, Lashkar e-Islam, avrebbe eseguito una lapidazione in pubblico nel 2007, nel nordovest del Paese.
Orrori da non dimenticare. Una storia tragicamente esemplare.
Aisha Ibrahim Duhulow aveva 13 anni. E stata il 27 ottobre 2008 da un gruppo di 50 uomini che l'ha lapidata a morte. L'esecuzione è avvenuta all' interno di uno stadio della città meridionale di Chisimaio, in Somalia, di fronte a un migliaio di spettatori. Aisha Ibrahim Duhulow era arrivata a Chisimaio tre mesi fa, proveniente dal campo profughi di Hagardeer, in Kenya.
Nella città portuale somala, Aisha Ibrahim Duhulow era stata stuprata da tre uomini e si era rivolta ai miliziani di “al Shabab”, che controllano la zona, per ottenere giustizia. La sua denuncia aveva ottenuto come risultato l'arresto, l'accusa di adulterio e la lapidazione. Nessuno dei tre stupratori è stato arrestato. Un uomo, che si è qualificato come lo sceicco Hayakalah, ha dichiarato a Radio Shabelle, un'emittente somala: «Lei stessa ha fornito le prove, ha confessato ufficialmente la sua colpevolezza e ci ha detto che era contenta di andare incontro alla punizione della legge islamica».
Secondo i testimoni oculari raggiunti da Amnesty International, invece, Aisha Ibrahim Duhulow ha lottato contro i suoi carnefici ed è stata trascinata a forza nello stadio. Qui la ragazza è stata interrata e i 50 uomini addetti all'esecuzione hanno iniziato a colpirla, usando le pietre appena scaricate da un camion. A un certo punto, è stato chiesto ad alcune infermiere di verificare se la ragazza fosse ancora viva; fatto ciò, la lapidazione è ripresa fino alla morte della bambina.
Sono le donne – rimarca AI ad essere più di frequente condannate a morire per lapidazione, spesso a causa del diverso trattamento che subiscono davanti alla legge e nei tribunali, in aperta violazione degli standard internazionali sul giusto processo. Sono in particolar modo vittime di processi iniqui perché meno istruite rispetto agli uomini e per questo motivo indotte più facilmente a firmare confessioni di crimini mai commessi. Inoltre, la discriminazione cui vanno incontro in altri aspetti della loro vita fa sì che siano più soggette a condanne a morte per adulterio. «La morte per lapidazione – sottolinea ancora Amnesty International – rappresenta l'estrema forma di tortura, la più crudele, inumana e degradante, bandita sia dal patto internazionale per i diritti civili e politici che vieta la pena di morte per reati lievi, sottoscritto da quasi tutti i Paesi, sia in base alla Convenzione contro la tortura».
Durante il regime dei talebani in Afghanistan vi sono state molte lapidazioni in pubblico. Prima della guerra in Afghanistan i governi si erano opposti a pratiche quali la lapidazione, il taglio della mano e la flagellazione pubblica, e si riteneva ormai che fossero eventi che accadevano raramente in qualche zona rurale. Durante l’occupazione sovietica alcuni gruppi armati di Mujahedin incoraggiarono l’applicazione sommaria di queste forme di punizione ritenute «islamiche». Nel 1993, ad esempio, a Sarobi, vicino a Jalalabad, dopo 8 anni di assenza un comandante militare rientrò nel suo paese alla testa della milizia Hezb-e Islami e trovò che la moglie si era risposata credendolo morto; ordinò quindi ai suoi uomini di lapidare la donna in pubblico. Sotto i Talebani vi fu un ulteriore aumento dell’uso di queste pene. Ad esempio nel marzo del 1997 la radio talebana Voce della Shari’ia informò che nella provincia di Laghman era stata lapidata un’adultera. Si ha anche notizia di una variante della lapidazione per gli uomini ritenuti colpevoli di «sodomia»: venivano sepolti sotto un muro fatto crollare sopra di loro. Ad esempio nel 1998 a Kotal Morcha, a nord di Kandahar un carro armato fu usato di fronte a migliaia di persone per far cadere un muro su tre uomini accusati di sodomia.
In Arabia Saudita Paese sostenuto dall’Occidente non c’è un vero e proprio codice penale, né un sistema giudiziario regolamentato. Gli imputati non hanno diritto ad un avvocato e i processi sono segreti e si basano esclusivamente sulla confessione, spesso estorta sotto tortura.
Gli imputati non vengono informati della condanna e non vi è possibilità di appello: nei casi capitali il loro dossier viene soltanto «riesaminato» dal Consiglio Giudiziario Supremo, i cui membri, nominati dal Re, sono ritenuti responsabili dell’applicazione della sharia. La pena consuetudinaria per l’adulterio è la morte tramite lapidazione.

giovedì 2 settembre 2010

Cellule da embrioni per curare pazienti ciechi o paralizzati. "Sarà una rivoluzione"

La Repubblica 31.8.10
Usa, staminali su cavie umane: via al primo test
Cellule da embrioni per curare pazienti ciechi o paralizzati. "Sarà una rivoluzione"
L´esperimento della Geron su una ventina di malati nonostante lo stop dei fondi pubblici
di Angelo Aquaro

NEW YORK - Christopher Goodrich diventò quasi cieco a 7 anni e adesso che ne ha 55 già assapora il miracolo. «Solo il pensiero di poter riguadagnare la vista, poter correre in bicicletta e rivedere la luna è fantastico», dice questo signore di Portland, Oregon, che ha deciso di accorciare la distanza tra l´uomo e Dio: sulla propria pelle.
Per la prima volta nella storia una clinica degli Stati Uniti testerà la terapia con le cellule staminali su alcune cavie umane. Su uomini come Christopher affetti dal morbo di Stargardt, una malattia degenerativa che provoca la cecità. Su uomini come quei 10 pazienti paralizzati da un cedimento della spina dorsale. «Siamo più che ottimisti» dice al Washington Post Thomas B. Okarma della Geron, l´azienda californiana che il mese scorso ha ricevuto dal governo l´ok per la sperimentazione e che nel giro di una o due settimane darà il via ai test. «Se abbiamo visto giusto, rivoluzioneremo la cura di molte malattie croniche».
L´ora dei miracoli scocca in un momento delicatissimo per la ricerca. La settimana scorsa una corte federale ha bocciato le direttive con cui Barack Obama aveva autorizzato gli esperimenti con gli embrioni dopo gli stop dell´era di George W. Bush. Non è un caso che la Geron sia un´azienda privata: la sentenza ha bloccato tutte le sperimentazioni che ricevevano un aiuto pubblico, sostenendo che la riforma infrange il divieto del Congresso di sovvenzionare ricerche che comportano la distruzione di embrioni. La questione è nota: per ottenere le cellule si uccidono gli embrioni e quindi - dicono tanti cristiani - si uccide una vita potenziale. L´amministrazione ha già annunciato che ricorrerà: ma intanto il capo del Consiglio nazionale della Salute, Francis Collins, ha dovuto mandare una e-mail agli scienziati americani per stoppare le iniziative con gli aiuti pubblici.
La Geron è privata, e poi il via libera era già arrivato: così gli esperimenti cominceranno nei prossimi giorni. A una decina di pazienti saranno iniettati fino a 2 milioni di staminali, tecnicamente delle cellule progenitrici di oligodendrociti, destinate a formare una specie di "calotta" intorno alla spina dorsale danneggiata. E presto potrebbe arrivare il verde della Fda anche per la Advanced Cell Technology, altra azienda californiana che spera di ridare la vista iniettando dalle 50 alle 200mila cellule negli occhi di 12 pazienti come Christopher, che progressivamente sostituire quelle degenerate.
Sia nel primo sia nel secondo caso, gli esperimenti sui topi hanno già dato esito positivo. Ma il via ai test sta già provocando polemiche: non solo etiche. Come si comporteranno le staminali iniettate nel nostro corpo? «C´è il rischio di impiantare cellule che possono causare tumori» dice Johan Gearhart dell´università di Pennsylvania. Che fare? Forse ha ragione Hank Greely, bioetico di Stanford: «Se crediamo che funzionano, qualcuno dovrà pure essere il primo a testarle». Per i malati come Christopher, l´unica cosa che conta.

lunedì 5 luglio 2010

«I PALESTINESI? TABÙ PER NOI PROF AI TEL AVIV» COHEN, PRESIDE, SPIEGA I TERRITORI OCCUPATI AI SUOI RAGAZZI. LA KNESSET: «LICENZIAMOLO»

«I PALESTINESI? TABÙ PER NOI PROF AI TEL AVIV» COHEN, PRESIDE, SPIEGA I TERRITORI OCCUPATI AI SUOI RAGAZZI. LA KNESSET: «LICENZIAMOLO»

Il Secolo XIX del 5 luglio 2010

Ilaria De Bonis

«I miei ragazzi devono esser consapevoli del fatto che è in corso un'occupazione militare. Che ci sono i checkpoint e il muro di separazione in Cisgiordania. Strade e infrastrutture accessibili solo agli ebrei israeliani. E mio dovere parlarne e questo non significa che sto facendo politica ma che parlo di diritti umani». Ram Cohen, israeliano, 43 anni, da nove preside del Tichon IroniAlef, un noto istituto d'Arte di Tel
Aviv, è finito su tutti i giornali quest'anno per via delle sue posizioni "sovversive". Rischiando il licenziamento. Cohen parla pacatamente, senza enfatizzare, racconta di aver dovuto affrontare un'audizione parlamentare alla Knesset, chiamato dai deputati di destra, il 21 giugno scorso. Accusato di aver parlato troppo, di aver eliminato qualche tabù mettendo gli studenti di fronte ad una realtà non edulcorata.
Lei si e espresso contro l'occupazione, le colonie e i check point. Ma erano cose veramente così nuove per i suoi studenti?
«Sì, certo. I ragazzi non sanno cosa c'è dall'altra parte. Era l'inizio dell'anno accademico e ho deciso di tenere il mio discorso d'apertura in modo diverso dal solito, davanti agli studenti dell'ultimo anno. Ho parlato dei palestinesi. Ho detto ai ragazzi di non essere apatici, di prendere una posizione, qualunque essa sia. I più giovani non sanno neanche come sono fatti i palestinesi, hanno paura di loro. Non sono mai stati neanche a Gerusalemme est o nelle colonie. Sviluppano posizioni contrarie ai due stati per due popoli».
Che responsabilità ha in questo, secondo lei, l'informazione israeliana?
«Anche i mass media sono confusi. Non sanno se chiamarla occupazione, non sanno se parlare di territori palestinesi. Ad esempio non parlano di West Bank ma di Giudea e Samaria. Usano nomi neutrali».
Dei coloni che cosa pensa? «Credo che stiano facendo un grosso errore, ma non li odio: fanno parte del mio Paese. Però mettono a rischio sia me che il mio Paese».
Di che cosa ha paura la destra? Che lei racconti la verità ai giovani? «Uno dei timori è che io possa spingerli a rifiutare il servizio militare, che qui è obbligatorio. Temono che i miei discorsi contro l'occupazione, possano allontanarli dall'esercito. La nostra è una scuola tra le più aperte! I genitori sono giornalisti, artisti, molti scrivono per Haaretz, il quotidiano di sinistra. Eppure gli studenti non hanno coscienza politica e questo è grave».
Lei nei Territori palestinesi c'e mai stato? «Sì, ed è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. A metà dell'anno accademico ho partecipato ad un tour in Cisgiordania, organizzato da una Ong di donne israeliane. Non ho portato gli studenti, perché mi sembrava prematuro, sono andato con altri insegnanti. E il giorno dopo era sui giornali. Hanno detto che avevo oltrepassato il limite e che dovevo essere licenziato. Il dibattito a quel punto era: un educatore ha il diritto di dire quel che pensa? Dove finisce la libertà di espressione per un insegnante? Ed è stato anche l'argomento dell'audizione alla Knesset».
Che cosa e successo in Parlamento? «A maggio ho cercato di organizzare un altro tour nei Territori Palestinesi ma la sera prima ho ricevuto una telefonata. Diceva chiaramente che sarei saltato. I membri della destra della Knesset volevano licenziarmi. Allora ho cancellato il tour e poi mi hanno chiamato per incontrare pubblicamente il ministro dell'istruzione».
Quale verdetto ha ricevuto dalla commissione parlamentare? «Nessuno. Si è aperto un dibattito. I parlamentari avevano posizioni diverse: alcuni chiedevano "che occupazione c'è?" Se pensi che ci sia un'occupazione in corso vai alla corte suprema e lamentati. Altri ritenevano che fossi contro il mio paese. Alcuni che volessi spingere i ragazzi a non fare il militare, altri cercavano solo di capire. La sinistra mi ha protetto e ha parlato della libertà di espressione e si sono opposti all'idea che non siamo degli occupanti. Sono stato stupito del ministro dell'istruzione: mi ha difeso nonostante sia di destra».
Professore, lei contesta il suo Stato? «No, non sono contro il mio paese, non sono un sovversivo. Questo ho cercato di far capire. Io voglio stare e lavorare in Israele».
Come si comporterà adesso con i suoi studenti? «Adesso mi sento stanco. Non è facile essere al centro di un ciclone. Attaccati da persone che pensano che tu non faccia bene il tuo lavoro o che quello che fai non è il tuo lavoro. Non è facile proteggersi... Sono veramente stanco. Il prossimo anno penserò ancora al mio diritto di dire ai ragazzi di essere consapevoli di quello che succede. Organizzerò un altro tour alternativo. Perché mi dovrei nascondere? Ma al momento per me è importante conservare il lavoro e lo stipendio».

giovedì 1 luglio 2010

"FAMIGLIA SVALUTATA" L'IRA DEL CARDINALE CONTRO LE UNIONI CIVILI

"FAMIGLIA SVALUTATA" L'IRA DEL CARDINALE CONTRO LE UNIONI CIVILI

La stampa, del 1 luglio 2010

Andrea Rossi

Dicono che quando si è diffusa la voce che l'emendamento Genisio -via l'espressione «pari opportunità» dalla delibera sulle unioni civili- fosse stato in qualche modo suggerito dalla Curia, il cardinale Severino Poletto non l'abbia presa bene. E quando l'altra sera il Consiglio comunale, con il voto favorevole anche dei cattolici del Pd, ha approvato la delibera l'arcivescovo abbia deciso che la misura era colma. In Curia si sono presi due giorni di tempo per riflettere, calibrare parole ed espressioni. Poi hanno emesso una nota durissima, che non porta la firma del cardinale ma ne rispecchia il pensiero. In via Arcivescovado si dicono «amareggiati e perplessi». La delibera sulle unioni civili «va nella direzione di azioni tendenti a svalutare l'istituto della famiglia», è scritto nel documento. «Si enfatizzano vincoli alternativi», cosa che potrebbe indurre una «mentalità libertaria dove ognuno vorrebbe che ogni scelta di vita ottenesse comunque una legittimazione di copertura giuridica». Si parla di scelta «ideologica», in controtendenza con quanto servirebbe a un Paese in «grave crisi demografica» e con poche leggi «a favore della famiglia», che andrebbe invece sostenuta «nella sua stabilità già fin troppo vacillante». Non manca una stoccata al sindaco. Chiamparino non viene mai citato, ma il riferimento alle sue parole di martedì - «il nostro è un segnale forte nei confronti del Parlamento, l'Italia ci segua» - è chiaro: «Qualcuno ha salutato la delibera come un traguardo di civiltà da accogliere con orgoglio, quasi che Torino debba presentarsi come campione che fa da apripista per una battaglia iniziata da anni e finalizzata a emarginare passo dopo passo il nucleo essenziale della società qual è la famiglia fondata sul matrimonio». In serata, da Roma, Chiamparino prende carta e penna e risponde. Toni cauti, ma non cede di un millimetro. Cerca però di gettare acqua sul fuoco ed evitare lo scontro aperto con la Curia: «Non è un mistero che sul tema delle coppie di fatto ci sia una divergenza di opinioni. Tuttavia non è fondata la preoccupazione secondo cui l'istituto della famiglia verrebbe svalutato. Quello approvato dal consiglio comunale è infatti un percorso del tutto parallelo che non si confonde con i valori della famiglia». Il sindaco si fa forte del voto incassato sul provvedimento da «autorevoli esponenti del mondo cattolico». Gli stessi che lanciano segnali di preoccupazione: nessuna marcia indietro, solo il timore che si enfatizzi - a cominciare proprio dal sindaco - il ruolo di Torino come città apripista. Quadro che fa dire a Domenica Genisio che «Chiamparino ha un po' esagerato. Non abbiamo innovato proprio niente». Il disagio è palpabile. Le bordate del centrodestra erano state messe in conto. Meno quelle del cardinale. E ora hanno buon gioco i cattolici da sempre contrari alla delibera, a cominciare dagli assessori all'Anagrafe Ferraris e al Welfare Borgione. «È un provvedimento inutile, funzionale solo a sostenere che a Torino c'è una discriminazione verso chi non è sposato, cosa del tutto falsa», sostiene Olmeo dell'Api.

mercoledì 30 giugno 2010

Dal Borromini ai suini gli affari improbabili della Beni culturali Spa - Arcus e Ales: centinaia di milioni spesi "in deroga"

Dal Borromini ai suini gli affari improbabili della Beni culturali Spa - Arcus e Ales: centinaia di milioni spesi "in deroga"
ALBERTO STATERA
DOMENICA, 27 GIUGNO 2010 LA REPUBBLICA - Cronaca
L´inchiesta

Fondi per 500 mila euro alla Fondazione Pianura Bresciana per un convegno sulle cinque razze di maiali

Le bietole aleggiano nel ministero di via del Collegio Romano. Resca vuole produrre energia alternativa dalle rape


Dal Borromini ai suini. Dai suini alle bietole. Che male c´è? La «Beni Culturali Spa» non si formalizza tra siti storici, musei, opere d´arte, statue, dipinti, archeologia e porcilaie. E persino campi di bietole per produrre agroenergia, nuova passione del direttore dei Musei Mario Resca. Attraverso le sorelline culturali Arcus Spa e Ales Spa, società pubbliche ma di diritto privato, si tratta di spendere centinaia di milioni di denaro pubblico in deroga, senza controlli di legittimità del Parlamento e della Corte dei Conti, in ossequio alla religione berlusconiana del fare e fare in fretta. Fare che? Soprattutto fare affari.

Come nel modello Protezione Civile Letta-Bertolaso. E come in quello dell´ex ministro Pietro Lunardi, che pare si sia portato via un palazzo nel centro di Roma a un quarto del suo prezzo, complice l´eccellente dominus vaticano Crescenzio Sepe, cardinale nella manica di Papa Wojtyla, ma esiliato subitaneamente a Napoli da Papa Ratzinger.

Per merito degli antichi predecessori Gregorio XV e Innocenzo X, fu il Borromini verso il secondo decennio del 1600 a disegnare la facciata del palazzo di Propaganda Fide a Roma in piazza di Spagna, la cui ristrutturazione a spese dell´Arcus, secondo i magistrati di Perugia avrebbe prodotto per riconoscenza la proprietà di un palazzetto vista Montecitorio all´ex ministro Lunardi, detto El Talpa per la sindrome incontrollabile che ha di progettare, ben retribuito con denaro pubblico, tunnel ferroviari e autostradali in tutta Italia, attraverso le sue società di famiglia. Non si sa bene invece chi fu a mettere in campo i suini, che pure hanno la loro indubitabile valenza culturale. Infatti la società di diritto privato Arcus, posseduta dal Tesoro italiano e controllata dai Beni Culturali, ha finanziato per 500 mila euro la Fondazione Pianura Bresciana per un risolutivo convegno sulle cinque razze autoctone di maiali. Cinque le razze suine? Forse sono anche di più. Ma accontentiamoci e rendiamo grazia al generoso ministero dei Beni Culturali.

Un deputato dell´opposizione, Vincenzo Vita, ha provato a chiedere conto del singolare finanziamento culturale, tra i tanti, al governo. Ma, come al solito, nessuno se lo è filato. La cultura è cultura, mica vorremo imbrigliarla in una storia di maiali. Così come sacrosanti sono i milioni distribuiti al Santuario della Madonna di Pompei, alle monache Clarisse di Santa Rosa, alla Fondazione Aquileia. O all´Università di Padova, dove opera, superba scienziata, la dottoressa Ghedini.

Ghedini? Ghedini chi? Ma sì, è proprio lei, la sorella dall´avvocato onorevole del premier Niccolò Ghedini, l´ex giovane di studio che arrancava un po´ lento, come ricordano i suoi ex colleghi, nell´ufficio del principe del Foro di Padova Piero Longo e che oggi produce a getto continuo leggi dello Stato per conto del premier. Leggi che, con tutta la buone volontà, non passano neanche la prima prova di ragionevolezza e di costituzionalità. È lei, Elena Francesca Ghedini, archeologa, accreditata di scienza ben superiore a quella fraterna, ad assurgere a consigliere del ministro Bondi per le aree archeologiche, al Consiglio superiore dei Beni Culturali e ad ottenere fondi cospicui per le sue legittime esigenze di ricercatrice. Esaudita.

Arcus, fiore all´occhiello di quella che i vecchi funzionari esautorati dei Beni Culturali chiamano il braccio operativo della «Banda Bondi», ha una sorellina che si chiama Ales, che la prossima settimana, si impossesserà di fatto dei servizi museali, governando gli appalti per un business da 100 milioni l´anno, che le aziende operanti nel settore museale giudicano uno scippo. Di nascosto, con un emendamento al decreto sugli enti lirici, il governo ha abrogato la gestione integrata dei 190 musei, che avrebbe consentito l´accesso dei privati ai servizi e che ora lascia tutto nelle mani della Beni Culturali Spa, evoluzione della Protezione Civile Spa bloccata in extremis, pronta per intercettare «in deroga» anche i due miliardi e mezzo di euro di fondi europei per i beni e il turismo culturale.
Grande polmone finanziario dell´Italia berlusconiana del «fare», mondata da ogni controllo di legittimità, in onore di una suprema deroga appaltatrice, per teatri da ricostruire, zone archeologiche da ripulire, siti d´arte da salvare, monumenti da sbiancare, palazzi da ristrutturare, statue da rigenerare, quadri da restaurare, biblioteche da puntellare, musei da gestire, biglietterie, librerie, bar e ristoranti da affidare possibilmente agli amici e agli amici degli amici, la Beni Culturali Spa era pronta, con i buoni uffici di Gianni Letta, a un luminoso destino. Ma incalzato dalle inchieste sui fasti della coppia Lunardi - Sepe, il ministro Bondi, che al ministero impersona il ruolo del passante impegnato da par suo nella poesia e nell´esegesi poetica del Capo, ha bloccato i residui pagamenti per il palazzo di Propaganda Fide e ha appena nominato il nuovo presidente di Arcus. Gli innumerevoli rilievi della Corte dei Conti raccontano di spese per centinaia di milioni a pioggia, in modo opaco, in incarichi e consulenze clientelari e favori vari.

Quasi una scienza, ormai, certificata nella sua sofisticazione dalle gesta del cardinale Sepe e dall´ex ministro Lunardi. El Talpa ha cercato di difendersi con un´intervista - manifesto che dovrà restare nei libri di storia nei secoli dei secoli: «Che male c´è? », si è chiesto. Che male c´è per un uomo di Stato se, di questi tempi, favorisce se stesso e gli amici, approfittando del proprio potere pro tempore? Ma non speriate che le notizie un po´ nefande siano finite qui.

Dobbiamo riferirvi ancora delle bietole che, tra musei e razze suine, aleggiano quotidianamente nel ministero di via del Collegio Romano. Sì, perché il direttore generale del ministero Mario Resca, intimo di Berlusconi, ex amministratore delegato di Mc Donald´s Italia, santificato dal «Foglio» di Giuliano Ferrara in un ditirambo come un superbo benefattore dell´umanità, si è fissato che vuole produrre energia alternativa dalle bietole negli ex zuccherifici italiani. Ma non con i soldi suoi - cosa di cui gli sarebbero tutti grati - ma con quelli pubblici dei bieticoltori (centinaia di milioni, in gran parte fondi europei). I quali, alquanto incavolati, tramite la Coldiretti, spogliata surrettiziamente dei fondi Finbieticola, hanno appena fatto ricorso alla Corte dei Conti. I ricorrenti sperano di vedere presto il deus ex machina della cultura condannato, perché, al di là degli scopi istituzionali, sta distraendo nel progetto di agroenergia tanti soldi loro, in combutta con Giuseppe Grossi, re delle bonifiche ambientali, finito in carcere con l´accusa di aver triplicato i costi della bonifica milanese di Santa Giulia, e Giancarlo Abelli, re della sanità lombarda. In tandem con Resca nelle multiformi attività viene dato anche Salvo Nastasi, giovane capo di gabinetto della Banda Bondi al Collegio Romano e pluricommissario in deroga a teatri e musei. Piccoli potenti crescono.

venerdì 11 giugno 2010

Primo aborto farmacologico, la paziente firma e torna a casa

Primo aborto farmacologico, la paziente firma e torna a casa

Il Messaggero del 11 giugno 2010

Raffaella Troli

Tre giorni di ricovero. E solo negli ospedali che la Asp riterrà idonei, anche in base alla disponibilità di posti letto. La giunta regionale ha approvato un protocollo operativo sull’uso della pillola abortiva Ru486, il presidente Renata Polverini è stata chiara: «Noi da oggi mettiamo in campo i nostri strumenti e credo che le strutture si debbano adeguare». Come a dire: chi va per conto suo, non aspetta che la Regione elabori «un successivo provvedimento che individui le strutture migliori», come hanno fatto al Grassi di Ostia, «se ne assumerà le responsabilità, nel caso succeda qualcosa». «Altri direttori generali - ha rimarcato - hanno atteso la posizione della Regione. Non ci dimentichiamo che parliamo sempre di un aborto, non chirurgico ma chimico, e per questo dobbiamo far riferimento alla legge 194. A questo proposito sono molto carenti i consultori nel Lazio e per questo in consiglio regionale è già stata presentata una riforma, in modo da usarli anche per le donne che chiedono di abortire, magari le convinciamo a non farlo».
Intanto la donna che per prima ha fatto uso della pillola Ru486 nel Lazio si dice «sconcertata da tanto clamore rispetto a una decisione medica, oltre che un momento assolutamente privato. Non mi aspettavo un interesse simile, è la mia vita. Ho preso la decisione dopo essermi consultata con i medici». La donna, assunta la prima dose di Ru486, ha firmato la richiesta di dimissioni. Romana, sotto i 40 anni, è "costretta" a dare spiegazioni: «Non avevo scelta, era la quarta gravidanza, ho avuto tre cesarei». Dopo un’ora è andata via, dai figli che l’aspettavano a casa, ha detto ai medici. «Sabato il suo medico - spiega il direttore sanitario Lindo Zarelli - le prescriverà il farmaco Citotec per l’espulsione dell’embrione, da assumere sabato». Quanto alle critiche aggiunge: «Siamo stati strumentalizzati dalla politica. C’è chi l’ha fatto in un senso e chi nell’altro. La nostra è stata una decisione medica. La signora aveva avuto dei figli e subito interventi all’utero, il trattamento chirurgico sarebbe stato troppo pericoloso. Un caso dunque eccezionale dettato dalle condizioni cliniche. Per il resto ci siamo attenuti alla legge. I politici che stanno esprimendo giudizi farebbero bene, prima di spendere il nostro nome per una battaglia o per un’altra, a consultare almeno chi qui dentro fa il medico e non politica. Sono molto amareggiato».
Parla di «boicottaggio della pillola da parte della Polverini», Giulia Rodano, consigliere regionale di Italia dei valori;
consiglieri regionali della Lista Bonino Pannella-federalisti europei. «Un protocollo segno di equilibrio e decisione», invece per il vicepresidente dei consiglio regionale, Raffaele D’Ambrosio (Udc).
Piuttosto, Claudio Donadio, primario di Ginecologia del San Camillo rileva che «in questi ultimi giorni arrivano donne con strane minacce di aborto in atto, emorragie imponenti e sospette da Citotec, vuol dire che si è sparsa la voce e che qualcuno fuori dal sistema nazionale somministra pozioni fuori controllo. E’ una bomba che gira, ormai. Quanto a noi siamo pronti siamo pronti, abbiamo già riservato due posti letto. Ma non si puo obbligare qualcuno a restare, quello no». La paziente dovrà tornare in ospedale per la seconda somministrazione. Per Donadio è così, invece la signora di Ostia si avvarrà della prescrizione del medico, ha detto lo stesso Zarelli. C’è confusione, perché «sono decisioni prese in urgenza - così la pensa il direttore generale della Asl RmB, Fiori Degrassi credo che più avanti ci sarà una revisione, con serenità bisognerà capire come organizzare tutto al meglio. Una degenza così lunga per prendere due pillole mi sembra una follia ma risponde a quanto prevede la normativa della 194».
(ha collaborato Mara Azzarelli)

mercoledì 9 giugno 2010

«Macché sconfitti. Ora Gaza è sotto gli occhi del mondo»

l’Unità 9.6.10
Intervista a Mairead Corrigan-Maguire
«Macché sconfitti. Ora Gaza è sotto gli occhi del mondo»
Un «lento genocidio». Nulla può giustificare quel che avviene nella Striscia. Quanto a noi, siamo stati vittime di un «rapimento collettivo»
La premio Nobel: mi appello a Obama, faccia tutto quello che può per evitare la guerra. Noi non ci arrendiamo, ritorneremo con altre navi
di Umberto De Giovannangeli

L'avevamo vista a distanza. Con un binocolo. Mentre la Marina militare israeliana «scortava» la “Rachel Corrie” nel porto di Ashdod dopo averla abbordata a largo della Striscia di Gaza. Per qualche secondo eravamo riusciti a stabilire un contatto telefonico: «Stiamo bene, non ci siamo arresi, vogliono liberarsi di noi più in fretta possibile...», poi la linea era caduta. Ma non era «caduta» la determinazione che ha sempre caratterizzato la sua azione, la sua vita, da Belfast al Medio Oriente. Una sfida di libertà. Quella di Mairead Corrigan-Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976, una delle animatrici del «Free Gaza Movement». Ora che ha fatto rientro forzato a Dublino, riusciamo a ristabilire quel contatto interrotto ad Ashdod. Mairead è stanca, provata, ma non rinuncia ai mille impegni in agenda, ai quali strappa qualche minuto per l'Unità. «Voi dice avevate continuato a denunciare quel criminale embargo quando Gaza sembrava non fare più notizia..». Quando le chiediamo come definirebbe ciò che è accaduto a lei e agli attivisti della «Freedom Flotilla», Maguire non ha un attimo di esitazione: «Siamo stati vittime di un rapimento collettivo in acque internazionali. Quello che sta avvenendo a Gaza denuncia è un lento genocidio del popolo palestinese».
Qual è il sentimento prevalente dopo ciò che ha vissuto e subito a largo di Gaza? «Rabbia. Dolore. Indignazione. Ma anche orgoglio e fierezza per ciò che tutti assieme abbiamo portato avanti. Come vede, è un insieme di sensazioni forti, e non poteva essere altrimenti. Ricordo la nostra ultima conversazione: avevamo parlato di Gaza, della sofferenza della sua gente, di una punizione collettiva atroce, contraria a ogni codice etico, oltre che ad ogni norma del Diritto umanitario e alla quarta Convenzione di Ginevra, articolo 33. Ma le parole non bastano più. Occorre dimostrare una solidarietà concreta verso quel popolo. Abbiamo cercato di passare dalle parole ai fatti. Pagandone un prezzo atroce. Ma l'abbiamo fatto e lo rivendichiamo a testa alta...». C'è chi parla di voi della “Freedom Flotilla” come di “sconfitti”...
«Solo chi è imbevuto di una cultura militarista rafforzata da un'altra non meno deleteria cultura, quella dell'impunità, ed è abituato a pensare in termini di rapporti di forza può rivendicare quel crimine. È vero, non siamo riusciti nel nostro obiettivo primario, che era quello di far arrivare alla gente di Gaza gli aiuti umanitari. Quando siamo stati rapiti, perché di ciò si è trattato, dalla Marina israeliana e condotti a forza ad Ashdod, eravamo tristi per non aver raggiunto il nostro obiettivo e pieni di dolore per chi aveva perso la vita. Avevamo generato speranza nella gente di Gaza, la loro delusione era anche la nostra delusione...Ma poi, ci siamo detti che qualcosa d'importante era avvenuto: Gaza e il suo assedio che dura da tre anni erano tornati al centro dell'attenzione mondiale. Su quella prigione a cielo aperto e sui suoi carcerieri erano tornati ad accendersi i riflettori. Nessuno poteva e può dire ancora: non sapevo, non ho visto. Tutti sono chiamati a prendere posizione. E alla gente di
Gaza che ci aspettava per festeggiare, dico una cosa sola: ci riproveremo. Presto». E ai Grandi della Terra cosa si sente di dire, quale appello lancia? «L'embargo non è solo un crimine contro l'umanità. È anche la via per trascinare l'intero Medio Oriente in una nuova, devastante guerra. È tempo di agire. In particolare mi sento di rivolgere un appello al presidente Obama, con cui ho l'onore di condividere un Premio che è anche un impegno di vita: il Nobel per la Pace. Al presidente Obama chiedo di di fare tutto quello che è in suo potere, ed e molto, perché sia posto fine all'assedio per terra, mare ed aria di Gaza. La forza non crea giustizia, non rende più sicuri, ma alimenta solo desiderio di vendetta. È ciò che Israele dovrebbe capire».
Israele continua ad opporsi ad una commissione d'inchiesta internazionale che faccia luce sul blitz sanguinoso contro la “Mava Marmaris”...
«Le autorità israeliane continuano a sentirsi al di sopra della legalità internazionale. Un atteggiamento che dura da troppo tempo. Se ciò è avvenuto è per le coperture internazionali su cui Israele ha potuto contare. Legalità e Giustizia sono parole che devono ritrovare un senso là dove sono state calpestate: a Gaza».
Israele giustifica il blocco di Gaza come difesa da Hamas... «Hamas ha vinto elezioni democratiche nel 2006 e da quel momento è iniziata la politica draconiana di Israele. Resta il fatto che non c'è diritto di difesa che possa minimamente giustificare il lento genocidio del popolo palestinese che si sta consumando a Gaza».
Sullo sfondo sentiamo le voci degli assistenti che richiamano Mairead Maguire ai suoi impegni. Il tempo di un saluto. E di una promessa: «La prossima volta dice la Nobel irlandese ci vedremo a Gaza. Per festeggiare la fine dell'embargo».

martedì 8 giugno 2010

Tav, il manifesto dei comitati: fermate il tunnel

Tav, il manifesto dei comitati: fermate il tunnel
SIMONA POLI
LUNEDÌ, 07 GIUGNO 2010 LA REPUBBLICA - Firenze

La richiesta alla Regione in un documento votato dall´assise della Rete di Asor Rosa

Passare in superficie si può e si deve. E non è vero che sull´Alta velocità a Firenze ormai non si possa più tornare indietro. Il presidente Rossi non ha solo una strada davanti a sé, con chi ha idee diverse parli e discuta prima di confermare decisioni prese ad altri. Il progetto di scavo può ancora essere scongiurato, si impongono scelte diverse e i cittadini hanno il sacrosanto diritto di essere consultati, come sostiene anche l´assessore all´Urbanistica Marson. E´ questa la posizione unitaria della Rete toscana dei Comitati, riunita in conferenza in questi giorni sotto la guida di Alberto Asor Rosa, che all´unanimità ha votato un documento che boccia senza se e senza ma l´ipotesi del sottoattraversamento ferroviario di Firenze. «Siamo convinti della validità dell´alternativa di superficie, indicata da molti dei tecnici e degli accademici che hanno studiato l´impatto del tunnel e che collaborano da sempre con la Rete», sostiene Asor Rosa. «Condividiamo le loro valutazioni sulla pericolosità dell´opera e sulla possibilità di un potenziamento delle linee di superficie con un risparmio sensibile da un punto di vista economico e nei tempi di realizzazione. Il testo approvato nella Conferenza il 5 giugno chiede che siano fermati i lavori di cantierizzazione dell´opera anche in considerazione della totale mancanza di valutazione d´impatto ambientale del progetto di stazione firmato da Foster. Chiediamo anche», aggiunge Asor Rosa, «che sia avviato un serio confronto con i cittadini, realmente partecipato». D´accordissimo, ovviamente, Ornella De Zordo, paladina del passaggio in superficie: «Tutte le realtà attive in Toscana per la difesa del territorio hanno sostenuto le ragioni di chi a Firenze lotta contro lo scempio urbanistico, geologico e del bilancio dello stato opponendosi alla realizzazione del sottoattraversamento dell´Alta velocità», dice a nome di Perunaltracittà. «C´è una piena e condivisa consapevolezza sull´esistenza di studi realizzati da tecnici volontari e dell´Università di Firenze che mettono a nudo i rischi dell´operazione in sotterranea».
La posizione della Rete rinfocola le speranze del Comitato fiorentino contro il sottoattraversamento, che da tempo chiede di aprire un confronto con la Regione e di informare meglio e in modo corretto i cittadini. Uno degli argomenti forti di chi si oppone al tunnel è stato oggetto anche della relazione della professoressa Maria Rosa Vittadini, che durante la conferenza ha parlato di una crisi profonda della politica e della democrazia, evidenziata dal fatto che le infrastrutture pubbliche ormai non vengano più decise a livello politico ma siano diventate «appannaggio esclusivo dei comitati di affari economico-politico». Intanto il Comitato Ex Panificio Militare organizza per giovedì 10 giugno alle 21 un´assemblea pubblica ospitata dalla parrocchia dell´Ascensione, in via da Empoli. Il tema è, nuovamente, il sottoattraversamento.

lunedì 7 giugno 2010

Viaggio nell’Israele dei pacifisti minacciati dai falchi

l’Unità 7.5.10
Viaggio nell’Israele dei pacifisti minacciati dai falchi
A Tel Aviv più di diecimila in piazza Rabin per dire no al blitz militare e chiedere giustizia per i palestinesi di Gaza. Il leader storico Ury Avnery circondato da un gruppo di ultrà. Sternhell: «È un campanello d’allarme»
di Umberto De GIovannangeli

L'altra Israele scende in piazza in nome della verità e della giustizia. Verità sugli attacchi alla «Freedom Flotilla». Giustizia per la popolazione di Gaza sfiancata da tre anni di embargo. Scende in piazza, l'altra Israele. E lo ha fatto in una piazza dedicata al generale, Yitzhak Rabin, che osò la pace con l'Olp di Yasser Arafat e per questo fu assassinato da un giovane zelota dell'ultradestra ebraica. Alza la testa, l'altra Israele. E per questo subisce l'aggressione dei fanatici di «Eretz Israel». È accaduto l'altra notte, a Tel Aviv. In migliaia, più di diecimila, si erano radunati in Piazza Rabin per protestare contro l'occupazione dei Territori palestinesi e contro il blitz israeliano sulla nave turca Mavi Marmara, mentre era diretta a Gaza con aiuti umanitari . Una bella manifestazione, una delle più significative tra quelle organizzate dal variegato arcipelago della sinistra pacifista israeliana, con una adesione di movimenti disparati, da Gush Shalom (Pace Adesso), fino al partito comunista arabo-ebraico Hadash.
Quella protesta suonava come una provocazione per i gruppi oltranzisti israeliani. Le invettive non bastano più. Occorre passare all'intimidazione fisica. Quei pacifisti vanno trattati come traditori. E i «giustizieri» provano a prendersela con un uomo di 87 anni. Il simbolo di un pacifismo irriducibile: Uri Avnery. I dimostranti di destra, racconta Avnery, hanno cercato di disturbare i comizi e qualcuno ha anche lanciato nella folla un candelotto fumogeno. «Forse quel qualcuno sperava di creare panico, ma la nostra reazione è stata compassata», aggiunge Avnery che si trovava, con la moglie, a due metri di distanza. «Al termine della manifestazione, mentre accompagnato da un paio di amici e da mia moglie attraversavo la centrale via Ibn Gvirol per salire in macchina – denuncia il leader pacifista siamo stati circondati da una decina di persone ben organizzate». «Hanno cercato a forza di impedirmi di entrare nella macchina, mentre ci gridavano: “Andate a Gaza, maniaci». Avnery ha avuto la sensazione che presto sarebbero passati anche alla violenza fisica, ma l'intervento tempestivo della polizia lo ha salvato.
«Quando alla Knesset si grida “vattene a Gaza” ad una parlamentare araba israeliana, quando lo stesso veleno dal Parlamento si sparge nelle piazze, allora vuol dire che qualcosa di molto grave sta avvenendo dentro la società israeliana e nelle sue istituzioni», dice a l'Unità Yossi Sarid, fondatore del Meretz (la sinistra sionista), più volte ministro e oggi editorialista di punta del quotidiano Haaretz.
«La cosa più grave è che questi fanatici trovano coperture e giustificazioni tra le forze che oggi governano il Paese. E sapere di essere protetti li rende ancora più aggressivi e pericolosi», aggiunge Yael Dayan, scrittrice, già deputata laburista, figlia dell'eroe della Guerra dei sei giorni: il generale Moshe Dayan. Il clima è pesante. Chi non si adegua viene tacciato di essere una quinta colonna di Hamas nello Stato ebraico. «Questa caccia al pacifista è un campanello d'allarme per tutti coloro, non importa se di sinistra, centro o destra, in Israele hanno a cuore la democrazia», ci dice Zeev Sternhell, lo storico che per aver denunciato la violenza dei coloni è rimasto vittima di un attentato (25 settembre 2008. In questo quadro, incalza Uri Avnery, «il compito della sinistra israeliana in questa fase è di lottare contro il lavaggio del cervello e la propaganda stolta ispirati dai falchi e i razzisti che siedono al Governo».
Il clima di intolleranza l'abbiamo respirato l'altro giorno ad Ashdod, tra una folla di oltranzisti che ha accolto con fischi, urla, invettive l'ingresso nel porto della «Rachel Carrie», la nave della Freedom Flotilla intercettata dalla Marina militare israeliana mentre tentava di raggiungere Gaza. Un clima da Paese in guerra. E chi si sente in guerra non ammette defezioni né accetta voci contrarie. Nella «hit» dell'odio, il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha quasi raggiunto il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «I turchi sono esperti di genocidi, basta vedere cosa hanno fatto agli armeni», sentenzia David Wilder, uno dei capi dei coloni ultrà di Hebron (Cisgiordania). «La lista dei Nemici si allunga di giorno in gior-
no. Questa psicosi dell'accerchiamento si sta trasformando in paranoia. E questo non fa ben sperare per il futuro», osserva preoccupato Amram Mitzna, ex segretario generale e “colomba” laburista. Preoccupazioni condivise dal suo compagno di partito e attuale ministro (Affari sociali), Isaac Herzog : «È tempo di sollevare il blocco (di Gaza), ridurre le restrizioni alla popolazione e cercare altre alternative”, ha affermato ieri nel corso della seduta domenicale dell'esecutivo.
L'altra Israele chiede verità sull' attacco alla Mavi Marmara e sostiene la richiesta di una commissione d'inchiesta internazionale. Ma fa i conti con il no del governo. Benjamin Netanyahu ha bocciato la proposta avanzata dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale sul blitz compiuto dagli incursori della marina israeliana a bordo della Mavi Marmara. A capo della commissione, secondo Ban, sarebbe nominato l'ex premier neozelandese Geoffrey Palmer, e ne farebbero parte anche rappresentanti di Israele, della Turchia e degli Stati Uniti. Aprendo la riunione del Consiglio dei ministri, Netanyahu riferisce di averne parlato direttamente con Ban, al quale ha spiegato che «l'indagine sui fatti dovrà essere svolta in modo responsabile e obiettivo». «Abbiamo bisogno di considerare la questione attentamente, salvaguardando gli interessi di Israele e dell' esercito israeliano», aggiunge il premier che in serata ha riunito il Gabinetto di sicurezza.
Nella seduta di governo, Netanyahu ha detto anche che a bordo della nave turca c'era un gruppo omogeneo, salito a bordo da un porto diverso da quello degli altri passeggeri, senza sottoporsi a ispezioni, ben equipaggiato e «fermamente deciso» a ricorrere ad una violenza organizzata. A dar man forte al premier ci pensa il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman: Israele, afferma Lieberman, è uno Stato sovrano e dunque l'indagine deve essere condotta «con i nostri propri mezzi». E questi mezzi sono stati utilizzati dal Governo israeliano per ordinare in serata l'espulsione in aereo verso l'Irlanda di undici passeggeri della Rachel Corrie. Fra gli espulsi ci sono Mairead Maguire, Premio Nobel per la pace, e Denis Halliday, ex vice segretario generale dell' Onu. In precedenza erano stati espulsi verso la Giordania altri sette passeggeri, di nazionalità malese.

sabato 5 giugno 2010

A Gaza, dove s’impara a sopravvivere senza cibo né acqua

l’Unità 5.6.10
A Gaza, dove s’impara a sopravvivere senza cibo né acqua
Cresce l’attesa mentre si avvicina la nave Rachel Corrie, ultima della Flottilla L’embargo è sempre più stretto. Ora sono vietati anche sapone, cemento persino carta igienica, spazzolini da denti e ceci. Il dramma dei bambini
Umberto De Giovannangeli

Ragazzini. Un milione e mezzo di abitanti, il 54% ha meno di 18 anni
La sete. Il 90% dei pozzi è contaminato, si compra da bere dai privati
La fame. Tra le merci proibite anche pasta, riso datteri e marmellata
Hamas. È ovunque, controlla l’economia dei tunnel e le opere «caritatevoli»
La Flottilla. «Quei morti per noi sono degli eroi sono shahid, martiri»
Shayma, 13 anni: «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, ora non posso studiare»
Muhammad, 7 mesi: «È morto perché con l’embargo non abbiamo strumenti per operare»

Nemmeno al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» in questa prigione sventrata, con le fogne a cielo aperto, con i bambini che giocano a scalare montagne di rifiuti in una gabbia ridotta ad un cumulo di macerie, isolata dal mondo. Il caldo soffocante moltiplica il bisogno di acqua. Quasi un miraggio, un bene divenuto di lusso dopo tre anni di embargo. Perché nella Striscia il 90% dei pozzi è chimicamente contaminato e l'acqua di casa non è potabile, per cui la gente è costretta a comprare acqua da privati. Neanche al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» a Gaza. Di vivere in un paesaggio lunare, fatto di crateri che si susseguono per chilometri. Tra quelle macerie, dentro quei crateri si muove una umanità sofferente che scruta il mare perché dal mare può arrivare la Speranza, sotto forma di navi della libertà, come quelle assaltate dagli uomini rana israeliani l’altra notte.
La realtà di Gaza supera ogni metafora – prigione, gabbia, inferno utilizzata per raccontare di una striscia di terra popolata da un milione e mezzo di persone – 1.527.069 secondo l'ultimo censimento in maggioranza (il 54%) sotto i diciotto anni. Gaza dove –secondo una recente ricerca dell'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi)il numero delle persone che non hanno alcuna sicurezza per l'accesso al cibo e che non dispongono dei mezzi per procurarsi i beni più essenziali come il sapone o l'acqua pulita, è triplicato dall'imposizione del blocco nel giugno 2007. Gaza, dove 300mila rifugiati vivono in condizioni di povertà degradante contro 100mila all'inizio del 2007, con un tasso di disoccupazione tra i più alti al mondo: 41,8%. Gaza, dove il blocco –denuncia la Croce Rossa«continua ad ostacolare gravemente» il trasferimento nella Striscia di attrezzature mediche essenziali, ponendo a rischio le cure immediate e le terapie a più lungo termine di migliaia di pazienti. Gaza, dove il 90% della popolazione dipende dagli aiuti alimentari distribuiti dalle agenzie dell'Onu.
Per entrare all’inferno devi superare a piedi –dopo un meticoloso controllo con fantascientifiche apparecchiature elettroniche da parte israelianail valico di Erez. Sono trecento metri in una terra di nessuno. Lo sguardo abbraccia un orizzonte fatto di macerie. E di bambini. Che camminano tra le rovine degli oltre 4mila edifici distrutti dall’aviazione e dall’artiglieria d’Israele nei 22 giorni dell’operazione «Piombo Fuso»: di quei 4000mila edifici, solo una minima parte sono stati ricostruiti. A Gaza manca il cemento per farlo. Israele ne proibisce l'entrata per timore che serva a ricostruire le infrastrutture di Hamas. Il cemento come mille altre cose: dalla fine di gennaio ci sono restrizioni su carburante, gas per cucinare, materiali per costruire. Poi a febbraio qualcuno ha denunciato che Israele bloccava anche i datteri, le bustine da tè, i puzzle per bambini, la carta per stampare i testi scolastici e la pasta (per Israele non è considerato bene umanitario, solo il riso lo è). Ora nella lista dei materiali proibiti sono entrati anche carta igienica, sapone, spazzolini e dentifricio, marmellata, alcuni tipi di formaggio e i ceci per fare l’hummus. Mancano a Beit Hanoun, a Rafah, Khan Yunis. E ancora: Jabaliya, Bureli, Al Nusayrat, Mughazi, Dayr al Balah, fatiscenti campi profughi trasformatisi in asfissianti centri urbani. Sono trascorsi quasi diciotto mesi da quel 27 dicembre 2008 (inizio dell'offensiva israeliana); 18 mesi dopo, Hamas continua a restare padrone di Gaza. Padrone di una «prigione», ma pur sempre padrone incontrastato.
L'embargo non ha indebolito il movimento islamico. Hamas è ovunque. Nelle organizzazioni «caritatevoli» che dispensano un acconto di cento dollari -un’enormità per chi (oltre 950mila persone) vive sotto la soglia di sopravvivenza– ad ogni famiglia colpita dal fuoco israeliano. Hamas presiede all'«economia dei tunnel», quella che si dipana sottoterra, nella miriade di gallerie che dalla frontiera con l'Egitto (il valico di Rafah riaperto da Mubarak dopo l'assalto alle navi della Freedom Flotilla), fanno arrivare a Gaza merce di ogni tipo. Hamas si è appropriato politicamente delle «Navi della libertà». Almeno diecimila persone hanno partecipato alle manifestazioni organizzate ieri nella Striscia dal movimento islamico contro il blocco israeliano e a sostegno della Freedom Flotilla: a sventolare, per ordine di Hamas, sono bandiere palestinesi e turche. Affianco ai ritratti di sheikh Ahmed Yassin –fondatore di Hamas ucciso dagli israelianicompaiono quelli del «nuovo amico del popolo palestinese», il premier turco Erdogan.
Quello a Hamas è un consenso impastato di rabbia, paura, dolore. Alimentato da una rivendicazione di libertà repressa nel sangue. Per anni Ahmed Al-Jaru aveva sognato il mare, pur vivendo a poche centinaia di metri dalla distesa azzurra. Ma Ahmed e i suoi 9 bambini non potevano arrivarci perché a separarli dal mare c'erano i soldati israeliani che presidiavano uno degli undici insediamenti ebraici nella Striscia. Ora Ahmed e i suoi bambini li incontriamo al vecchio porto di Gaza City. Lui era lì la notte che la festa si è trasformata in tragedia. Era lì assieme a Faisal, Mahmud, Abdel, Zaira, e ad altre migliaia che attendevano la Freedom Flotilla. C'era anche una banda musicale per far festa... Ma a Gaza festeggiare è un sogno irrealizzabile. «Quei pacifisti sono eroi, shahid (martiri), e gli israeliani degli assassini», dice Faisal, 14 anni, il padre ucciso nella seconda Intifada. C'è chi affida il suo pensiero a Internet. È Ola, blogger di Gaza. «Per coloro che pensavano che l'era dei pirati fosse finita... o che rimanesse confinata alla fantasia dei film di Hollywood... Ripensateci. Voi, i martiri della Flotta della Libertà...Gaza voleva accogliervi come vincitori...ma il paradiso vi riceverà come martiri...Le onde del mare e i gabbiani e il tramonto piangono tutti per voi...». «Allah li accolga nel Paradiso degli shahid», le fa eco Yousef, che per sfamare la sua famiglia di undici persone ha ingrossato le fila dell'«esercito» di uomini-talpa che lavorano sottoterra al confine con l'Egitto. Un collega della Tv francese prova a dirgli: non dovete perdere la speranza. La risposta di Yousef è un pugno allo stomaco: «Non possiamo perdere una cosa che non abbiamo».
C'è animazione al porto. Si è sparsa la voce che un’altra nave di Freedom Flotilla la «Rachel Corrie», con a bordo la Premio Nobel per la pace, l'irlandese Mairead Maguire, e il suo connazionale Denis Halliday, ex vice segretario generale delle Nazioni Unite è in avvicinamento alle coste di Gaza. «Siamo partiti per consegnare questo carico alla popolazione di Gaza e quello intendiamo fare è forzare il blocco di Gaza... Non abbiamo paura», fa sapere dalla nave, Mairead Maguire. La nave è carica di materiale da ricostruzione, 20 tonnellate di carta e molti altri prodotti che Israele rifiuta alla popolazione della Striscia. «Di navi ne dovrebbero arrivare cento al giorno per portarci via di qua», sussurra Zaira, dieci anni che tiene per mano il fratellino Yasser, tre anni. A Gaza le prime vittime sono i bambini. Bambini come Shayma, 13 anni, la cui casa è stata distrutta 18 mesi fa dai bombardamenti israeliani e ancora oggi vive con sei fratelli in una baracca di lamiere. Fredda d'inverno, torrida d'estate. «Ho smesso di fare le cose che mi piacevano, disegnare, giocare – dice Shayma -. Non mi piace neanche più guardare la televisione». Shayma ha solo tredici anni, ma il suo sguardo, la sua voce raccontano di una infanzia sfiorita nell'inferno di Gaza. «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, avevo buoni voti, adesso non lo sono per niente e ho paura che non riuscirò più a diventare dottore...». Anche Mahmud, 15 anni, ha perso la casa e ora vive in una tenda: «Non ho più sogni. Vorrei sentirmi come se avessi di nuovo una casa». Dalla prigione non si esce. Nella prigione si può solo morire. Anche se non hai alcuna colpa. Anche se hai solo sette mesi. Con le lacrime agli occhi, Yasmeen mi mostra una foto di Muhammad, il suo bambino. Due occhioni neri, un sorriso che apre il cuore. Ma il cuore di Muhammad Akram Khader non batte più. La sua morte – spiega Mu'awiya Hassanein, direttore generale dei servizi di Pronto soccorso nella Striscia è avvenuta a causa di un rigonfiamento del cervello, che richiedeva cure disponibili solo fuori Gaza a causa dell'embargo.
Muhammad è morto dopo che alla sua famiglia non è stato permesso di ricoverarlo in ospedali israeliani.
«Noi bambini diversi» Cosa sia crescere a Gaza, lo racconta Sani Yahya: un missile sparato da un F16 israeliano fece saltare per aria la festa del suo quindicesimo compleanno, uccidendo alcune delle sue sorelle e cugine. A Sany quell'attacco è costato il suo braccio sinistro: «Noi, bambini di Gaza, non siamo come gli altri –dice Sany che incontriamo a casa dei suoi nonni, alla periferia di Gaza City-. Da sempre dormiamo tutti insieme, abbracciati gli uni gli altri nello stesso letto per paura degli F16 che sorvolano di continuo le nostre case. Non parlo solo di adesso, di questa guerra. Noi siamo cresciuti così: senza luce e senz’acqua ogni volta che gli israeliani decidono di tagliarci l’energia; con l’eterna paura degli attacchi di punizione per i missili di Hamas e delle incursioni nelle nostre case. La mia scuola è stata bombardata tre volte in due anni. Non abbiamo diritto ad imparare né a sognare un futuro migliore. Nemmeno alla mia festa di compleanno avevo diritto...”. Il 31 luglio 2009, sulla spiaggia di Gaza, tremila bambini fecero volare in cielo gli aquiloni. Avevano sognato di volare con loro. Superando l'assedio, rompendo l'embargo. Volare via da quell'inferno chiamato Gaza.

giovedì 3 giugno 2010

La prossima Intifada

il Fatto 1.6.10
La prossima Intifada
Ripresi gli scontri nella Striscia, a Gerusalemme est tensione con gli israeliani e solidarietà ai “fratelli” di Gaza
di Roberta Zunini

Dei circa trecentomila arabi che vivono a Gerusalemme, più di cinquantamila risiedono nel quartiere di Silwan, a ridosso della città vecchia, vicino alla Moschea di Al Aqsa. Silwan, come Sheik Jarrah, Bet’Aniha e Shu’fat, fa parte di quella zona che l’Onu definisce Gerusalemme Est, territorio occupato palestinese, assieme a Cisgiordania e Gaza. Per Israele invece Gerusalemme Est è parte integrante della municipalità. L’annessione unilaterale, con la proclamazione di Gerusalemme “capitale unica e indivisa “ fu sancita nel 1980 da una legge della Knesset, che formalmente venne subito respinta dalla comunità internazionale. Resta il fatto che gli abitanti arabi di Gerusalemme Est non hanno ottenuto un cambiamento di status. Non sono cioè diventati cittadini ma solo residenti permanenti di Gerusalemme. E’ anche per questo che si sono sempre sentiti più vicini agli arabo palestinesi di Gaza che non agli arabi che vivono in territorio israeliano e hanno il passaporto israeliano. “Lunedì, però, forse per la prima volta ci siamo sentiti un unico popolo. Ci siamo tutti sentiti di nuovo veri fratelli. Abbiamo scioperato tutti assieme – ci dice Selim Aman, ingegnere meccanico – per protestare contro il trattamento disumano a cui sono sottoposti da anni i nostri fratelli di Gaza e per manifestare il nostro disgusto nei confronti del massacro di chi voleva portare loro aiuto. Parteciperò sicuramente ad altre manifestazioni di piazza se ce ne saranno, anche se vuol dire rischiare la vita, perché i soldati, come avete visto, non fanno sconti a nessuno”.
Il Huadi Silwan information center è uno spazio di cannucciato e assi che si trova tra la moschea di Al Aqsa e l’ingresso della City of David, il parco archeologico dove, secondo la Bibbia, si troverebbero anche la dimora e il giardino di re David. L’appalto dei lavori di scavo della City sono stati affidati dal governo israeliano a un’associazione di coloni ebrei, El Ad. “Lunedì, dopo che si era diffusa la notizia del massacro dei pacifisti, qui davanti ci sono stati scontri proprio tra coloni armati di fucili e ragazzi palestinesi con le tasche pesanti di pietre” ci racconta l’assistente sociale arabo Jawad Siam, che gestisce il Silwan information center assieme ad Hagit Ofra, una signora ebrea dell’organizzazione umanitaria Peace Now. A sentire gli abitanti di Silwan, la situazione è esplosiva e non è un caso che, sempre ieri, un gruppo di palestinesi abbia appiccato il fuoco alla propria abitazione, occupata da tempo da una famiglia di coloni. Hamad – che ancora soffre dei postumi di una fucilata alle gambe, sparata da un giovane colono ortodosso che camminava con un M16 a tracolla – ci spiega che ciò è accaduto pochi giorni dopo la sentenza della corte israeliana che intimava ai coloni di andarsene. “I coloni però non se ne volevano andare e le forze dell’ordine israeliane tardavano a intervenire. E’ allora che i legittimi proprietari della casa assieme ad alcuni amici, tra cui mio cugino, hanno dato fuoco all’abitazione per costringere i coloni ad andarsene. Il coraggio di buttare fuori i coloni però gli è venuto proprio ieri”. Anche Adnan Husseini, il Governatore di Gerusalemme dell’Autorità Nazionale Palestinese ci dice che c’è un forte nervosismo oltre che tristezza tra i palestinesi. “E’ una frustrazione che sta corrodendo la speranza, la rabbia è contenuta da troppo tempo ma escludo che possa esplodere una terza intifada. Ciò che è accaduto potrebbe invece aprire una nuova pagina della nostra storia, non negativa. Ormai la comunità internazionale non può più far finta di non vedere quanto sia spietata l’occupazione e spero abbia capito che noi palestinesi siamo di nuovo uniti. Voglio sperare che questo sacrificio dei pacifisti venga colto dal mondo e ci aiuti ad ottenere un nostro Stato”. Ma queste sono le parole della diplomazia. E la vita reale non passa per l’ufficio del Governatore.
E la “vita reale” ha troppo spesso il volto della morte. Una forte esplosione, ieri, ha colpito la città palestinese di Beit Lahya, nell’estremità nord della Striscia di Gaza, uccidendo tre persone. La radio militare israeliana ha reso noto che la deflagrazione è stata provocata da un missile lanciato da un velivolo israeliano e che i morti erano miliziani dell’ala armata del Fronte Popolare, una delle fazioni radicali attive nell’enclave controllata dagli integralisti di Hamas. La stessa fonte afferma che l’attacco è seguito dopo il lancio di due razzi Qassam, esplosi senza fare vittime nei pressi di Ashqelon, nel sud di Israele. Altri due palestinesi, invece, erano morti, nella mattina, in uno scontro a fuoco con una pattuglia militare israeliana, nella zona centrale della Striscia di Gaza.