lunedì 27 luglio 2009

L’assurdo “niet” di Stato alle staminali

L’assurdo “niet” di Stato alle staminali

da “TuttoScienze” supplemento de La Stampa

Gilberto Corbellini

Il TAR del Lazio ha respinto il ricorso di Elena Cattaneo, Elisabetta Cerbai e Silvia Garagna – ricercatrici docenti delle università di Milano, Firenze e Pavia – contro il bando del ministero della Salute che esclude illegalmente dai finanziamenti per la ricerca i progetti che utilizzano cellule staminali embrionali. La motivazione della sentenza è, se possibile, anche più grave della decisione del ministero. Perché dice che l’eventuale discriminazione o danno per l’esclusione di un progetto di ricerca non riguarda i ricercatori ma l’ente a cui saranno destinati i fondi. Il che non è solo incostituzionale, ma prefigura una pericolosa limitazione dell’autonomia del ricercatore di decidere quali studi portare avanti, con mezzi ovviamente legali, e che è prevista da tutte le leggi che governano gli enti di ricerca e accademici in Italia.



Il caso del bando sulle staminali è interessante sotto il profilo del clima di censura e manipolazione della scienza che regna in Italia. Intanto perché il ministero ha aggiunto il divieto d’ufficio (si dice su richiesta della regione Lombardia), mentre la commissione che aveva stabilito i criteri si era ben guardata dall’inserirlo. Inoltre, per il significato arrogante che assume la limitazione: sarebbe bastato intitolare il bando alla ricerca sulla biologia “delle staminali adulte” e nessuno avrebbe potuto fare ricorso.



Certo, la scelta di investire soldi in una direzione per alcune applicazioni meno promettenti sarebbe stata criticabile. Ma la decisione sarebbe rientrata nelle prerogative del governo. Così, invece, il bando diventa illegale, perché il governo non può introdurre una limitazione che non è giustificata dalla legge in vigore, la 40.



Questa legge, infatti, vieta la distruzione di embrioni residui, ma non di fare ricerche in Italia con cellule staminali embrionali già esistenti e ottenibili da laboratori internazionali. Che infatti si fanno, a fatica, in molti laboratori italiani. Quindi, il ministero e la Conferenza Stato-Regioni si sono assunti una prerogativa che non spetta loro: per ora la Costituzione dice che il governo è ancora solo potere esecutivo.



Qualcuno, come la vice-ministra Roccella, dice che il governo può dare quello che vuole: ha scritto anche che la scelta di vietare la ricerca sulle staminali embrionali non è diversa da quella di Obama, che non ha consentito di finanziare con fondi federali la creazione a scopo sperimentale di embrioni e la clonazione terapeutica. Argomento singolare: come se fosse la stessa cosa togliere un divieto, lasciandone qualcuno già esistente, e introdurne uno senza che vi sia una base giuridica per farlo.



Il TAR del Lazio non poteva giustificare la sua ordinanza basandosi sulla legge 40, anche se la cita a sproposito, e quindi fonda il rifiuto affermando che non sono i ricercatori che possono far ricorso, ma i destinatari istituzionali dei fondi. Questo significa cancellare non solo la libertà di ricerca in un campo specifico, ma l’autonomia del ricercatore tout court. Poiché si attribuisce, ingiustificatamente e contro la Costituzione, ai dipartimenti, alle università e agli enti il potere di esercitare un controllo preventivo sul tipo di studi, e forse anche di insegnamenti, che il ricercatore e il docente possono intraprendere.



Dovrebbe essere chiaro che i bandi sono rivolti ai ricercatori e ai team sulle base delle competenze delle “facilities”. Ma gli enti non possono entrare nel merito degli obiettivi e dei metodi, altrimenti si configurerebbe una limitazione dell’autonomia del ricercatore tutelata dall’articolo 33 della Costituzione.



Attenzione! Il significato di questa sentenza va al di là del caso specifico. L’episodio si configura come una forma di controllo e censura della ricerca. Qualcosa che è la norma nei regimi totalitari e teocratici, ma che deve essere aborrito nelle democrazie.

sabato 25 luglio 2009

«Pianura padana peggiore degli ecomostri»

Il geografo Massimo Quaini. «Pianura padana peggiore degli ecomostri»
25/07/2009 - CORRIERE DELLA SERA

«Disordinato, frutto di una pianificazione con­fusa, e tutelato solo in parte secondo schemi supe­rati ». È il paesaggio italiano per Massimo Quaini, il docente dell’Università di Genova che ha coor­dinato il Rapporto annuale della Società Geografi­ca. «Lo stato pietoso del nostro Paese dal punto di vista paesaggistico è lo specchio fedele della selva di leggi e provvedimenti che, invece di fare chiarezza, hanno incentivato la cementificazione. E il piano casa di cui si è discusso qualche tempo fa e che presto potrebbe tornare d’attualità non farà altro che peggiorare la situazione. Ci sarebbe bisogno di ben altri interventi».

Ad esempio?

«Il nostro lavoro ci ha portato ad analizzare il territorio partendo dalla prospettiva dell’Italia ru­rale, aspetto di assoluta importanza, eppure siste­maticamente mortificato a vantaggio di logiche di sviluppo economico spietate o di modelli di tu­tela limitati ai centri storici. Quel che ci vorrebbe, invece, è un’intensa campagna di manutenzione del territorio, un serio e metodico restauro del pa­esaggio agricolo».

Pensa che sia necessario conservare l’integri­tà della campagna italiana?

«Non si può fare a meno di sottolineare che spazi strettamente naturali non esistono più. La mano dell’uomo arriva ovunque, anche nelle ri­serve, nei parchi, persino nel cuore delle foreste. E allora perché ignorare una fetta così importan­te del paesaggio come le nostre campagne? È una parte del nostro Paese purtroppo sottovalutata, ma che invece ha un valore incommensurabile. Vuole un esempio? I turisti stranieri che sempre più spesso vengono nella mia Liguria investono sulla fascia collinare comprando vecchie fattorie ridotte quasi in macerie, snobbando la costa dove i prezzi sono arrivati alle stelle».

Ma la struttura normativa e burocratica del no­stro Paese ci consente interventi di questi tipo?

«In effetti le competenze in materia paesag­gistica rappresentano un altro tasto dolente, perché sono decisamente mal distribuite dal centro agli enti locali. Comuni, Province, Re­gioni e poi il ruolo cruciale delle soprintenden­za spesso si sovrappongono nella loro attività di controllo e prevenzione. Se non si lavora in maniera coordinata, si corre il rischio di auto­rizzare scempi e devastazioni urbanistiche».

Si riferisce agli ecomostri?

«Quelli sono solo la punta dell’iceberg. Mi pre­occupano più fenomeni di ampia portata, rispet­to ai quali non c’è la possibilità di intervenire. Mi riferisco, ad esempio, alla pianura padana trasfor­mata in un’unica grande area metropolitana, co­me la chiamano gli urbanisti. Un confuso model­lo insediativo dove quartieri suburbani e periur­bani si mescolano, dando vita alla perfetta nega­zione del paesaggio rurale».

Pensa che la sensibilità degli enti locali ri­spetto al paesaggio stia mutando?

«Recentemente lo ha ribadito anche Giulia Ma­ria Crespi proprio al Corriere , dando l’allarme sui Comuni che per far cassa sono disposti a tutto e cercano di compensare con gli oneri di urbanizza­zione le minori entrate che provengono dallo Sta­to. In altre circostanze si accettano supinamente le aggressioni al territorio di criminalità e cattiva amministrazione, come accaduto in Campania o in alcune zone del Lazio, con l’avvelenamento si­stematico del paesaggio».

A. Cas.

venerdì 24 luglio 2009

Insetticida killer, strage nelle risaie della pianura padana

Insetticida killer, strage nelle risaie della pianura padana

Liberazione del 17 luglio 2009, pag. 8
Beatrice Macchia

Le risaie italiane sono a rischio per danni ambientali provocati dall’utilizzo di un prodotto fitosanitario che serve a combattere il punteruolo acquatico del riso (una specie non autoctona che attacca le piante del riso). I Radicali del Pd Elisabetta Zamparutti e Bruno Mellano, insieme con il Wwf, lo hanno denunciato ieri in una conferenza alla Camera annunciando un’interrogazione ai ministri della Salute, dell’Ambiente e dell’Agricoltura in merito all’utilizzo del prodotto a base del principio attivo alfacipermetrina nelle risaie, soprattutto quelle della Lombardia e del Piemonte. In particolare, il Wwf ha inviato un «reclamo», appoggiato dai Radicali, alla Commissione Ue per «inadempimento del diritto comunitario» chiedendo «l’apertura di procedura di infrazione» nei confronti dell’Italia «per violazione di direttive comunitarie». Le risaie a rischio, spiegano i Radicali, si estendono per oltre 200.000 ettari e sono «già state trasformate in un deserto: questo prodotto uccide, infatti, i micororganismi e devasta gli ecosistemi», con «danni enormi» per avifauna e anfibi (in particolare le rane). E la cosa diventa pericolosa, aggiunge Mellano, se si pensa che «per il 99% la produzione di riso in Italia avviene per immersione», mentre il prodotto sotto accusa non può venire in contatto con l’acqua, come ben evidenziato anche sull’etichetta della confezione con simboli, disegni e indicazioni. L’uso dell’antipunteruolo, tra l’altro, va sospesa 42 giorni prima dell’inizio della raccolta, periodo che coincide con la metà di settembre, proprio quando comincia la mietitura. Secondo Lucia Ambrogi, responsabile aree protette del Wwf, «il reclamo è un estremo tentativo di fermare e risolvere la situazione», anche se quello che è «mancato è stata un’adeguata pianificazione». I Radicali stanno anche valutando se c’è materia per un esposto per danno ambientale. L’uso del Contest è stato autorizzato con Decreto ministeriale del 31.03.2009 per combattere il punteruolo acquatico del riso (Lissorhoptrus oryzophilus), coleottero curculionide esotico che negli ultimi tre anni si é diffuso nell’area risicola. E’ stato accertato che il Contest uccide tutte le forme di vita acquatiche che incontra, inclusi pesci, anfibi (larve e adulti di specie acquatiche) e gli invertebrati acquatici. Tra Piemonte e Lombardia è quindi in corso una strage biologica di proporzioni enormi causata da un prodotto che, come riportato sulla sua scheda tecnica è "Altamente tossico per gli organismi acquatici" e «può provocare a lungo termine effetti negativi per l’ambiente acquatico». Questo è particolarmente rilevante visto che le risaie sono un notevolissimo serbatoio di biodiversità e costituiscono habitat per numerosi animali. Pur non essendo habitat di interesse comunitario, le risaie sono spessissimo incluse in aree di importanza comunitaria, nella rete Natura 2000. Proprio all’Unione Europea di è rivolto il Presidente Wwf Italia Stefano Leoni per chiedere di avviare nei confronti della Repubblica italiana una procedura di infrazione per la sospetta violazione delle normative comunitarie e di sospendere l’uso dell’insetticida, come scritto in questi giorni al Segretario generale della Commissione Europea e alla direzione Ambiente. Il Wwf Italia avvisa inoltre i frequentatori delle garzaie e gli amanti del birdwatching, a prestare attenzione e segnalare eventuali casi di mortalità anomala fra i pulcini, con attenzione anche agli uccelli che nidificano direttamente in risaia e sugli arginelli (mignattini, pavoncelle, cavalieri d’Italia, gallinelle d’acqua ecc.). In alcune risaie tenute sotto osservazione si é già verificata una mortalità quasi totale di molti invertebrati e di anfibi. Ne deriva anche un’evidente pericolosità anche solo a mettere le mani in acqua. Saranno da valutare i danni all’intera catena alimentare - per esempio sul successo riproduttivo dell’avifauna - che saranno causati dalla drastica riduzione di prede a causa del prodotto: si pensi alle rane per aironi e garzette o agli invertebrati per la catena trofica dei limicoli o degli uccelli insettivori. Oltre al danno ambientale indiscutibile, si suppone anche un danno economico per la Comunità, visto che molte aziende percepiscono contemporaneamente contributi della Politica Agricola Comunitaria (Pac), su fondi Psr per «misure agro-ambientali», che paiono in contraddizione con l’uso dell’insetticida.

giovedì 23 luglio 2009

Londra taglia le armi a Tel Aviv

Londra taglia le armi a Tel Aviv

Michelangelo Cocco

il manifesto del 14/07/2009

L'embargo parziale decretato in risposta ai massacri di Gaza

Le licenze revocate sono soltanto cinque su 182 ma ciò che conta è il segnale politico, perché la decisione della Gran Bretagna è stata presa in risposta ai massacri israeliani dell'operazione «Piombo fuso» e in seguito alle pressioni di parlamentari e organizzazioni per i diritti umani.
L'ambasciata del Regno Unito a Tel Aviv ieri ha confermato che Londra ha cancellato alcune licenze per la vendita di armi allo Stato ebraico. Secondo quanto anticipato dal quotidiano Ha'aretz, a essere bloccata è stata l'esportazione di componenti e pezzi di ricambio per le corvette «Sa'ar 4». Il loro utilizzo per martellare dal mare la Striscia di Gaza tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 (1.417 palestinesi uccisi) ha violato gli accordi tra Londra e Tel Aviv che stabiliscono le condizioni d'impiego di componenti fabbricati in Inghilterra.
Nessuna misura invece nei confronti delle aziende britanniche che forniscono i motori per i droni (aerei senza pilota) «Hermes 450». Amnesty international qualche giorno fa aveva denunciato l'uccisione di decine di civili da parte di questi droni durante «Piombo fuso». «Data la consistenza delle prove che Israele ha commesso crimini di guerra a Gaza, la Gran Bretagna avrebbe dovuto revocare ogni licenza di armi o componenti che possano essere usate in questo modo», ha dichiarato ieri Tim Hancock, direttore della sezione britannica di Amnesty.
«Si tratta di un importantissimo, sebbene incompleto, primo passo responsabile per i crimini di guerra commessi durante l'offensiva contro Gaza - sostiene Phyllis Bennis, ricercatrice dell'Institute for Policy Studies di Washington -. Ogni paese che fornisce armi o altra assistenza militare a Israele è complice delle violazioni israeliane». «Questo vale anzitutto per gli Stati Uniti - spiega Bennis - che restano il principale sostenitore militare dell'occupazione israeliana, perché le forniscono mediamente 3miliardi di dollari all'anno in aiuti militari. L'uso illegale di armi americane da parte d'Israele viola anche le leggi statunitensi, in particolare l'"Arms export control act" - che fissa limiti molto precisi su come il paese ricevente può utilizzare le armi fornite da Washington». Israele investe in spese militari tra il 7% e il 9% del proprio prodotto interno lordo. E Bennis ricorda che «uno dei primi atti dell'Amministrazione Obama è stato annunciare la sua intenzione di implementare il suo finanziamento di 30miliardi di dollari in dieci anni per armi a Israele e finora non ha mostrato segni di ravvedimento».
Israele ieri ha minimizzato la decisione dell'International federation of journalists (Ifj), il sindacato internazionale dei giornalisti, di espellere dalla federazione - ufficialmente perché da anni rifiuta di pagare la quota associative - la sezione israeliana. In un comunicato stampa la Ifj ha chiarito che l'iniziativa non è riconducibile ad alcun boicottaggio nei confronti di Israele e ha risposto alle critiche avanzate dal Foglio, «giornale di cui è proprietario il premier italiano e magnate dei media Silvio Berlusconi», si legge nella nota. L'espulsione, sottolinea la Federazione internazionale nella nota, è «diventata inevitabile», dopo che l'associazione israeliana «ha rifiutato un'offerta di condonare tre anni di debito e pagare normalmente la quota del 2009». «È assurdo», a proposito di questa azione - prosegue la Federazione internazionale dei giornalisti - «parlare di boicottaggio di Israele o di antisemitismo, o di ragioni politiche». «È un non senso». La Federazione «sostiene in maniera forte la lotta dei giornalisti nella regione, compreso in Israele, per mantenere la loro indipendenza dalle pressioni politiche».
E ieri Tel Aviv ha reagito in maniera sprezzante alla proposta dell'Alto rappresentante dell'Ue per la politica estera, Javier Solana, per un riconoscimento dell'Onu a un costituendo stato palestinese, anche nel caso di fallimento dei negoziati di pace. «Un accordo di pace non può scaturire che da negoziati diretti» ha detto il ministro degli esteri Avigdor Lieberman a radio Gerusalemme «e non può certo venire imposto». Secondo il ministro né gli Stati Uniti né l'Unione europea intendono comunque imporre una soluzione sul terreno. Riferendosi alle parole di Solana, Lieberman ha affermato che «non bisogna annettere importanza eccessiva a un diplomatico il cui mandato volge ormai al termine».

Perù, la lezione della Selva india

Perù, la lezione della Selva india

Gianni Proiettis

il manifesto del 23/07/2009

Almeno 60 vittime, un numero imprecisato di scomparsi. A più di un mese dalla strage, gli indios della Curva del Diablo ancora fanno i conti. E gridano che la loro lotta non si fermerà

È passato un mese dalla strage con cui il governo di Alan García pensava di mettere fine alle proteste amazzoniche, eppure quella carneficina, di cui a tutt'oggi si ignorano le reali dimensioni, non smette di fare notizia e ha provocato una reazione a catena nella politica e nella società peruviane.
Domenica 5 luglio la Curva del Diablo, che fu il teatro della strage - in nomine omen - si è riempita di gente, migliaia di persone, che hanno affrontato un viaggio di varie ore per partecipare a una sentita e silenziosa commemorazione.
Su una collina che domina la valle del fiume Marañón, in un paesaggio grandioso e desolato in cui predominano le cactacee, le autorità locali e un comitato cittadino hanno piantato una croce bianca con parole di pace e la gente vi ha disposto intorno corone di fiori, lumini e messaggi scritti. A mezzogiorno, sotto un sole spietato, don Jesús, viceparroco di Bagua Chico, pronuncia un discorso di riconciliazione, condanna la guerra fratricida voluta e ordinata da altri. L'allusione al governo è evidente ma il religioso rispetta la consegna, che circola già da qualche giorno, di evitare, almeno per questa occasione, denunce e strumentalizzazioni politiche. Gli abitanti di Bagua Grande e Bagua Chico, due cittadine equidistanti dalla Curva del Diablo, hanno dimostrato una forte solidarietà con i popoli della selva e la loro lotta, iniziata quasi due mesi prima. Una solidarietà che non si era mai manifestata storicamente e che si è rafforzata dopo la repressione omicida ordinata dal governo.
A trenta giorni dalla strage, la ricostruzione dei fatti del 5 giugno si è arricchita grazie a numerose testimonianze ma presenta ancora zone d'ombra che solo una commissione d'inchiesta indipendente potrà chiarire. Quel giorno, il blocco stradale mantenuto dagli indios awajún e wampis per protestare contro i nuovi decreti legge sull'Amazzonia sarebbe stato tolto - non si sa se definitivamente - alle 11 del mattino. Così era stato deciso dai dirigenti della Aidesep, la Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana, in risposta all'ultimatum dato dall'esercito. Ma le forze speciali della polizia (Dinoes), senza aspettare l'ora convenuta, sferrarono un attacco a tenaglia alle 6 del mattino. Mentre due reparti armati si muovevano per circondare i dimostranti, tre elicotteri fecero piovere dal cielo bombe lacrimogene e raffiche di mitra. Ai primi morti, la reazione non si è fatta attendere. Armati solo delle loro tradizionali lance di legno, gli indigeni hanno risposto all'attacco con una forza sorprendente ma al tempo stesso prevedibile, per chi conosce i loro valori e comportamenti.
La cifra di 24 poliziotti uccisi - 9 dei quali erano stati presi in ostaggio in precedenza in una località vicina, alcuni altri sicuramente vittime del «fuoco amico» dall'alto - è comprovata. Ma la stima ufficiale di 10 vittime civili è di gran lunga inferiore alla realtà. Le dichiarazioni di vari testimoni oculari coincidono nel calcolare in almeno 60 i corpi dei civili portati via dagli elicotteri. Le comunità indigene stanno ancora facendo un censimento dei desaparecidos.
I popoli awajún e wampis fanno parte della grande nazione jívaro, di antiche tradizioni guerriere. I loro nonni erano i temuti cacciatori di teste dell'Amazzonia e furono giustamente il coraggio e l'aggressività nel difendere il proprio territorio a mantenerne fuori l'uomo bianco, frustrandone tutti i tentativi di colonizzazione.
Tra l'altro, la selva amazzonica presentava attrattive nel passato solo per i missionari e gli esploratori. È solo in epoca recente che le multinazionali petrolifere, minerarie e agroindustriali ne hanno scoperto l'immenso potenziale economico. Non è affatto esagerato dire che, nel difendere i propri territori ancestrali dall'intromissione e dal saccheggio delle multinazionali, i popoli nativi stanno custodendo il polmone del mondo, vitale riserva biologica e patrimonio di tutta l'umanità. Ma, secondo il presidente Alan García, che non esitò a ricorrere alla strage di centinaia di prigionieri politici nel 1986, all'epoca del suo primo mandato, gli indigeni amazzonici si stanno opponendo al progresso e si comportano come «il cane dell'ortolano», che non mangia e non lascia mangiare. Oltretutto, secondo una sua infelice dichiarazione che mette a nudo il feroce razzismo interno delle società latinoamericane, «non sono cittadini di prima classe» e pertanto non hanno il diritto di opporsi a un saccheggio che lascia loro solo distruzione dell'habitat, inquinamento e deculturazione.
Al di là del cinismo del potere, il sangue dei morti di Bagua non è stato versato invano. Intanto, i decreti che aprivano la svendita lottizzata dell'Amazzonia peruviana alle compagnie multinazionali sono stati cancellati. La situazione di discriminazione e abbandono in cui vivono le popolazioni amazzoniche si è guadagnata l'attenzione internazionale e un posto nell'agenda nazionale. Le rivendicazioni e le lotte di altri settori sociali e di altre regioni geografiche si sono unificate per le manifestazioni nazionali dell'8 e 9 luglio. Stando ai sondaggi più recenti, il presidente Alan García conta ormai sull'approvazione di un rachitico 20 per cento.
Pur avendo annunciato le sue dimissioni dal governo - probabilmente prima della fine del mese - il primo ministro Yehude Simon ha aperto un tavolo di trattative con l'Aidesep, che coordina le più importanti organizzazioni native, e si è incontrato nei giorni scorsi con un centinaio di apu, i capi delle comunità amazzoniche, a Santa Maria de Nieva, un villaggio della selva che non aveva mai ospitato un capo di governo.
Secondo Daysi Zapata, la vicepresidente dell'Aidesep che sostituisce Alberto Pizango, attualmente rifugiato in Nicaragua, «i nostri fratelli venuti dai cinque bacini della regione amazzonica hanno visto che il premier ha ascoltato le nostre richieste e si é impegnato ad accoglierle. In conclusione il governo, dopo tante dichiarazioni sfortunate, si è accorto che anche noi esistiamo, siamo peruviani e abbiamo dei diritti».
I punti accettati dal primo ministro riguardano l'assistenza medica ai feriti, una compensazione economica ai familiari delle vittime, la liberazione di 20 detenuti e la revoca di 84 mandati di cattura, la possibilità di ritorno per Alberto Pizango, la smilitarizzazione della regione. E, ovviamente, la consultazione delle comunità per tutti i progetti che le riguardano, come prevede il trattato 169 della Organizzazione Internazionale del Lavoro, di cui il Perù è firmatario. Yehude Simon ha anche proposto ai rappresentanti dell'Aidesep un incontro a Lima con il presidente Alan García per formalizzare gli accordi.

Il processo all'Eternit si farà

Il processo all'Eternit si farà

Mauro Ravarino

il manifesto del 23/07/2009

Le vittime, in tutta Europa, alla fine potrebbero essere duecentomila

Quando il gup Cristina Palmesino legge l'ordinanza di rinvio a giudizio per i due imputati dell'inchiesta Eternit, un applauso e un abbraccio sciolgono tutta la tensione accumulata in questi mesi d'attesa. Dovremmo dire anni - almeno trenta - di aspettative, lotte, dolore e speranza per la gente di Casale Monferrato, che ha patito questa tragedia. Almeno 1400 i morti nella cittadina piemontese. A cui si aggiungono i casi di Cavagnolo nel torinese, Ruviera in Emilia e Bagnoli in Campania. Una lunga catena di morti e malati: sono 3 mila in tutto quelli conteggiati nel capo d'accusa.
Il processo ai vertici Eternit si farà e inizierà il 10 dicembre prossimo. Sul banco degli imputati ci sono il barone belga Jean Loui De Cartier De Marchienne e il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, che dopo aver trafficato nella lavorazione della fibra cancerogena è stato rappresentante dell'Onu per lo sviluppo sostenibile. Non sono dirigenti di secondo piano, ma i più potenti signori dell'amianto a livello internazionale: accusati entrambi di disastro doloso (reato che prevede fino a 12 anni di reclusione) e rimozione volontaria di cautele (fino a 5 anni). Non solo avrebbero causato il «disastro», ma non avrebbero nemmeno svolto azioni per prevenirlo né per limitarlo.
Il gup ha respinto tutte le obiezioni della difesa e ha accolto in toto le richieste della Procura di Torino, formulate al termine della maxi inchiesta coordinata dal pm, Raffaele Guariniello, che a caldo ha commentato: «E' stata scritta una pagina importante della tormentata storia dell'amianto in Italia e nel mondo». Un passo storico. Lo dicono un po' tutti, perché da nessuna parte, neanche in Francia, si è riusciti a intraprendere un processo così importante per numero di casi trattati e per il ruolo dei dirigenti coinvolti, la testa di un sistema. Al pm torinese risponde l'avvocato Astolfo Di Amato, che guida il pool di difesa di Schmidheiny: «L'amianto - ha detto - fa parte della storia industriale e sociale, e in tribunale si giudicano gli uomini, non la storia. Il processo non va caricato di significati extra giuridici, come per esempio la responsabilità sociale degli imputati».
Quello del giudice Palmesino è stato un provvedimento lungo e dettagliato. Poteva essere - come spesso succede - un rinvio generico e sintetico, invece, si è rivelato il contrario. Il gup ha voluto sottolineare come i reati contestati (che partono dal 1952) non possano essere prescritti. Un'affermazione chiara: «Il disastro è ancora in atto». Scrive nel documento: «Il disastro si sta ancora manifestando, provocando nuove malattie, sia negli ex lavoratori, sia nei cittadini che vivono in prossimità degli ex stabilimenti Eternit, o nei luoghi in cui è in uso materiale derivato dalla lavorazione dell'amianto». Inoltre «il materiale derivante dalla lavorazione utilizzato per costruzione, pavimentazione e coibentazione è ancora attualmente in uso nei siti».
Commosso, all'uscita del Tribunale, Bruno Pesce, leader del Comitato vertenza Amianto: «Dopo anni si restituisce dignità alle vittime. Sappiamo che gli scogli più grossi devono ancora arrivare, ma quella di oggi è una tappa importante». La sua è una lunga lotta, iniziata sul finire degli anni Settanta e sempre accompagnata da una forte partecipazione sociale. Ieri, erano in 140 i casalesi in aula. Sono quelli che, con altre 550 fra persone fisiche ed enti territoriali, si sono costituiti parte civile. Tra loro c'è chi lavorava all'Eternit, chi ha contratto l'asbestosi, chi in quella fabbrica non ci ha mai messo piede, chi ha perso il padre, il marito, la moglie o il fratello. Tutti portavano un adesivo giallo con scritto «Strage Eternit: giustizia». Nei corridoi, dopo la notizia, sorrisi, lacrime e felicità. Finalmente vittime e parenti vedono aprirsi una porta di speranza. Troppe volte la loro ansia di giustizia è stata delusa. Escono dal Palagiustizia e commentano la decisione del gup con poche ma significative parole: «Siamo felici». Lo dice, per tutti, una donna con gli occhi lucidi. Qualcuno fa la «V» di vittoria, con l'indice e il medio della mano destra. Altri si sfogano: Pietro ha 63 anni e racconta di quando lavorava all'Eternit: «Scaricavamo l'amianto blu, il più pericoloso. Di trenta che erano con me, siamo sopravvissuti in due. E adesso quella gente là deve andare in galera». A mezzogiorno ritornano a Casale, la città della fabbrica del cancro, il maledetto mesotelioma. Ma anche la città che ha messo in atto la più grande bonifica (non certo per opera dell'azienda che i suoi rifiuti li ha lasciati lì dove stavano). Presto, in via Oggero dove sorgeva il grande stabilimento dovrebbe nascere un parco. Si chiamerà «Eternot». Un nome che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
Sergio Bonetto è l'avvocato di parte civile. Insieme a Pesce, alla pasionaria Romana Blasotti Pavesi, a Nicola Pondrano (segretario della Camera del lavoro di Casale), è uno dei protagonisti di questa storia. Da anni difende le vittime. «Adesso inizia un processo storico, che potrebbe essere d'esempio per tanti altri. Auspichiamo sia partecipato. Vorremmo, infatti, coinvolgere gli avvocati dei paesi europei, perché quello dell'amianto è un problema che va oltre i confini». I numeri fanno spavento: nelle previsioni, nei prossimi decenni i morti nel vecchio continente potrebbero raggiungere cifra di duecentomila.

lunedì 20 luglio 2009

Stop al consumo del suolo agricolo

Stop al consumo del suolo agricolo
NINO ANDENA *
mercoledì 08 luglio 2009 LA REPUBBLICA - MILANO

Il Piano Casa che la Regione si appresta ad approvare offre una occasione preziosa per rimettere al centro il vero problema dei nostri territori: la soppressione delle aree agricole.

Si va a ritmi incredibili. Gli ultimi dati disponibili ci dicono che dal 1990 al 2000 in Lombardia sono scomparsi 188mila ettari di suolo agricolo. Per dare un´idea è come se fossero scomparsi gli interi territori delle province di Milano e Monza, oppure è come se fossero scomparse 10 città come Milano.

Se il trend è rimasto lo stesso (e non pare che qualcosa sia cambiato) nel 2010 i dati del nuovo censimento certificheranno che circa altri 200mila ettari di suolo agricolo mancheranno all´appello. Sarà allora come aver perso una superficie più ampia della provincia di Cremona o come se fossero scomparse 20 città come Brescia. La più seria domanda che possiamo porci tutti, non solo gli agricoltori, è: dove andiamo a finire di questo passo? E per evitare risposte affrettate e conseguenze ancor più negative, faccio una proposta provocatoria: attuiamo una specie di moratoria all´uso del suolo agricolo prendendoci il tempo necessario per decidere cosa desideriamo lasciare ai nostri figli e ai nostri nipoti.


In questa situazione generale i contenuti del Piano casa appaiono forse un po´ ridimensionati. Il che non significa che debbano essere sottovalutati. Le porte (quasi) aperte per 18 mesi, che consentiranno di ampliare e/o recuperare edifici esistenti, non possono però offuscare l´allarme sull´uso complessivo del territorio che viene irreparabilmente perduto non tanto (e non solo) dalle grandi opere pubbliche, quanto dai piccoli ex piani regolatori, magari ispirati a far cassa, lasciando ampia possibilità di costruire nuovi capannoni anziché recuperare i numerosissimi dismessi.
Perché siamo intervenuti sul Piano casa per la parte che riguarda il recupero degli edifici rurali? Perché l´esperienza ci ha insegnato che quando il recupero delle strutture rurali viene fatto da soggetti diversi dall´imprenditore agricolo l´attività agricola immediatamente muore e non solo nell´edificio recuperato, ma anche nel contesto territoriale vicino. Basta che qualche «nuovo abitante» della cascina recuperata solleciti l´Asl di turno a intervenire per la puzza delle vacche e il destino di questa stalla è segnato. Per questo diciamo che nel Piano casa si devono stabilire regole che devono sostenere certamente il recupero delle cascine lombarde legando però il recupero alla funzione agricola e alle sue attività connesse. Se il recupero è in funzione di attività che nulla hanno a che fare con l´agricoltura si decreta per legge la sua fine.
(* Presidente Coldiretti Lombardia)

il cemento soppianta la campagna verde in calo da 52 a 48 per cento

il cemento soppianta la campagna verde in calo da 52 a 48 per cento
DAVIDE CARLUCCI
MERCOLEDÌ, 08 LUGLIO 2009 LA REPUBBLICA - Milano

I dati dell´Istituto di urbanistica: a Milano e provincia il consumo di suolo è in crescita

La campagna milanese è passata in minoranza. Fino al 1999 era agricolo il 52,3 per cento del territorio agricolo della provincia. In soli sei anni la percentuale è scesa al 48,8. È come se nel frattempo fosse stata costruita un´altra città grande quanto mezza Milano. Oppure - se si preferisce - come se, ogni due giorni, si fossero costruite l´equivalente di tre piazza Duomo.
I dati, suggestivi, sono ricavati dal primo rapporto dell´osservatorio nazionale sui consumi di suolo, presentato ieri da Legambiente, dal dipartimento di architettura del Politecnico e dall´Istituto nazionale urbanistica. Lo studio riguarda quattro regioni italiane: oltre alla Lombardia, l´Emilia Romagna, il Piemonte e il Friuli.
Tra le province lombarde, quella di Milano registra la più bassa "velocità di urbanizzazione pro capite": il cemento avanza a ritmo più contenuto. Ogni milanese perde 2,2 ettari all´anno, la metà della media regionale (- 4,7) e quasi sette volte meno che nella provincia di Pavia (-13,4). Ma gli amanti del verde non possono rallegrarsene: significa solo che il Milanese è già saturo di palazzi. Urbanizzato è il 42 per cento del territorio (contro il 39 del 1999), percentuale che scende al 29 in provincia di Varese, al 15 a Lecco, all´11 a Mantova, al 10 a Cremona. È nelle province agricole del Sud che la città avanza a tassi di crescita più elevati, per effetto della spinta espansiva di Milano, che ha visto i suoi abitanti riversarsi sempre più lontano dal centro. Non a caso, la crescita edilizia più elevata si riscontra, oltre che a Pavia, nel Lodigiano (dove ogni abitante perde ogni anno 10,1 metri quadrati di verde agricolo), nel Piacentino (qui la velocità di trasformazione è al secondo posto tra quelle considerate nella ricerca, con un tasso di 26,8 metri quadrati persi ogni abitante), e in provincia di Novara, che ha visto un incremento delle superfici urbanizzate pari al 9,3 per cento tra il 1991 e il 2001, il più consistente in Piemonte.
Oltre all´area urbana e agricola c´è un 9 per cento di territorio, nel Milanese, fatto di corsi d´acqua, zone umide, e aree "seminaturali". Anche questa porzione di territorio rischia di finire inglobata nella metropoli. A rischio, però, sono soprattutto le aree agricole. «Per il futuro - prevede Paolo Pileri, docente del Politecnico - la crisi potrà frenare l´espansione: c´è molto invenduto nel patrimonio immobiliare. Ma i veri decisori sono i comuni: se continuano a considerare il suolo come un piccolo tesoretto da cui ricavare oneri, la città continuerà ad avanzare all´infinito. Le conseguenze le vediamo in questi giorni, con Milano paralizzata per la pioggia: se ci fossero state più superfici permeabili ci sarebbero stati meno problemi. Meno boschi significa anche più caldo e meno capacità di "sequestro" dell´anidride carbonica. Lo si consideri in vista dell´Expo».

domenica 19 luglio 2009

Italia record per l’uso dei farmaci, dal 2000 a oggi il boom: +60%

l’Unità 10.7.09
Italia record per l’uso dei farmaci, dal 2000 a oggi il boom: +60%
di Ma.So.

Secondo il rapporto Osmed dell’Aifa in Italia cresce il consumo di farmaci e antibiotici: +60% rispetto al 2000. Gli italiani consumano una dose e mezza di farmaco al giorno. Cresce anche la popolarità dei generici.

Gli italiani consumano sempre più farmaci. È l’allarme lanciato dal rapporto Osmed 2008, realizzato dall’Istituto superiore di Sanità e dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e presentato ieri nella sede dell’Istituto superiore sanità, secondo il quale per ogni cittadino italiano lo Stato ha speso mediamente 410 euro per un periodo di trattamento di 537 giorni. Numeri che certo risentono delle patologie croniche legate all’invecchiamento della popolazione e delle abitudini di tipo socio-culturale, ma che non fanno stare tranquilli. Perché se la spesa farmaceutica totale, circa 24,4 miliardi di euro tra pubblica (75%) e privata, nel 2008 è rimasta stabile (è calata dell’-1% invece quella a carico del Ssn), in compenso è aumentato sensibilmente il consumo di farmaci, addirittura +60% rispetto al 2000, certificato dal dato allarmante secondo il quale gli italiani consumano mediamente una dose e mezza di farmaco al giorno. Come se assumerne uno fosse diventato un fatto rituale, quasi come bere un caffè.
GLI ANTIBIOTICI
E in netta crescita c’è anche il consumo di antibiotici. «Rispetto ad altri paesi l’utilizzo di antibiotici in Italia è caratterizzato da un elevato consumo totale e da un trend in crescita», ha spiegato infatti Pietro Folino-Gallo, direttore dell’ufficio Osmed dell’Aifa, sottolineando che «il nostro Paese è secondo per consumo in Europa dopo la Francia». Ma a differenza dei cugini transalpini, dove la tendenza è al ribasso, «in Italia ogni giorno nel 2006 hanno fatto uso di antibiotici 27,6 persone su mille contro le 24,5 del ’99». Il rapporto Osmed specifica inoltre che il consumo farmaceutico territoriale di classe A-Ssn, ovvero quelli interamente rimborsabili, risulta cresciuto del 4,9% rispetto al 2007: in altre parole, ogni mille abitanti sono state prescritte 924 dosi di farmaco al giorno (erano 580 nel 2000). «Una esplosione non giustificata nè giustificabile - evidenzia Roberto Racchetti, responsabile del rapporto - ora si tratta di trovare strumenti e intervenire alla radice con meccanismi strutturali di formazione e informazione su medici e pazienti». Scorrendo poi la classifica dei farmaci più utilizzati, troviamo in cima alla lista, come da tradizione, i farmaci del sistema cardiovascolare, con oltre 5 milioni di euro di spesa, coperti per il 93% dal Ssn. Seguono i farmaci gastrointestinali (13% della spesa), quelli del sistema nervoso centrale (12,1%), gli antimicrobici (11%) e gli antineoplastici (11%). È invece un ace-inibitore, l’antipertensivo Ramipril, la sostanza più prescritta nel 2008.
CALABRIA MAGLIA NERA
Ovviamente la spesa varia da Regione a Regione, con la Calabria maglia nera (277 euro pro capite di spesa pubblica per i farmaci di classe A-Ssn), seguita da Campania, Sicilia e Lazio. Mentre è la Provincia di Bolzano quella più virtuosa (149 euro). Di pari passo all’andamento generale va segnalato l’aumento dei consumi dei farmaci generici, che dal 2002 al 2008 sono passati dal 13 al 43%, ma che scontano oltre alla diffidenza degli operatori e dei cittadini il peso di una lunga copertura dei brevetti.

«Gaza dimenticata da tutti. È la tomba dei diritti del popolo palestinese»

l’Unità 15.7.09
«Gaza dimenticata da tutti. È la tomba dei diritti del popolo palestinese»
Conversando con Mairead C. Maguire, Nobel per la Pace
di Umberto De Giovannangeli

La Striscia oscurata:
«È immorale che non faccia più notizia La sofferenza di donne, uomini e bimbi continua»

C’è un rapporto dell’Onu, un altro della Croce Rossa Internazionale, un altro ancora di Amnesty International. Tutti convergono nell’affermare che a Gaza sono stati commessi dalle forze armate israeliane crimini di guerra. Rapporti che inchiodano alle loro responsabilità le autorità israeliane. Ma nulla accade. Il dolore della gente di Gaza si perde nel silenzio complice della comunità internazionale e nel disinteresse dei media. Ciò è immorale. Perché Gaza resta un inferno, un enorme prigione a cielo aperto, isolata dal mondo; una prigione per un milione e mezzo di palestinesi, in maggioranza bambini e ragazzi. Fino a quando ne avrò la forza, non smetterò di denunciare l’ignominia delle punizioni collettive che Israele continua a infliggere alla gente di Gaza». Dolore e rabbia. E volontà di continuare a battersi per i «senza diritti». Questi sentimenti fanno da filo conduttore del nostro colloquio con la premio Nobel per la Pace nordirlandese Mairead Corrigan Maguire. La Maguire, è con lei Cynthia McKinney, attivista pacifista Usa ed ex deputata, sono state arrestate il 30 giugno scorso e detenute per una settimana con altri 19 componenti della delegazione pacifista del movimento Free Gaza, per aver cercato di forzare il blocco della Striscia di Gaza. Il 6 luglio, le autorità israeliane hanno espulso la Nobel per la pace e l’ex deputata Usa. «Gli aiuti che stavamo portando – racconta la premio Nobel nordirlandese – erano un simbolo di speranza per la gente di Gaza. Speranza che possa essere aperta una via di mare, e che loro stessi possano essere messi in condizione di trasportare i loro materiali e poter, così, ricominciare a costruire le scuole, gli ospedali e le migliaia di case distrutte durante la carneficina chiamata “Piombo fuso”. «Ma questi atti di pirateria di Stato – aggiunge – non faranno venir meno la nostra determinazione. Con queste missioni vogliamo dire alla gente di Gaza che noi siamo con loro e che non sono soli».
I riflettori si sono spenti su Gaza. Il silenzio sembra essere calato su quella tragedia.
«Sì, Gaza sembra non far più notizia. E questo è scandaloso, immorale, riprovevole. Perché la sofferenza della gente di Gaza non è diminuita. Perché Gaza resta una prigione a cielo aperto dove vivono in condizioni disperate un milione e mezzo di persone, in maggioranza donne, bambini, ragazzi. E tutto questo avviene nel silenzio complice della comunità internazionale. Nonostante rapporti dell’Onu, della Croce Rossa Internazionale, di Amnesty International, che denunciano i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano. Dobbiamo avere il coraggio e l’onesta intellettuale di chiamare le cose con il loro nome: quello che da tre anni è in atto a Gaza è un assedio disumano».
Un’accusa pesante.
«Pesante, pesantissime sono le condizioni di vita, se di vita si può parlare, a cui è costretta la popolazione di Gaza. C’è penuria di medicine, cibo, elettricità e delle cose indispensabili a vivere. Nella Striscia di Gaza, su una lista di 4000 “prodotti autorizzati” da Israele (prima dell’assedio imposto dal giugno 2007, ndr.), solo 30-40 sono tollerati oggi, e un milione e mezzo di persone restano rinchiuse, sottomesse all’arbitrio più totale. Libri, dischi, indumenti, tessuti, scarpe, aghi, lampadine elettriche, candele, fiammiferi, strumenti musicali, lenzuola, coperte, materassi, tazze, bicchieri… sono proibiti e non possono passare se non attraverso i fragili tunnel dall’Egitto, obiettivi di ripetuti bombardamenti. Ma forse la peggiore forma di tortura per un essere umano è quella di non poter stringere e toccare i propri cari, e agli abitanti di Gaza non è permesso attraversare i confini attualmente chiusi per poter stare con le proprie famiglie. i malati non possono andare via per ricevere cure mediche, oltre l’80% dei bambini soffre di denutrizione, e per loro scarseggia anche il latte. La Striscia di Gaza è divenuta la tomba dei diritti umani. La punizione collettiva contro una comunità civili, da parte del governo israeliano, viola la Convenzione di Ginevra, è illegale, è un crimine di guerra e un crimine contro l'umanità. E come tale andrebbe perseguito se la parola Giustizia avesse ancora un senso alto, nobile, super partes. La tragedia più grande è che gli Stati Uniti, l’Unione Europea, l’Onu restano zitti di fronte alla tragedia umanitaria del popolo palestinese. Un popolo di dieci milioni di persone, sette milioni delle quali sono profughi».
Lo scorso 30 giugno Lei ha vissuto momenti drammatici…
«Non dimenticherò mia ciò che è accaduto. Le navi della Marina israeliana ci hanno abbordati, minacciati e costretti a fare rotta sul porto di Ashdod. Poi ci hanno ammanettati e condotti in cella. Un blitz degno dei pirati. Siamo stati rapiti e portati in Israele, dalle acque territoriali di Gaza, sotto la minaccia delle pistole; siamo stati sequestrati. Così Israele ha fermato una nave carica di medicinali e di giochi per i bambini di Gaza».
Lei ha vissuto la tragedia della guerra civile nell’Ulster. Pensando a quella drammatica storia e proiettandola nello scenario mediorientale, cosa si sente di dire ai dirigenti palestinesi?
«Ho avuto modo di incontrare sia dirigenti di Hamas che di Al Fatah. A loro ho parlato con il cuore in mano, partendo dalla mia esperienza personale. A tutti loro ho detto che un popolo palestinese diviso, la lotta armata, e il militarismo non risolveranno i problemi. L’alternativa al militarismo non è la rassegnazione, il piegarsi alla legge del più forte. L’alternativa non è la resa, ma realizzare è la resistenza civile non violenta. Un’”arma” straordinaria nelle mani dei più deboli».
E al più forte, Israele, cosa si sente di dire?
«Che non è opprimendo, umiliando, annichilendo un altro popolo che potrà sentirsi in pace. Che pace e giustizia sono tra loro indissolubili. E che non è degno di uno Stato democratiche perseguire politiche che finiscono per supportare un sistema di apartheid».
Lei chiede giustizia per la popolazione di Gaza. Chiede la fine dell’assedio. Ma cosa si sente oggi di chiedere ai capi di Hamas che comandano a Gaza?
«Chiedo un atto di umanità: liberate il soldato Shalit. Restituitelo a due genitori straordinari che hanno espresso più volte e con parole nobili il loro sostegno alla gente di Gaza».

sabato 18 luglio 2009

Distruggere tutto. Prima sparare. La procedura Johnnie

La Repubblica 16.7.09
Distruggere tutto. Prima sparare. La procedura Johnnie
Raccolte dalla Ong "Breaking The Silence" le testimonianze di 54 militari israeliani
Guerra di Gaza, i soldati si confessano "Scudi umani e distruzioni gratuite"
di Fabio Scuto

Venivano demolite case dappertutto, non ce ne era una senza danni. Era terribile, sembrava un film sulla Seconda guerra mondiale
Nessuno ti diceva di uccidere innocenti ma i sospetti dovevano essere stesi. Ho capito che era meglio sparare prima e fare le domande dopo

«A ogni casa palestinese a cui ci avvicinavamo mandavamo avanti il vicino, un Johnnie. Poi si entrava nella casa puntando il mitra alla schiena del civile». La racconta così in forma anonima un sergente maggiore della Brigata Golani - una delle unità di élite dell´esercito israeliano - la sporca guerra di Gaza dello scorso gennaio. E´ una delle 54 testimonianze dirette raccolte dall´organizzazione Breaking The Silence - composta da ex militari che si battono per il rispetto dei diritti umani- sulla condotta dell´esercito nell´operazione Cast lead (Piombo fuso): 22 giorni di battaglie, 1400 palestinesi uccisi, 13 israeliani caduti, distruzioni immani.
Nelle 112 pagine i soldati di Tshal raccontano non solo come civili palestinesi vennero utilizzati come scudi umani, senza fare distinzioni fra miliziani di Hamas e popolazione e senza altre regole d´ingaggio se non quella di minimizzare le proprie perdite. «Nessuno ti diceva di uccidere degli innocenti, ma le istruzioni erano che chiunque fosse sospetto doveva essere ucciso. Ho capito che era meglio sparare per primi e fare domande dopo», racconta un altro militare. Testimonianze di omicidi assolutamente gratuiti come quello di un uomo di 50-60 anni , descritto da un altro soldato. Racconta di aver visto di notte un palestinese con in mano una torcia, apparentemente disarmato: l´ufficiale al comando del reparto vietò di sparare colpi di avvertimento e quando fu vicino fece aprire il fuoco su di lui. «Non lo dimenticherò finché vivo, tutti sparavano e l´uomo gridava. Quando venne il giorno mandammo fuori un cane per controllare se avesse esplosivi addosso...ma non portava nulla, solo la torcia. L´ufficiale si giustificò così: «Era di notte...era un terrorista».
Nel dossier si ripetono le accuse sull´uso indiscriminato di armi al fosforo bianco nelle strade di Gaza e di «distruzioni totali non collegate a nessuna minaccia concreta per le forze israeliane». Il rapporto, finanziato da gruppi di attivisti per i diritti umani israeliani e dai governi di Spagna, Gran Bretagna e dall´Ue, prova secondo il portavoce di Breaking The Silence Mikhael Mankin «il modo immorale in cui la guerra è stata condotta, un modo dovuto al sistema di comando in vigore e non al comportamento individuale dei soldati».
In una minuziosa risposta alla denuncia, il portavoce militare israeliano, dopo aver ricordato che l´operazione Piombo Fuso fu lanciata in risposta a otto anni di tiri di razzi sulla popolazione civile nel sud di Israele, ha accusato Breaking The Silence di aver redatto un rapporto basato su «testimonianze anonime e generiche» ma ha aggiunto che verranno aperte delle inchieste su ogni denuncia di cattivo comportamento dei soldati. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha chiesto che tutte le denunce siano presentate presso il suo dicastero ed ha ripetuto che l´esercito israeliano «è quello con il più alto senso morale del mondo», una frase che il governo usa spesso per rispondere alla valanga di critiche per l´uso spregiudicato della forza militare che piovono sulla testa dei soldati sempre più frequentemente.

Il rapporto su «Piombo Fuso» raccoglie video e testimonianze

l’Unità 16.7.09
Il rapporto su «Piombo Fuso» raccoglie video e testimonianze
L’esercito doveva ridurre le perdite: si sparava anche sui civili
L’accusa dei soldati israeliani: «A Gaza l’ordine era uccidere»
di U.D.G.

Le denunce raccolte in un rapporto di una ong israeliana per i diritti umani. I racconti di alcuni soldati: l’ordine era «se non sei sicuro, spara». La replica dei vertici di Tsahal: sono testimonianze «anonime e generiche».

Sparare senza preoccuparsi della sorte dei civili palestinesi: questa era la prassi seguita dall’esercito israeliano a Gaza durante l’operazione «piombo fuso», che dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio scorso ha provocato circa 1.300 morti, secondo le testimonianze di una trentina di soldati, che hanno partecipato alle operazioni di guerra, raccolte da «Breaking the silence», un’organizzazione composta da ex militari che si batte per il rispetto dei diritti umani. Il rapporto è composto da 112 pagine e raccoglie le testimonianze anche video di uomini «coinvolti nelle operazioni a ogni livello».
ROMPERE IL SILENZIO
Dalle testimonianze, raccolte dall’organizzazione non governativa israeliana (breakingthesilence.org.il) risulta chiaramente che era meglio colpire un innocente che attardarsi a individuare il nemico, perché la regola era «prima sparare e poi preoccuparsi». Un piano basato sull’imperativo di ridurre al minimo le perdite israeliane, avanzando sempre ad armi spianate. Secondo le testimonianze, l’ordine era: «Se non sei sicuro, spara». Il fuoco, racconta un soldato, «era dissennato, appena raggiunta la nostra nuova postazione cominciavamo a sparare contro tutti gli obiettivi sospetti». Perché, come dicevano i capi, «in guerra sono tutti tuoi nemici, non ci sono innocenti». Il rapporto della ong, finanziato da gruppi di attivisti per i diritti umani israeliani e dai governi di Spagna, Gran Bretagna, Olanda e dall’Ue, parla di «civili usati come scudi umani, costretti a entrare in siti sospetti davanti ai soldati che usavano la loro spalla per tenere il fucile puntato».
Secondo Mikhael Mankin, di Breaking the Silence, «le testimonianze provano che il modo immorale in cui la guerra è stata condotta era dovuto al sistema in vigore e non al comportamento individuale di soldati». «Si è dimostrato - continua - che le eccezioni in seno alle forze armate sono divenute la norma e ciò richiede una profonda riflessione e una seria discussione. Questo è un urgente appello alla società israeliana e alla sua dirigenza a guardare sobriamente alla follia delle nostre politiche». Nel dossier si ripetono, inoltre, le accuse sull’uso indiscriminato di armi al fosforo bianco nelle strade di Gaza da parte dell’Esercito dello Stato ebraico e si parla di «distruzioni totali non collegate a nessuna minaccia concreta per le forze israeliane», oltre che di «permissive» regole d’ingaggio. «Non siamo stati istruiti a sparare a ogni cosa che si muovesse - ha dichiarato un altro soldato - ma ci dicevano: «Se vi sentite minacciati sparate». Secondo uno dei testimoni citati dal rapporto, «l’obiettivo era terminare la missione con il minor numero possibile di perdite per l’Esercito senza chiedersi quale sarebbe stato il prezzo pagato dagli altri (i palestinesi ndr)». «Meglio colpire un innocente che esitare a sparare a un nemico», era l’ordine impartito dai vertici di Tsahal, secondo un’altra confessione pubblicata nel dossier di «Breaking the silence».
Barak: criticate me
In una minuziosa risposta alla denuncia, il portavoce militare israeliano, dopo aver ricordato che l’operazione Piombo Fuso fu lanciata in risposta a otto anni di tiri di razzi sulla popolazione civile nel sud di Israele, ha accusato l’ong di aver redatto un rapporto basato su «testimonianze anonime e generiche». L’ong, afferma il portavoce, «non ha avuto la decenza di presentare il rapporto alle forze armate e non ha permesso di investigare le testimonianze prima della sua pubblicazione pur continuando a diffamare le forze armate e i suoi ufficiali». Il portavoce militare sottolinea l’assenza «di ogni elemento atto a identificare gli autori delle testimonianze, il loro grado e la loro posizione al momento degli incidenti denunciati, l’unità di appartenenza, il modo in cui le testimonianze sono state raccolte e come la credibilità delle testimonianze sia stata verificata». «Le critiche rivolte alle forze di sicurezza israeliane da questo o quel gruppo sono inappropriate», taglia corto il ministro della Difesa Ehud Barak. «L’Idf (le forze di difesa israeliane, ndr) sono uno degli eserciti che meglio rispettano l’etica al mondo e agiscono nel rispetto di alti valori morali. Ogni critica alle operazioni delle forze di sicurezza - aggiunge Barak - dovrebbe essere rivolta a me, in quanto ministro della Difesa israeliano».

lunedì 6 luglio 2009

Conversando con Roberto Espinosa. Portavoce del Coordinamento andino delle organizzazioni indigene

l’Unità 5.7.09
Conversando con Roberto Espinosa. Portavoce del Coordinamento andino delle organizzazioni indigene
di Leonardo Espinosa

I decreti del cane del contadino»: così hanno chiamato i provvedimenti con cui Lima voleva modificare la legislazione sull’uso delle terre. «Fa quasi sorridere, vero? In realtà, il loro ritiro ci è costato troppo sangue e troppa violenza». È la giornata giusta per parlare con Roberto Espinoza, uno dei portavoce del Caoi (il Coordinamento andino delle organizzazioni indigene), ospite del G-sott8 nell’Iglesiente sardo, un contro-G8 organizzato dall’Arci e da altre 300 associazioni. Poche ore prima, dal Perù, è arrivata la notizia delle prossime dimissioni del primo ministro Yehude Simon, «Se non succederà niente di straordinario».
Ma quella che a noi sembra un vittoria degli indios contro il governo del presidente Alan Garcia, per Espinoza è altro. «È un atto dovuto. Simon aveva forse i numeri in Parlamento (dove le sue dimissioni sono state respinte due giorni fa, ndr), ma ormai la società peruviana lo aveva censurato». Le dimissioni di Simon potrebbero portare alla fine del governo di Garcia, dopo la crisi scoppiata per i due decreti sullo sfruttamento del suolo e sottosuolo nell’Amazzonia peruviana.
Tre mesi di scontri, blocchi stradali e morti. Tanti, da non tenerne il conto: forse 34 oppure, contando anche i desaparecidos, cento. Indigeni auto-organizzati contro indigeni in divisa, spediti dal governo di Simon per far rispettare «lo stato di diritto». Un diritto troppo vago. E troppe volte utile solo per le compagnie petrolifere o per le multinazionali farmaceutiche o agroalimentari. «È l’intera legislazione peruviana da cambiare - continua Espinoza - L’idea coloniale di concedere per legge lo sfruttamento della terra, della nostra Pachamama, è un’idea datata. Nessun uomo può sfruttare la terra, ma solo accudirla. Smettiamo di parlare solo di risorse e iniziamo a parlare di vita».
Gli ultimi dati che arrivano da Lima sono chiari: su 70 milioni di ettari dell’Amazzonia peruviana, oltre 50 milioni sono stati concessi a compagnie petrolifere. La metà delle comunità indios vive su territori che, per lo Stato, non appartengono a loro. E ci vivono da ben prima del 1492.
Il 5 giugno, lo scontro ha portato alla morte di 34 persone e al ferimento di quasi 200 a Bagua Chica (700 kim dalla capitale Lima). È stato il punto più alto della crisi. Poi, le dimissioni di venerdì notte. «Le società sono pronte a cambiamenti strutturali - è la convinzione di Espinoza - dobbiamo lottare per un raffreddamento della terra. E lo Stato non può più negoziare lo sfruttamento in nome del popolo. Altrimenti, avremmo dimostrato di fare come il cane del contadino: abbaia e basta. No: noi abbaiamo per poter mangiare e per far mangiare tutti».
L’immagine del cane del contadino sta sostituendo quella del cortile di casa, quella imposta negli anni 60 dalle amministrazioni a stelle e strisce per tutto il subcontinente. Alan Garcia è rimasto solo ad accusare Evo Morales (Bolivia), Hugo Chavez (Venezuela) e Fidel Castro (Cuba) di manovrare gli indios peruviani. Da Washington, Barack Obama ha condannato le violenze ma non ha preso partito.
«È arrivato il momento anche per questo che la sinistra italiana chieda l’espulsione di Garcia dall’Internazionale socialista. È una vergogna», è la proposta della Caoi.
Per lo scrittore peruviano più famoso al mondo, e noto politico conservatore, Mario Vargas Llosa, quella degli indigeni andini e amazzonici è solo una «vittoria di Pirro». Per il perenne candidato al Nobel, una cosa è certa: «I 332mila nativi amazzonici, secondo il censimento del 2007, divisi in 15 gruppi etno-linguistici, con più di 70 dialetti, continueranno ad essere i cittadini più poveri e sfruttati del Perù, quelli che riceveranno peggiore educazione, con meno opportunità di lavoro e con le peggiori aspettative di salute e vita di tutto il paese. Se non è questa una vittoria pirrica, cos’altro lo è?». Già: cos’altro lo è?
«Non siamo indios e basta. Siamo cittadini. E il motto dei movimenti indigeni è “nessun diritto solo per gli indigeni. Parliamo per tutti, non solo per razze o etnie”», dice il portavoce del Caoi.
In tre mesi, il movimento peruviano è riuscito a non farsi azzittire, cambiando leader ma non cambiando l’obiettivo della lotta: una nuova legislazione dell’uso della terra. Prima c’era Alberto Pizango, leader dell’Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva, ora in esilio in Nicaragua. Poi: Davi Kopenawa, una donna yanomani nata “forse” nel 1956.
Man mano che il neoliberismo si è andato affermando in tutto il subcontinente latinoamericano, per i movimenti indigeni è arrivata l’occasione di legare le proprie battaglie per la terra a quelle dei diseredati delle città. Non è stato facile. Lo zapatismo del subcomandante Marcos ha rappresentato il più alto livello di notorietà per la causa indigena. La repressione e i tempi lunghi della politica lo hanno ridimensionato: da fenomeno globale a fenomeno regionale. Una sconfitta? In parte, ma non totalmente se è vero che da quel 1994, gli altri movimenti indigeni hanno fatto tesoro dell’esperienza del Chiapas.
«La nostra non è una battaglia etnica o individualista - conclude Roberto Espinoza - lottiamo con le comunità di tutto il mondo, sulle Ande come in Italia. Lottiamo per chi vuol fermare lo sfruttamento che porta alla crisi economica e a quella della terra». E allora: la prossima settimana ci saranno 3 giorni di sciopero generale sulle Ande e in Amazzonia. Il cane da guardia ha deciso di dire la sua.