domenica 24 gennaio 2010

C'è una lobby che vuole l'acqua

C'è una lobby che vuole l'acqua
CARLO IANNELLO
SABATO, 23 GENNAIO 2010 LA REPUBBLICA - Napoli

La recente legge sui servizi pubblici locali (la cosiddetta legge Ronchi) avrà effetti gravi su tutto il territorio nazionale, ma a Napoli le conseguenze rischiano di essere particolarmente vistose. Le nuove disposizioni, infatti, costringono i Comuni ad affidare la gestione dei servizi pubblici locali, acqua compresa, a società private o al massimo miste pubblico-privato. Si chiude così il cerchio della privatizzazione: la legge non lascia spazio per nessuna residua forma di gestione diretta, impedendo ciò che i Comuni hanno realizzato per circa un secolo, dalla legge Giolitti del 1903 fino al 2001, anno di entrata in vigore della prima dirompente "riforma" in questa materia. Ardua diviene persino la possibilità di affidare il servizio a una società per azioni di cui sia integrale proprietario l´ente pubblico (il cosiddetto affidamento in house). Si trasferisce così al capitale privato una nicchia di mercato protetta, quella dei servizi pubblici locali, che è fonte di rendite certe.
È bene chiarire che la contro-riforma dei servizi pubblici locali fortemente voluta dal governo si basa su alcune mistificazioni.
In primo luogo, si sostiene strumentalmente che le disposizioni servirebbero ad adeguare l´ordinamento interno a quello europeo: si tratta di una assoluta falsità perché l´Europa lascia gli Stati membri liberi di decidere se gestire i servizi locali facendo ricorso o meno al mercato. La pubblicizzazione dell´acqua a Parigi, ad esempio, è stata resa possibile dalle leggi francesi che continuano a prevedere che i Comuni possano realizzare anche gestioni dirette dei servizi locali. E nessuno dubita della conformità di queste disposizioni al diritto europeo.
In secondo luogo, si invoca ingannevolmente la concorrenza. In questi settori - si pensi al servizio idrico che viene erogato attraverso un´unica infrastruttura acquedottistica - la privatizzazione non può generare le condizioni per la concorrenza, come è viceversa accaduto, ad esempio, a livello nazionale, nel settore delle telecomunicazioni. Il risultato cui si perverrà sarà dunque quello della sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati. In settori come quello idrico la naturale conformazione monopolistica del mercato assicurerà al gestore privato una rendita cospicua che sarà pagata a caro prezzo dai cittadini.
In questo difficilissimo scenario il consiglio di amministrazione dell´Ato 2 - il consorzio di Comuni che da 10 anni avrebbe dovuto governare il settore idrico - dopo aver puntato nel 2004 alla privatizzazione dell´acqua, con un bando che scandalizzò l´opinione pubblica campana, dorme sonni profondi. E ciò a dispetto del fatto che nel corso del 2009 l´assessore alle Risorse strategiche del Comune di Napoli Riccardo Realfonzo abbia sostenuto la linea dell´acqua pubblica, rendendosi promotore di una impegnativa delibera approvata in consiglio comunale e inviando formalmente all´Ato 2 uno schema di delibera. Con quest´ultimo, che risale al maggio scorso, si chiedeva all´Ato 2 di affidare il servizio idrico all´Arin, l´unica azienda al 100 per cento pubblica in grado per storia, competenze e affidabilità di poter gestire l´acqua a Napoli e negli altri Comuni del bacino, comunque istituendo una commissione tecnica per verificare la possibilità, a legislazione vigente, di trasformare questa azienda in un ente di diritto pubblico.
Purtroppo, come è ben noto, l´azione di Realfonzo è stata bloccata da interessi lobbistici al punto da costringerlo alle dimissioni. E l´Ato 2 prosegue i suoi sonni. Tra soli 11 mesi scadranno ex lege le attuali concessioni, con l´effetto che i servizi verranno messi a gara. In altre parole, il rischio (per qualcuno il vero malcelato obiettivo) è che l´Ato 2 non proceda nella direzione dell´affidamento all´Arin, che quest´ultima venga sciolta (tanto è scritto nello statuto e previsto dalla legge) e che i suoi straordinari beni (dall´acquedotto del Serino a tutte le altre infrastrutture legate al servizio idrico) divengano oggetto di un vero e proprio sciacallaggio da parte dei soliti rapaci.

sabato 23 gennaio 2010

La guerra di Gaza negli incubi dei bambini

l’Unità 23.1.10
«Sogno che uccidono papà»
La guerra di Gaza negli incubi dei bambini
Nel rapporto di Amnesty i racconti dei sopravvissuti all’operazione Piombo Fuso lanciata da Israele un anno fa. Il blocco strangola la Striscia: disoccupazione al 40%
di Umberto De Giovannangeli

Quella tragedia è racchiusa in numeri, in storie, in volti. Quella tragedia non ha nulla di «naturale». È la tragedia di Gaza un anno dopo la fine dell’offensiva militare israeliana. A raccontarla è Amnesty International. L’organizzazione per i diritti umani ha raccolto una serie di testimonianze di persone che ancora hanno difficoltà a ricostruire le loro vite a seguito dell’operazione «Piombo fuso», che provocò 1400 morti e alcune migliaia di feriti. «Le autorità israeliane affermano che il blocco di Gaza, in vigore dal giugno 2007, è la risposta al lancio indiscriminato di razzi contro il sud d’Israele da parte dei gruppi armati palestinesi. La realtà, tuttavia, è che il blocco non prende di mira i gruppi armati ma piuttosto punisce l’intera popolazione di Gaza, limitando l’ingresso di cibo, forniture mediche, strumenti educativi e materiale da costruzione», afferma Malcolm Smart, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. «Ai sensi del diritto internazionale, il blocco rappresenta una punizione collettiva e va tolto immediatamente».
A Israele, in quanto potenza occupante, il diritto internazionale richiede di assicurare il benessere degli abitanti di Gaza, tra cui i loro diritti alla salute, all’educazione, al cibo e a un alloggio adeguato. Durante l’operazione «Piombo fuso», dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, furono uccisi 13 israeliani tra i quali tre civili nel sud d’Israele e decine furono i feriti a seguito del lancio indiscriminato di razzi da parte dei gruppi armati palestinesi. A Gaza, gli attacchi israeliani danneggiarono o distrussero edifici e infrastrutture civili, tra cui scuole, ospedali e impianti idrici ed elettrici. Migliaia di case vennero distrutte o furono gravemente lesionate. Delle 641 scuole di Gaza, 280 vennero danneggiate e 18 distrutte. Poiché più della metà della popolazione di Gaza ha meno di 18 anni l’interruzione dei programmi educativi a causa dei danni provocati dall’operazione «Piombo fuso» sta avendo un impatto devastante.
Un anno dopo, Amal 10 anni, porta ancora nella tasca ovunque vada due foto consunte di suo padre e di suo fratello morti durante l’offensiva di Tsahal. «Voglio guardarli sempre», dice, un anno dopo che sono stati uccisi. «La mia casa non è bella senza di loro». Anche Amal è stata ferita e dice che la testa e l’occhio destro le fanno ancora male. Ma il trauma psicologico di Amal è aggravato dal fatto che scappò prima che la madre e i fratelli e sorelle lasciassero la casa dopo gli spari. Quattro giorni dopo fu trovata, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock, una dei 15 altri sopravvissuti trovati nelle immediate vicinanze quando le ambulanze della Croce Rossa finalmente ottennero il permesso di avvicinarsi abbastanza per tirarli fuori. A scuola, le materie preferite di Amal sono inglese e arabo. «Non conosco molto l’inglese, ma mi piace», dice la ragazzina, che da grande vuole fare il dottore.
Kannan, adesso 13enne, ancora zoppica per il colpo di pistola alla coscia sinistra. Prima della guerra, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Anche per lui, l’impatto non è stato solo fisico. Nei mesi successivi alla sparatoria, ha avuto degli incubi – e fu trovato numerose volte a piangere nel sonno o a gridare «Vogliono uccidere mio padre». «Non va al bagno da solo», dice Zahawa, sua madre, aggiungendo che si spaventa facilmente – per esempio al suono dei colpi di pistola del vicino centro di addestramento di polizia di Hamas. Anche Kannan ha un album per gli schizzi – il consulente che lo ha seguito per quattro mesi dopo la guerra lo ha incoraggiato a disegnare. Dipinge la sparatoria contro suo padre... Bambini spaventati dagli aerei sopra di loro... Una moschea distrutta. Anche gli ospedali hanno subito le conseguenze dell’offensiva militare e del blocco. Le autorità israeliane negano spesso, senza fornire spiegazione, l’ingresso a Gaza dei camion dell’Organizzazione mondiale della sanità, contenenti aiuti sanitari.
I pazienti con gravi patologie che non possono essere curati sul posto continuano a vedersi negare o ritardare il permesso di lasciare la Striscia. Il 1 ̊ novembre 2009, Samir al-Nadim, padre di tre figli è deceduto dopo che il permesso di lasciare Gaza per subire un’operazione al cuore era stato rimandato per 22 giorni. Amnesty International ha parlato con molte famiglie, le cui abitazioni vennero distrutte. Un anno fa, durante il conflitto, Mohammed e Halima Mslih lasciarono il villaggio di Juhor al-Dik insieme ai loro quattro bambini. Mentre erano assenti, la loro casa venne demolita dai bulldozer israeliani. «Quando siamo tornati, c’erano tutte macerie», racconta Mohammed Mslih. La famiglia Mslih ha trascorso i primi sei mesi dopo il cessate il fuoco in una tenda di nylon. Ora è riuscita a costruire un’abitazione permanente ma teme che le continue incursioni israeliane possano abbatterla nuovamente. La disoccupazione a Gaza sta crescendo vorticosamente. Lo scorso dicembre, le Nazioni Unite hanno reso noto che il dato era superiore al 40%. «Il blocco sta strangolando praticamente ogni aspetto della vita della popolazione di Gaza. Il crescente isolamento e la sofferenza degli abitanti di Gaza non possono continuare. Il governo israeliano deve rispettare i propri obblighi legali in quanto potenza occupante e togliere il blocco senza ulteriore ritardo», conclude Smart.

martedì 5 gennaio 2010

Uranio impoverito, morti di leucemia altri due ex militari italiani

Uranio impoverito, morti di leucemia altri due ex militari italiani

Il Secolo XIX del 5 gennaio 2010

«Sono almeno 216 i militari italiani morti per possibile contaminazione da uranio impoverito». Lo sostiene l`Associazione Vittime Uranio che ieri a Lecce ha denunciato due nuovi casi di morte e quattro di malattia e reso pubblico in una conferenza stampa un documento ufficiale della Sanità militare, agli atti dell`ultima commissione parlamentare di inchiesta. «Si tratta tuttavia - ha spiegato Francesco Palese, portavoce dell`associazione - di un bilancio incompleto. Il documento della Sanità militare (che elenca 171 morti e 2.500 malati) registra infatti l`ultimo decesso nel 2006 e non comprende i reduci da molte missioni, dai poligoni e tutti coloro che al momento della morte non erano più in servizio». «Integrando questo documento con i dati in possesso dell`associazione - ha detto Palese - arriviamo a contare 216 morti, ma è un dato ancora parziale». Palese ha sottolineato che sulla questione, lo scorso 22 dicembre, il deputato radicale Maurizio Turco ha presentato un`interrogazione al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, perché venga fatta chiarezza sulle vere dimensioni del fenomeno. Nel corso della conferenza stampa, cui hanno partecipato anche alcuni ex militari malati, è stata chiesta l`istituzione di una nuova commissione parlamentare di inchiesta sull`uranio impoverito «per completare e ampliare il lavoro della precedente». I nuovi casi di morte segnalati riguardano: un ex paracadutista della Folgore, della provincia di Reggio Calabria, morto nell`ottobre del 2007 a 32 anni a causa di una leucemia sorta dopo le missioni in Somalia e in Bosnia e un militare della provincia di Taranto morto sempre di leucemia alcuni anni fa. I casi di malattia riguardano un ex militare della provincia di Varese al quale è stato diagnosticato un linfoma dopo una missione nel poligono a mare di Capo San Lorenzo, in Sardegna; un militare della provincia di Taranto, reduce da diverse missioni all`estero e ora malato di linfoma; due ex militari della provincia di Lecce, anche loro malati di cancro, il primo dopo una missione in Bosnia, il secondo dopo il servizio di leva nel poligono salentino di Torre Veneri. Ma secondo Falco Accame, presidente dell`associazione nazionale che offre assistenza ai familiari delle vittime arruolate nelle Forze Armate, potrebbero essere 3.122 – tra vittime e ammalati - gli italiani che hanno accusato patologie dopo aver avuto contatti con proiettili all`uranio impoverito o con le nano particelle derivanti dai metalli pesanti delle armi convenzionali. «Le vittime - sostiene Accame - sono in numero molto maggiore di quelle finora rese note». Secondo Accame, «occorre una nuova valutazione sia da parte di una commissione specializzata come è stata la Commissione Mandelli, ma anche da parte di una commissione politica come quella istituita al Senato, decaduta con la fine della legislatura, e non re-istituita nonostante l`esistenza di tre disegni di legge in merito».