martedì 15 febbraio 2011

"Seguire l´esempio della Germania niente pannelli su terreni coltivabili"

"Seguire l´esempio della Germania niente pannelli su terreni coltivabili"
GIOVEDÌ, 10 FEBBRAIO 2011 LA REPUBBLICA Firenze

Il presidente di Slow Food Carlo Petrini favorevole all´installazione su capannoni o vicino alle autostrade

"Il contadino non coltiva solo cavoli e patate ma preserva le qualità ambientali"

MARA AMOREVOLI
(segue dalla prima di cronaca)
Perché il fotovoltaico è un possibile pericolo per agricoltura e territorio.
«Sono contro il fotovoltaico su aree agricole fertili, ma sono favorevole al fatto che gli impianti vengano fatti su capannoni, di cui l´Italia è piena, in cave abbandonate, in aree non fertili o in alcuni posti demaniali non utilizzabili. Oppure a lato delle austostrade. L´esempio della Germania fa scuola: niente impianti in terreni coltivabili. Invece la nostra agricoltura è in ostaggio, come accade anche per il cemento: se non mi paghi in modo giusto il prodotto agricolo, io vendo allo speculatore così ho una rendita superiore, dice il contadino che non può certo stare dietro a melanzane e cavoli che non gli danno da vivere»
Insomma quella che dovrebbe essere una scelta di energie rinnovabili si trasforma in denuncia di una situazione di sofferenza del settore agricolo?
«È una riflessione drammaticamente attuale, che impone un tema all´ordine del giorno europeo. Bisogna pensare economicamente. Il contadino non è solo quello che coltiva cavoli melanzane e patate, preserva le qualità ambientali, provvede al mantenimento si argini, fossi e boschi. E quindi dobbiamo trovare un contesto di economia collegato ad una diversa concezione dell´agricoltura del nostro paese. Non possiamo farla sparire e riempire tutto di outlet, capannoni e impianti fotovoltaici per poi trovarci nel deserto. In Toscana il paesaggio è un elemento forte, connotato a livello mondiale come luogo del cuore».
Come giudica la delibera - proposta di legge della Regione che tutela aree Dop, Igp, umide, ecc.?
«Spero che nel passaggio da delibera a legge vengano sistemate anche le questioni relative ai permessi pregressi. Sono assolutamente a favore di questa sensibilità. Brava, bravissima l´assessore Bramerini. Non si può fare a meno di questo rigore in Toscana, magari per seguire logiche di "sviluppismo". Ben venga la legge, speriamo che tutte le questioni si stemperino per favorire la supremazia del bene comune. Perché suolo paesaggio e agricoltura sono bene comune. Anche in Puglia Vendola ha fatto lo stesso. Non c´è bisogno di inventarsi nulla: i tedeschi hanno raggiunto l´obiettivo dell´autonomia energetica senza distruggere terreni fertili. Ma serve la politica, ce lo devono dire loro come si disegna il paesaggio. Mi chiedo però fino a quando il nostro paese potrà ignorare il problema agricolo»
È un problema di fondo che sembra marginale.
«Lo so, ahimè. L´agricoltura interessa poco, ma cresce la sensibilità ai beni comuni, come acqua, suolo, aria, paesaggio cibo. Un paese civile deve iniziare a decifrare, leggere e sostenere le sensibilità a proprietà comuni. Questa è la grande battaglia politica di questo inizio secolo».
E il suo parere sull´eolico?
«Serve buon senso. Prima cosa ci devono essere le condizioni reali per farlo funzionare, sennò è stupido. Poi in zone di valore paesaggistico è un pugno nello stomaco, e produce poca energia. Questi tipi di energia sostenibile vanno inseriti in contesti integrati, produttivi su piccola scala. Iniziamo a pensare alle nostre scuole, agli edifici pubblici, al riciclo dell´acqua...».

venerdì 11 febbraio 2011

PERCHÉ NO ALL´ACQUA PRIVATA

PERCHÉ NO ALL´ACQUA PRIVATA
CARLO PETRINI
SABATO, 05 FEBBRAIO 2011 La repubblica

La campagna referendaria è iniziata, ma non ce ne siamo accorti perché siamo insabbiati in questa politica di piccolissimo cabotaggio, che rema a fatica da una notiziola giudiziaria all´altra. Non è un caso se tra i quesiti referendari l´unico che ha avuto dignità di stampa è quello che chiede l´annullamento della legge sul legittimo impedimento.
Ma, come diceva Einstein, non possiamo pensare di risolvere i problemi con la stessa mentalità con cui li abbiamo creati. Abbiamo creduto che il mondo della politica fosse interamente e costantemente al servizio del bene pubblico. Quella politica ha prodotto una norma inaccettabile, che addirittura dimentica alcune leggi fondamentali del tanto amato libero mercato.
Sì, perché nel libero mercato si deve essere liberi di vendere ma anche di comprare. Le due controparti (la domanda e l´offerta) si possono influenzare reciprocamente, stanno in una sorta di rapporto paritario, o per lo meno presunto tale. Se tu alzi troppo i prezzi io non compro, e quando vedrai che nessuno compra allora abbasserai i prezzi. Questo può succedere solo se tu sei libero di vendere e io sono libero di comprare.
Ma se tu possiedi qualcosa di indispensabile per la mia stessa esistenza, allora la mia libertà di acquistare non esiste. L´acqua, l´aria, le sementi, la salute, l´educazione, la fertilità dei suoli, la bellezza dei paesaggi, la creatività.... non possono essere assimilate alla categoria delle merci.
Il diritto necessita di nuovi paradigmi per gestire i cosiddetti "beni comuni". Se i beni comuni diventano proprietà di qualcuno, tutti gli altri, ad esclusione di quel "qualcuno" ne avranno un danno, la loro vita sarà in pericolo.
Ora, siamo a questo punto: esiste una norma che rende privatizzabile l´acqua e con quei referendum la possiamo cancellare. Occorre però che vadano a votare almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto. Nelle ultime elezioni politiche gli aventi diritto erano circa 47 milioni. Mal contati, occorre che circa 25 milioni di cittadini italiani, si rechino a votare.
Ma prima di tutto questo occorre che siano informati, che sappiano dove informarsi, che si rendano conto che siamo nel bel mezzo di una campagna referendaria fondamentale. A chi affidiamo questo incarico? Quella che ha prodotto la legge sulla privatizzazione? Oppure all´informazione, quella che si lascia trascinare nelle sabbie mobili della politica?
Occorre iniziare a far da noi. "Uscirne da soli – diceva don Milani – è l´avarizia. Uscirne insieme è la politica". Ecco, usciamone insieme da questo pantano, e creiamo, in ogni città, un nuovo soggetto politico, che faccia da punto di riferimento per la difesa dei beni comuni e l´informazione che li riguarda. Oggi lavorerà sull´acqua, ma le emergenze non scarseggiano: dalla cementificazione dilagante alle polveri sottili nell´aria alle lapidi fotovoltaiche sui campi fertili, dalle scuole senza carta igienica alle strade piene di immondizia.
La politica dei partiti non ce la fa. Non ha strumenti né energie, in questo momento, culturali o intellettuali, per una simile rivoluzione. Occorre che i cittadini si attivino. Senza bandiere, né raggruppamenti di sigle: non importa a nessuno sapere che berretto abbiamo sulla testa, importa sapere che pensieri abbiamo dentro la testa e che azioni sappiamo produrre. Chiamiamola Azione Popolare, come suggerisce Settis nel suo libro "Paesaggio, costituzione, cemento" (Einaudi), o in qualsiasi altro modo. Ma sbrighiamoci, perché abbiamo bisogno di queste nuove strutture, leggere, puntuali, attente, legate ai municipi, alle parrocchie alle bocciofile, non importa: basta che coagulino persone che agiscano come presidi di cervelli e cuori sui territori, nelle grandi città come nei borghi. Oggi si diano da fare per far sapere a tutti di cosa si sta parlando quando si parla di acqua pubblica, quali valori sono in gioco, quali pericoli sono in agguato. Il comitato promotore dei referendum "Acqua bene comune" ha fatto, finora, i miracoli. Quasi un milione e mezzo di firme raccolte e due quesiti su tre passati è un risultato straordinario. Adesso i territori si mobilitino, fino a quando non avremo la certezza che 25 milioni di italiani sono andati a votare: altrimenti i referendum non saranno validi. Poi, statene certi, quelle strutture non resteranno senza lavoro. Lo dico con un po´ di tristezza, perché in un mondo ideale non dovrebbero avere nulla da fare. Ma siamo nel mondo reale, e c´è tanto lavoro da fare perchè diventi il miglior mondo possibile.

mercoledì 9 febbraio 2011

Egitto. Difendiamo piramidi e Faraoni dai fondamentalisti

Egitto. Difendiamo piramidi e Faraoni dai fondamentalisti
Valerio Massimo Manfredi
Il Giornale 8/2/2011

L'Occidente si mobiliti: per gli integralisti islamici i faraoni erano pagani e le loro immagini offendono Allah

Improvvisamente il mondo si accorge che la sponda sud del Mediterraneo è una polveriera, che l'incendio scoppiato prima in Tunisia poi in Egitto potrebbe diffondersi in tutto il vicino oriente con conseguenze catastrofiche. L'Egitto è stato fino ad ora il pilastro della stabilità di quest'area, con un trattato di pace con Israele, con un rapporto stretto con gli Stati Uniti, con un prestigio culturale e religioso indiscusso ma anche con caratteristiche di fragilità molto elevate. L'Egitto ha più di ottanta milioni di abitanti con una crescita demografica di oltre un milione di persone all'anno su un territorio esiguo (il 90% è deserto) esausto per le conseguenze di una antropizzazione plurimillenaria, e una economia fatta di terziario, turismo e agricoltura. Si calcola che i disordini abbiano causato una perdita del Pil del 10% e che l'intero sistema potrebbe collassare se la situazione non si risolve in un modo o nell'altro. In un quadro simile il saccheggio e la vandalizzazione del Museo egizio del Cairo, testimoniati a più riprese dai media, può apparire ben poca cosa ma non è così e i precedenti verificatisi in situazioni analoghe in altri Paesi lo dimostrano. Durante la guerra fra i talebani (appoggiati dagli americani) e gli occupanti sovietici dell'Afghanistan andò quasi distrutto il museo archeologico nazionale di Kabul che custodiva le più importanti testimonianze dell'arte Gandhara, un fenomeno culturale unico al mondo creatosi con l'incontro fra la civiltà greca e quella indiana in seguito all' occupazione macedone dell' Afghanistan e all'istituzione del regno greco di Battriana durato oltre due secoli. Qualche anno fa il museo è stato ricostituito grazie all'opera di alcuni coraggiosi archeologi che erano riusciti a mettere al sicuro in luoghi segreti i pezzi che avevano potuto salvare, ma le perdite sono comunque inestimabili. La ragione per cui ciò è avvenuto sta nel fatto che per i talebani quegli oggetti avevano al massimo un valore venale per cui si potevano vendere per finanziare la guerra con il ricavato oppure erano semplicemente testimonianze di un mondo pagano e quindi si potevano tranquillamente distruggere. La prova è la distruzione dei Budda di Bamyan, due colossi scolpiti nell'arenaria alti uno cinquantatrè metri e l'altro trentasette. Ambedue furono sbriciolati a cannonate e poi con l'esplosivo nel marzo del 2003 e a nulla valsero le pressioni da tutte le parti del mondo perché i due capolavori fossero risparmiati, né l'offerta del Metropolitan Museum di NewYork disposto a tagliarli e a rimontarli in America. Non molto diversamente andarono le cose in Irak, dove in occasione dell'occupazione americana di Bagdad l'Iraki Museum fu saccheggiato e centinaia di pezzi di straordinario valore scomparirono senza lasciare traccia. Fra essi il busto in rame di Sargon II, un'opera che compare in tutti i testi di storia dell'arte del mondo. Il bilancio finale fu disastroso: ancora oggi centinaia di capolavori mancano all'appello e in tutto il Paese si parla di molte migliaia di pezzi scomparsi. La maggior parte probabilmente di valore contenuto ma molti, tuttavia, di importanza fondamentale. Anche qui l'opera degli archeologi iracheni, americani, italiani e di altri Paesi ha grandemente limitato il danno che altrimenti avrebbe potuto essere completo e irreparabile. Il Museo del Cairo è un'istituzione veneranda che risale al 1859, voluta dal Khedivé d'Egitto e realizzata da Auguste Ferdinand Mariette mitico fondatore del Servizio delle Antichità dell'Egitto, ed è praticamente lo scrigno della memoria dell'Egitto. Contiene il tesoro di Tutankhamon, una quantità di sarcofagi dipinti, mummie di sovrani famosi come Ramses II, preziosi testi su papiro, oggetti e scene miniaturistiche, gioielli, armi, opere d'arte di straordinaria bellezza. Insomma le testimonianze di tutta una civiltà. Se finisse in balia dei disordini i danni potrebbero essere incalcolabili. E’ interessante considerare che i Paesi arabi laici come l'Irak di Saddam Hussein, la Tunisia e lo stesso Egitto hanno sempre valorizzato grandemente la storia preislamica dei loro popoli, probabilmente anche in funzione anti-fondamentalista. Saddam si paragonava a Nebuchadnezzar, Mubarak ha sempre sostenuto l'immagine faraonica dell'Egitto (basti pensare al frenetico attivismo di Zahi Awass) e la Tunisia organizzò addirittura il rimpatrio delle presunte (quanto improbabili) ceneri di Annibale. Per non parlare dell'Iran dello Shah, che non era arabo ma comunque musulmano, dove vennero grandemente valorizzate le radici achemenidi della Persia. Sarebbe in ogni caso un disastro se le memorie di civiltà tanto prestigiose fossero trascinate nella rovina di chi ne ha fatto uso non sempre corretto. D'altra parte l'emergere dei fratelli musulmani di matrice indubbiamente fondamentalista non aiuterebbe: per loro gli egiziani faraonici erano dei pagani e le loro immagini offendono Dio. E augurabile che chiunque vinca si renda almeno conto che ogni danno inferto ai tesori dell'antichità è un danno grave per l'Egitto di oggi ma anche per l'eredità culturale e storica dell'intera umanità. In una situazione così drammatica l'Occidente non può stare a guardare: l'Egitto ha bisogno di aiuto.