domenica 18 dicembre 2011

13 Bankers: The Wall Street Takeover and the Next Financial Meltdown

13 Bankers: The Wall Street Takeover and the Next Financial Meltdown

Simon Johnson, James Kwak

Anche dopo la rovinosa crisi finanziaria del 2008, l'America continua ad essere dominata dai saccheggi di una oligarchia che è ora più grande, più redditizia e più resistente alla regolamentazione che mai. Ancorato da sei megabanche-Bank of America, JPMorgan Chase, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley, che insieme controllano asset pari, sorprendentemente, a più del 60 per cento del prodotto interno lordo del paese, queste istituzioni finanziarie (ora più enfaticamente "troppo grandi per fallire") continuano a tenere in ostaggio l'economia globale, minacciando l'ennesima crisi finanziaria con i loro rischi eccessivi e tossici. Come si è arrivati ​​ad essere così, e cosa si deve fare? Questa è la preoccupazione centrale di 13 Bankers, un brillante, resoconto storicamente informato della nostra travagliata economia politica.

In 13 dei banchieri, Simon Johnson, uno degli economisti più importanti e frequentemente citata in America (ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, professore di imprenditoria presso il MIT, James Kwak ci danno un resoconto di ampio respiro, meticoloso, e tonificante della recente storia finanziaria degli Stati Uniti nel contesto dei crolli precedenti tra la democrazia americana e la grande finanza: da Thomas Jefferson ad Andrew Jackson, da Theodore Roosevelt a Franklin Delano Roosevelt. Essi mostrano in maniera convincente perché il nostro futuro è in pericolo dall'ideologia della finanza (la finanza è buona, la finanza non regolamentata è meglio, eseguire finanza senza restrizioni è la cosa migliore) e dal controllo politico di Wall Street della politica del governo riguardo ad essa.

Come gli autori insistono, la scelta che l'America deve affrontare è dura: se Washington entreranno a far parte interessi di un settore finanziario che corre sfrenata nel realizzare profitti in anni buoni e scarica le sue perdite per i contribuenti in anni di magra, o la riforma attraverso la regolamentazione rigorosa del settore bancario sistema prima di tutto un motore di crescita economica. Per ripristinare la salute e l'equilibrio per la nostra economia, Johnson e Kwak fannoe una proposta radicale ma fattibile e concentrati: ". Sufficientemente piccolo per fallire" riconfigurare le megabanche.






sabato 17 dicembre 2011

Dare medicine ai sani. Le case farmaceutiche fanno affari

Il Fatto 29.11.11
Dare medicine ai sani. Le case farmaceutiche fanno affari
Il mensile “E” di Emergency spiega la tattica miliardaria
Chiara Paolin

Il settore del farmaco scoppia di salute, e il mensile E, edito da Emergency, mette in fila i numeri per scoprire quanto vale “Il business dei sani”, come titola la copertina del numero oggi in edicola.
Un business da primato, che nemmeno la crisi planetaria ha scalfito. “Il giro d’affari delle aziende farmaceutiche nel mondo ha superato nel 2010 i 610 miliardi di euro, fatturato a cui quelle italiane contribuiscono con una quota di circa 25 miliardi spiega l’inchiesta di Roberta Villa -. La spesa media pro capite di ogni italiano per le medicine è di oltre 300 euro l’anno, ma non è tutto qui, perché il settore dei farmaci concorre per meno del 15 per cento all’intero comparto economico che ruota attorno alla salute. E questo mercato del benessere, dai confini sempre più sfumati, rappresenta ormai il 10 per cento dei consumi in Europa e il 15 per cento negli Stati Uniti”.
Insomma, meno male, un settore che tira e non licenzia. Peccato per le conseguenze collaterali, che hanno nomi difficilotti ma spiegazioni assai semplici. Il “disease mongering” non è un morbo contagioso ma la prassi di marketing che negli ultimi anni ha consentito al comparto di far volare utili e nuovi brand: come spiega Gianfranco Domenighetti, docente di Comunicazione ed economia sanitaria presso l’Università della Svizzera italiana, l’importante non è riuscire a vendere più medicine ai soliti malati, ma sensibilizzare la gente a nuovi consumi nel nome di una presunta attenzione alla salute. Come?
SEMPLICE, basta “gonfiare l’importanza di una malattia o, se occorre, inventarsela di sana pianta” dice Domenighetti invitando l’utente medio a meditare sull’utilità di screening massivi e campagne di prevenzione sempre più frequenti.
Perché, a dire il vero, le malattie restano più o meno le stesse e “solo il 2,4 per cento dei farmaci immessi sul mercato dal 1981 al 2008 rappresenta un vero importante progresso terapeutico, mentre l’80 per cento non sono che copie dell’esistente, a eccezione del prezzo, che di regola è triplicato”
chiosa l’economista svizzero. Ma davvero l’industria riesce a condizionare la domanda di farmaci fino al punto di danneggiare il reale interesse del consumatore/paziente? Risponde Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano: “Questa idea di curare i sani è solo l’ultimo atto di una strategia che inizialmente è partita allargando artificialmente la platea dei malati. Non è un caso che i valori-soglia considerati un tempo normali per la glicemia, il colesterolo o la pressione arteriosa siano stati progressivamente abbassati: per ognuno di questi aggiustamenti, è cresciuto a dismisura il numero di persone cui prescrivere medicinali”. E se la prossima volta che leggerete sul giornale un mega inserto sulla salute dove si parla di doloretti alla schiena, tenete a mente questa battuta rapida ma efficace: “La fibromialgia, per esempio, è una ‘nuova’ malattia che sembra fatta apposta allo scopo di vendere analgesici”. Parola di Garattini.
Oltretutto, c’è da ragionare sulla relatività del concetto salute e sulla forza dei modelli culturali capaci di espandersi a suon di investimenti miliardari. Gli Stati Uniti, si sa, sono la patria dell’extra large e anche in ambito farmaceutico stanno facendo scuola alla vecchia Europa. Negli Usa una persona su quattro prende ogni giorno la pillola per tenere a bada la pressione e i medicinali contro gli stati ansiosi sono ormai alla portata dei bambini di quattro anni. Donne isteriche? Uomini disoccupati? Adolescenti inquieti? Tutti in fila per la terapia, magari venduta via internet con sconti favolosi, giusto per invogliare il cliente.
IN ITALIA, storicamente, la classe medica ha posto un freno all’invadenza del business, ma i tempi magri e l’inesorabile tendenza al supporto fast meglio buttar giù un antidolorifico al volo piuttosto che impegnare tempo e denaro in cure tradizionali cui la sanità pubblica non può più far fronte fanno pensare a un futuro ancor più florido per i commercianti del benessere. “Per questo abbiamo deciso di occuparcene spiega Maso Notarianni, vicedirettore di E -. Noi siamo la testata di Emergency, e tutti si aspettano notizie sulle attività nei vari luoghi del mondo dove opera l’organizzazione. In realtà il mondo è un affare complicato, dove tutto si correla. I soldi, la ricchezza, la democrazia, i diritti umani. Anche in Italia, nella sanità privata o in quella pubblica, c’è chi pensa solo al profitto. Secondo noi la salute è un’altra cosa, il rispetto per l’essere umano è la priorità: in un ospedale sperduto tra la guerra o nella clinica degli orrori a Milano cambia poco”.

mercoledì 7 dicembre 2011

La mistica del capitalismo. Dalle monete ai brand i nuovi oggetti di culto

«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione»
La Repubblica 6.12.11
La mistica del capitalismo. Dalle monete ai brand i nuovi oggetti di culto
Roberto Esposito

Adesso gli studiosi discutono di come sia possibile uscire dal paradigma liturgico
Il discorso economico e finanziario, nel corso del tempo, ha assunto toni quasi religiosi
L´analogia funziona anche per i paesi dell´Oriente dove l´accostamento è con il taoismo
Il punto è come togliere questa impronta teologica tornando alle pratiche reali

«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni». Queste fulminanti parole di Walter Benjamin – tratte da un frammento del 1921, pubblicato adesso nei suoi Scritti politici, a cura di M. Palma e G. Pedullà per gli Editori Internazionali Riuniti – esprimono la situazione spirituale del nostro tempo meglio di interi trattati di macroeconomia. Il passaggio decisivo che esso segna, rispetto alle note analisi di Weber sull´etica protestante e lo spirito del capitalismo, è che questo non deriva semplicemente da una religione, ma è esso stesso una forma di religione. Con un solo colpo Benjamin sembra lasciarsi alle spalle sia la classica tesi di Marx che l´economia è sempre politica sia quella, negli stessi anni teorizzata da Carl Schmitt, che la politica è la vera erede moderna della teologia.
Del resto quel che chiamiamo "credito" non viene dal latino "credo"? Il che spiega il doppio significato, di "creditore" e "fedele", del termine tedesco Gläubiger. E la "conversione" non riguarda insieme l´ambito della fede e quello della moneta? Ma Benjamin non si ferma qui. Il capitalismo non è una religione come le altre, nel senso che risulta caratterizzato da tre tratti specifici: il primo è che non produce una dogmatica, ma un culto; il secondo che tale culto è permanente, non prevede giorni festivi; e il terzo che, lungi dal salvare o redimere, condanna coloro che lo venerano a una colpa infinita. Se si tiene d´occhio il nesso semantico tra colpa e debito, l´attualità delle parole di Benjamin appare addirittura inquietante. Non soltanto il capitalismo è divenuto la nostra religione secolare, ma, imponendoci il suo culto, ci destina ad un indebitamento senza tregua che finisce per distruggere la nostra vita quotidiana.
Già Lacan aveva identificato in questa potenza autodistruttiva la cifra peculiare del discorso del Capitalista. Ma lo sguardo di Benjamin penetra talmente a fondo nel nostro presente da suscitare una domanda cui la riflessione filosofica contemporanea non può sottrarsi. Se il capitalismo è la religione del nostro tempo, vuol dire che oltre di esso non è possibile sporgersi? Che qualsiasi alternativa gli si possa contrapporre rientra inevitabilmente nei suoi confini – al punto che il mondo stesso è "dentro il capitale", come suona il titolo di un libro di Peter Sloterdijk (Il mondo dentro il capitale, Meltemi 2006)? Oppure, al di là di esso, si può pensare qualcosa di diverso – come si sforzano di fare i numerosi teorici del postcapitalismo? Intorno a questo plesso di questioni ruota un intrigante libro, originato da un dibattito tra filosofi tedeschi, ora tradotto a cura di Stefano Franchini e Paolo Perticari, da Mimesis, col titolo Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione.
Da un lato esso spinge l´analisi di Benjamin più avanti, per esempio in merito all´inesorabilità del nuovo culto del brand. Tale è la sua forza di attrazione che, anche se vi è scritto in caratteri cubitali che il fumo fa morire, compriamo lo stesso il pacchetto di sigarette. Come in ogni religione, la fede è più forte dell´evidenza. Dior, Prada o Lufthansa garantiscono per noi più di ogni nostra valutazione. Le azioni cultuali sono provvedimenti generatori di fiducia cui non è possibile sfuggire. Non a caso anche i partiti politici dichiarano "Fiducia nella Germania" a prescindere, non diversamente da come sul dollaro è scritto "In God we trust". Ma, allora, se il destino non è, come credeva Napoleone, la politica, ma piuttosto l´economia; se il capitale, come tutte le fedi, ha il suo luoghi di culto, i suoi sacerdoti, la sua liturgia – oltre che i suoi eretici, apostati e martiri – quale futuro ci attende?
Su questo punto i filosofi cominciano a dividersi. Secondo Sloterdijk, con l´ingresso in campo del modello orientale – nato a Singapore e di lì dilagato in Cina e in India – si va rompendo la triade occidentale di capitalismo, razionalismo e liberaldemocrazia in nome di un nuovo capitalismo autoritario. In effetti oggi si assiste a un curioso scambio di consegne tra Europa e Asia. Nel momento stesso in cui, a livello strutturale, la tecnologia europea, e poi americana, trionfa su scala planetaria, su quello culturale il buddismo e i diversi "tao" invadono l´Occidente. La tesi di Zizek è che tra i due versanti si sia determinato un perfetto (e perverso) gioco delle parti. In un saggio intitolato Guerre stellari III. Sull´etica taoista e lo spirito del capitalismo virtuale (ora incluso nello stesso volume), egli individua nel buddismo in salsa occidentale l´ideologia paradigmatica del tardo capitalismo. Nulla più di esso corrisponde al carattere virtuale dei flussi finanziari globali, privi di contatto con la realtà oggettiva, eppure capaci di influenzarla pesantemente. Da questo parallelismo si può trarre una conseguenza apologetica o anche una più critica, se riusciamo a non identificarci interiormente col giuoco di specchi, o di ombre cinesi, in cui pure ci muoviamo. Ma in ciascuno dei casi restiamo prigionieri di esso.
È questa l´ultima parola della filosofia? Diverremo tutti, prima o poi, officianti devoti del culto capitalistico, in qualsiasi versione, liberale o autoritaria, esso si presenti? Personalmente non tirerei questa desolata conclusione. Senza necessariamente accedere all´utopia avveniristica del Movimento Zeitgeist o del Venus Project – entrambi orientati a sostituire l´attuale economia finanziaria con un´organizzazione sociale basata sulle risorse naturali –, credo che l´unico grimaldello capace di forzare la nuova religione del capitale finanziario sia costituito dalla politica. A patto che anch´essa si liberi della sua, mai del tutto dismessa, maschera teologica. Prima ancora che sul terreno pratico, la battaglia si gioca sul piano della comprensione della realtà. Nel suo ultimo libro, Alla mia sinistra (Mondadori, 2011), Federico Rampini percorre lo stesso itinerario – da Occidente a Oriente e ritorno – ma traendone una diversa lezione. All´idea di "mondo dentro il capitale" di Sloterdijk è possibile opporre una prospettiva rovesciata, che situi il capitale dentro il mondo, vale a dire che lo cali dentro le differenze della storia e della politica. Solo quest´ultima può sottrarre l´economia alla deriva autodissolutiva cui appare avviata, governandone i processi ed invertendone la direzione.

martedì 15 novembre 2011

Protesta sotto il Tesoro “Draghi Indignati” contro Monti: «Il governo delle banche e dei mercati»

l’Unità 12.11.11
Iniziative in tutta Italia. Tensione a Milano alla sede di Unicredit, uova contro le forze dell’ordine
Protesta sotto il Tesoro “Draghi Indignati” contro Monti: «Il governo delle banche e dei mercati»
Gli studenti tornano in piazza «Occupiamo tutto, ovunque»
A Bologna uova contro Equitalia. Blitz a Palermo, Napoli, Firenze. Nel mirino banche e agenzie interinali. A Roma, la protesta dei “draghi ribelli” sotto il Tesoro. Ma la polizia identifica tutti. Anche il “drago”
di Mariagrazia Gerina

«Qualcuno sa che voce ha il futuro presidente del Consiglio?», grida al megafono un ragazzo. In tasca ha un editoriale pubblicato dal Corriere della Sera: «Monti è stato un grande estimatore della riforma Gelmini. E poi era l’advisor di Goldman Sachs. Altro che governo tecnico, sono le banche e i mercati ad avercelo imposto», spiega alla platea, seduta in cerchi concentrici, nel bel mezzo di via XX Settembre, a pochi metri dal ministero del Tesoro.
C’è chi scrive sui cartelli una lettera alla Bce, alternativa a quella di Berlusconi. Chi elenca dove vanno fatti i tagli: «Tassa patrimoniale sulle rendite finanziarie e sui capitali rientrati dall’estero...». Chi suggerisce dove investire: «Case a canoni agevolati, asili nido, scuola e università... energia rinnovabile». La parola chiave è «alternativa». «Ci sono tanti modi per uscire dalla crisi, non solo quelli della Bce. Non possono dare retta solo ai mercati, devono stare a sentire anche noi che siamo il 99%», dice ancora il ragazzo al megafono.
È stata la fatalità della data scelta dagli indignados di tutto il mondo per un’altra convocazione generale dopo quella del 15 ottobre, se i “draghi ribelli”, nati un mese fa al grido di Occupy Bankitalia, sono tornati in piazza alla vigilia dell’insediamento del nuovo governo.
«Occupy everithing, occupy everywhere», era l’inpunt globale. E nel mirino, in tutta Italia, sono finite soprattutto le banche. A dare inizio alla protesta, Milano. Con una irruzione nella filiale della sede centrale di Unicredit in piazza Cordusio. E qualche momento di tensione (lanci di uova e pomodori da una parte, manganellate dall’altra), quando il corteo degli studenti ha cercato di deviare dal percorso. Poi l’irruzione nella sede della Mediolanum al grido di «Espropriamo Berlusconi». E il blitz nella sede milanese del Parlamento Europeo in corso Magenta. Con finti titoli di Stato italiani, greci e irlandesi, bruciati per protesta, in mezzo alla strada. A Bologna, gli indignados hanno bersagliato con un lancio di uova soprattutto gli uffici di Equitalia. A Pisa hanno dato vita a un blocco stradale per impedire un’iniziativa del ministro del Welfare Maurizio Sacconi. A Firenze, hanno lanciato un «acampada» in stile spagnolo, in piazza Santissima Annunziata.
A Roma, l’appuntamento era davanti al ministero del Tesoro, dove i “draghi ribelli” si sono presentati con la “maschera” del futuro presidente del consiglio, accanto a quella di Mario Draghi, loro antagonista di un mese fa. Lo slogan coniato per l’occasione non lascia spazio a dubbi: «Né Tre-Monti, né Monti, non facciamo sconti». Tra i “draghi ribelli” l’idea di un governo tecnico, guidato dall’ex commissario europeo, non riscuote consensi.
NÉ TRE-MONTI NÉ MONTI
«La retorica della responsabilità nazionale è solo un altro modo per rispondere ai diktat delle banche, e non mi piace l’idea di uno che ci viene imposto dall’alto», spiega Andrea, studente di Filosofia, alla Sapienza. Meglio sarebbero le elezioni: «Votare per scegliere chi ci deve governare dopo Berlusconi mi sembrerebbe il minimo dice Andrea -.
Altrimenti, la distanza tra noi e chi ci dovrebbe rappresentare sarà ancora più grande».
Mentre parla un cordone di polizia in assetto antisommossa circonda le poche decine di manifestanti, seduti in assemblea. «Ma chi state difendendo? Da cosa?», grida al megafono Francesco Raparelli. Prima ancora che il sit-in iniziasse, la polizia ha cominciato a schedare tutti quelli che si avvicinavano al luogo dell’appuntamento. Compreso il dragone simbolo del movimento, portato in moto da un ragazzo, che studia Scienze Politiche.
«Se lo spazio entro cui vogliono restringere i movimenti e la società civile è angusto come quello che hanno lasciato oggi a noi la vedo male», pronostica Luca Cafagna, uno dei portavoce della protesta studentesca, che nei prossimi giorni tornerà ad accendersi con iniziative e occupazioni. In vista della giornata mondiale degli studenti, il prossimo 17 novembre. Su Roma, pende ancora il divieto di corteo, deciso da Alemanno. I “draghi ribelli” ieri lo hanno sfidato, con un piccolo corteo a chiudere il sit-in. Il 17 ci riproveranno, con altri numeri. Ma Alemanno già invoca l’intervento delle forze dell’ordine.

martedì 11 ottobre 2011

“Occupiamo Wall Street” Tutto è iniziato con un post

il Fatto 7.10.11
“Occupiamo Wall Street” Tutto è iniziato con un post
Ancora scontri tra Indignati d’America e polizia
di Angela Vitaliano

Abbiamo avuto la più grande crisi finanziaria dalla Grande Depressione con conseguenti danni collaterali in tutto il Paese e si vedono ancora alcuni di quelli che hanno agito irresponsabilmente andarci giù pesante con quelle stesse procedure corrotte che ci hanno per prime portato in quella situazione. Per questo penso che le persone siano frustrate”. Parla degli indignados di OWS, Obama, a margine di una conferenza stampa, in cui decide che non è più momento di tacere su quanto, da settimane, sta avvenendo nel quartiere finanziario di Manhattan: “Chi protesta stia sicuro che il nostro obiettivo è quello di avere le banche e le istituzioni finanziarie in ordine, perché le peggiori conseguenze sono sempre quelle sull'economia reale”. Nessuno ignora più, dunque, il movimento, giunto al suo 20° giorno di occupazione dell’area di Zuccotti Square, a poca distanza da Wall Street, lì dove quell’1% di persone riesce a “manipolare” la ricchezza del 99% di americani che, invece, la crisi la sta soffrendo fino in fondo e da troppo tempo.
E SE OBAMA “parla” con gli indignados, promettendo il suo appoggio nella battaglia alla “cattiva politica” della finanza, anche i media ora trattano il movimento con attenzione. Per la prima volta mercoledì, in occasione della marcia organizzata con l’appoggio di moltissime sigle sindacali, la Msnbc, canale nazionale, ha mandato i propri giornalisti e cameramen per seguire in diretta quanto avveniva a downtown. Lo stesso ha fatto Keith Olbermann che dalle frequenze di Current tv, per primo, sin dalla prima settimana di attività del movimento, gli aveva dato spazio nel suo programma. Finora gli indignados a stelle e strisce avevano potuto contare solo sui social network, in particolare twitter, e su alcuni website che avevano “sposato” la loro causa fin dal principio. A cominciare dal sito della rivista anticapitalistica adbuster.org   che, sin dall’estate, aveva chiamato a raccolta quelli che questa situazione non la reggono più per dare vita a quello che ormai viene comunemente denominato “l’autunno newyorchese”.
SICURAMENTE, l’adesione dei sindacati alla protesta e la loro presenza massiccia alla marcia di mercoledì è servita a dare un ulteriore spinta alla popolarità degli indignados che ogni giorno, pioggia o sole, si riuniscono in assemblea, per discutere la piattaforma dei loro programmi. Con loro giovedì anche Naomi Klein, l’attivista canadese nota per i suoi interventi contro la finanza delle corporazioni.
La marcia di mercoledì di è svolta in maniera assolutamente pacifica fino a quando un gruppo di dimostranti ha tentato di occupare Wall Street scatenando la reazione della polizia e l’arresto di altre ventiquattro persone. Il movimento degli indignados, che ora stampa anche un proprio giornale, The Occupy Wall Street Journal, ha, fra l’altro, presentato una class-action contro il sindaco Bloomberg e contro il capo delle polizia Kelly per i 700 arresti sul ponte di Brooklyn. Non ci sono dubbi che la battaglia per appurare le responsabilità degli uni e degli altri negli scontri sarà uno degli argomenti più importanti anche nei prossimi giorni. La prima notizia dei nuovi scontri si è avuta, ancora una volta, via Twitter, proprio mentre, l’altra metà della rete apprendeva la notizia della scomparsa di Jobs.

lunedì 10 ottobre 2011

L’antipolitica dei bravi ragazzi senza futuro

La Stampa 3.10.11
L’antipolitica dei bravi ragazzi senza futuro
di Umberto Gentiloni

Park Place, lower Manhattan, piccolo rettangolo incastonato tra Ground Zero e Wall Street, è diventato uno strano incrocio di percorsi e storie; da qualche giorno è il ritrovo per centinaia di manifestanti che presidiano i luoghi della Borsa e della finanza. In quell’imbuto di strade si trova anche l’uscita principale per chi visita il nuovo Memorial 9/11, nel vuoto lasciato dalle Torri gemelle. Turisti e residenti muniti di prenotazione si mettono in coda, gruppi di cento vengono ammessi ogni ora nel recinto del cantiere del World Trade Center. Si esce nel cuore della protesta studentesca; un accampamento dotato di ogni servizio: collegamenti con computer a ogni angolo, telecamere, materassi per terra, cibo, bevande e scatole di cartone di vari formati per la richiesta fondi. Fianco a fianco uomini d’affari in pausa pranzo con turisti segnati dalle emozioni del nuovo memoriale che arrotolano lunghi fogli di carta spessa distribuiti con una grande matita (Name Impression Kit) e utilizzati per imprimere il nome delle vittime.
Le voci dei ragazzi sono senza interruzione, si danno il cambio gridando slogan, parole d’ordine, lunghe e dettagliate piattaforme di rivendicazione scandite da un singolo e amplificate dal gruppo che lo circonda. I cartelli in mostra: «Difendiamo la nostra terra», «L’economia è come una stella che sembra produrre luce ma in realtà è già spenta» o ancora le domande sul luogo simbolo del ritrovo: «Non siamo protagonisti. Solo consapevoli». «Queste strade? Le nostre strade». Fino al grido d’allarme «Satana controlla Wall Street». Al centro della piazza un ammonimento: «Per favore. Niente droghe. Non ne parlare, non chiedere e non insistere. Noi non facciamo uso di sostanze!»; richiamo al passato e a stagioni lontane.
La protesta non raccoglie gli inviti di smobilitazione delle forze dell’ordine, seguono momenti di tensione e i primi fermi quando vengono occupate alcune strade limitrofe perpendicolari all’ultimo tratto della Broadway. Chi si trova da quelle parti guarda incuriosito e incerto sul da farsi. Tutto sembra fermarsi al suono della sirena dei pompieri, uno strano silenzio si sostituisce ai rumori diffusi, i ragazzi in piedi insieme ai turisti salutano il mezzo dei vigili del fuoco che si dirige versoNord. Un simbolo che unisce e rassicura, uno stimolo di orgoglio per i newyorkesi di varia provenienza; l’applauso forte copre alcuni minuti, nella piccola piazza torna la calma.
Un mix strano di sguardi e presenze, ma anche l’incontro tra nuove domande e antiche forme di protesta. Tutto viaggia via Internet ma la parola amplificata dalla piazza richiama i primi Anni Sessanta e le origini del movimento del Free Speech nella baia di San Francisco, gli albori della stagione del Sessantotto. La culla di quella protesta, l’Università di Berkeley, è ancora sotto i riflettori dei media, nelle stesse ore della cosiddetta «occupazione di Wall Street».
L’istantanea è molto diversa: una vendita di dolci al centro della celebre Sproul Plaza organizzata da giovani studenti repubblicani che chiedono di bloccare una legge sulle affermative action, vale a dire i criteri di ammissione in parte basati sui gruppi linguistici e culturali di appartenenza, sul genere e sul colore della pelle. Il tema non è certo inedito, ma i cupcakes (piccoli muffin ricoperti di glassa colorata) con prezzi diversificati arrivano sugli schermi della Cnn: 2 dollari per maschio bianco, 1 e mezzo per studente asiatico, 1 latino, 75 centesimi per gli african american e 25 per i native american; sconto previsto per le donne. Un menù provocatorio, venato di discriminazione secondo alcuni.
Dal 1995 le quote per le minoranze sono abolite da una legge californiana; il governatore Jerry Brown ha tempo fino al prossimo 9 ottobre per decidere su una proposta che le inserirebbe tra i diversi fattori per l’ammissione agli studi. Da qui la tensione tra le parti. Docenti e funzionari dell’università, cifre alla mano, rispondono che le differenze sono un valore irrinunciabile, visto che le «diverse minoranze» raggiungono il 16 per cento della popolazione studentesca, erano oltre il 20 nel 1994. Persino al di là di forme e contenuti sembra uno scherzo del destino o una fortuita coincidenza della storia. A dieci anni dall’11 settembre 2001, in simultanea sulle due coste dell’America le proteste di nuove generazioni attraversano simboli del secolo americano; nuove sfide convivono con antiche contraddizioni, la crisi del capitalismo finanziario con la difficile avanzata dei diritti civili.

sabato 8 ottobre 2011

Tra gli indignados di Zuccotti Park: tende, tamburi e rabbia

La Stampa 3.10.11
Tra gli indignados di Zuccotti Park: tende, tamburi e rabbia
“Basta, facciamo come in Egitto”
di Maurizio Molinari

Tamburi, computer, sacchi a pelo e bandiere americane costellano a Zuccotti Park l’accampamento di Occupare Wall Street, il gruppo di manifestanti che si propone di innescare negli Stati Uniti una protesta simile a quelle avvenute in Egitto e Gran Bretagna. «Sono arrivata con i primi, era il 17 settembre - racconta Zubeyda, 19 anni, del New Jersey -. Tutto è iniziato attraverso Twitter e Facebook, con i messaggi di un magazine di sinistra che dicevano “Ci vediamo a Freedom Plaza, porta 10 persone”, e così ho fatto».
Zuccotti Park, fra Broadway e Ground Zero, è stato scelto come sede della protesta «contro l’avidità di Wall Street» - come si legge in uno dei cartelloni all’entrata - perché è molto vicino alla Borsa e al tempo stesso, essendo un parco, consente di rimanervi 24 ore su 24. L’hanno rinominato Liberty Plaza e il comitato che coordina i militanti lo gestisce come un accampamento. Entrando da Broadway ci si trova nello «spazio pubblico» dove Abdullah, 26 anni, di New York, è uno dei suonatori di tamburi. «Barack Obama è come Hosni Mubarak e se ne deve andare pure lui - dice con rabbia -. Per chi è povero e di colore come me questo presidente è un traditore, anziché proteggere noi tutela i banchieri, se siamo qui è perché vogliamo un vero cambiamento».
Lasciandosi alle spalle i tamburi si arriva nella «zone dei media» dove su panchine di pietra e tavolini di legno i militanti dotati di computer sono al lavoro: sfruttano i social network per organizzare le marce che si svolgono ogni giorno, alle 12 e alle 17,30. Quella di sabato aveva raccolto oltre tremila persone e la scelta del comitato è stata di puntare sul Ponte di Brooklyn al grido di «Take the Bridge» (Prendiamo il Ponte). Ne sono scaturiti oltre 700 arresti. A raccontare com’è andata è Matt Brady, 24 anni, di Dover in Delaware, che c’era: «La polizia ci ha detto che potevamo andare, arrivati all’entrata del Ponte eravamo troppi per camminare solo sulle corsie pedonali, siamo andati avanti anche su quelle stradali e dopo poche centinaia di metri ci siamo trovati un muro di agenti davanti e un altro alle spalle. Ci hanno arrestati in massa».
Brady e Nicholas Moers, 21 anni, del New Jersey, hanno ancora i segni delle manette ai polsi e concordano nel dire che «è stata una trappola, volevano punirci e ci sono riusciti». Ma entrambi, reduci da un fermo durato fino alle 3 del mattino, assicurano che «non ci hanno piegato e marceremo ancora». Ogni fermato dovrà pagare 300 dollari di multa perché, spiega il portavoce della polizia Paul Browne, «li avevamo avvertiti che non dovevano invadere le corsie ma lo hanno fatto lo stesso».
Ci sono stati tafferugli e il vice-ispettore Anthony Bologna ha usato lo spray accecante, un video lo ha ripreso ed è finito sotto inchiesta. Il capo della polizia, Raymon Kelly, assicura che «se ha agito in maniera impropria sarà punito». Il Dipartimento di polizia circonda Zuccotti Park con un assedio leggero: gli agenti ci sono ma restano a distanza. Il suono dei tamburi non cessa mai ma l’angolo più visitato è là dove sono stesi sul selciato i cartelli che descrivono la protesta. Invitano a «Fire the Boss» (Licenziare il capo), assicurano che «One Day Everything Will Be Different» (Un giorno tutto sarà diverso), invocano «Destroy Power Not People» (Distruggi il potere, non la gente) e gridano «Tired of Capitalism» (Stanchi del Capitalismo) riassumendo quando sta arrivando con «Wall Street is Nero and Rome is Burning» (Wall Street è Nerone e Roma sta bruciando).
La sorpresa arriva quando, passando attraverso la zona cucine, dove caffè, muffin e sandwich vengono offerti da volontari, si arriva nel dormitorio disseminato di sacchi a pelo. È qui che i singoli espongono le proprie insegne e ci si accorge che la matrice di sinistra non è l’unica. Se infatti lo stemma del Partito socialista d’America campeggia in bella vista, altrettanto vale per i cappelli a tricorno e le bandiere del Tea Party, o per le insegne dei militanti libertari di Ron Paul, candidato repubblicano alla Casa Bianca. «Questo non è un partito politico - spiega Ignadi, 24 anni, seduto su un muretto con gli occhiali scuri e il berretto calato sulla fronte - perché sono presenti gruppi diversi, uniti solo dalla volontà di combattere la corruzione. Come mi ha detto un ex marine che ha dormito vicino a me, siamo qui per servire l’America».
I manifestanti pubblicano un giornale, «The Occupied Wall Street Journal» che in prima pagina proclama «La rivoluzione inizia a casa» e in ultima pubblica i cinque comandamenti della rivolta: Occupare, Passare parola, Donare, Seguire online l’occupazione, Istruirsi. I richiami alle altre proteste nel mondo sono costanti. Per Abdullah: «Dopo la Tunisia e l’Egitto abbiamo capito che toccava a noi ma il modello è Londra perché anche qui siamo pronti a batterci».
C’è un problema in vista e Matt lo riassume così: «Stanno per arrivare l’inverno e la neve, ci servono coperte e tende più resistenti, il comitato le sta cercando». Sempre ammesso che il proprietario di Zuccotti Park, una importante società immobiliare di Manhattan, non decida di chiedere agli agenti di sgombrare il parco mandando tutti a casa.

giovedì 6 ottobre 2011

«No allo strapotere della finanza»

l’Unità 3.10.11
La protesta. Da due settimane accampati vicino alla Borsa. «No allo strapotere della finanza»
Si ispirano alla Primavera araba e hanno prodotto un loro giornale, raccogliendo fondi sul web
«Non siamo anarchici. È la protesta del 99% contro l’avidità dell’1%»
Settecento arresti a New York. Indignados contro Wall Street
Fermata dalla polizia la marcia degli indignados americani, 700 arrestati. Da due settimane stazionano davanti a Wall Street contro l’ingordigia della finanza. «È la protesta del 99% contro lo strapotere dell’1%»
di Marina Mastroluca

Per qualcuno è stata una trappola. La marcia degli «indignados», che da due settimane stazionano pacificamente nei pressi di Wall Street, sabato scorso è finita peggio che si trattasse di hooligan scatenati a fine partita: settecento arrestati, e presto rilasciati, e una sfilza di accuse per disturbo dell’ordine pubblico, per aver bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn.
Che cosa sia davvero successo non è chiaro nemmeno a molti dei manifestanti. Un imbuto all’ingresso del ponte, la folla che si divide, qualcuno sui marciapiedi, altri intenzionati ad occupare la corsia. «Gli agenti guardavano e non facevano nulla, piuttosto sembravano guidarci verso la strada», ha raccontato Jesse A.Meyerson, uno dei coordinatori di «Occupy Wall Street». «Non c’era un solo poliziotto a dire: “Non lo fate” ha detto al New York Times Etan Ben-Ami, psicoterapista di 56 anni -. Ho pensato che ci scortassero per garantirci sicurezza». Comunque sia andata, per quel migliaio, forse 2-3000 persone che manifestano da due settimane la reazione degli agenti è stata quasi un colpo di fortuna: mai tanti titoli sulle prime pagine dei giornali, da quando è partita la versione Usa della Primavera araba, quello che dichiaratamente intendono essere i «ribelli» accampati allo Zuccotti Park, a poche centinaia di metri da Wall Street, bersaglio primario della loro indignazione.
«Questa non è una protesta contro la polizia di New York ha detto uno dei manifestanti, Robert Cammiso, alla Bbc -. Questa è la protesta del 99 per cento contro il potere sproporzionato dell’1 per cento. Non siamo anarchici. Non siamo hooligans. Io sono un uomo di 48 anni. L’1% che è in cima controlla circa il 50% della ricchezza degli Stati Uniti». Detto così, questo sembra essere il filo conduttore di una ribellione organizzata sul web fondamentale il ruolo del gruppo di hacker Anonymous e cresciuta spontaneamente. Tanti, tra quelli in piazza, hanno raccontato di essersi imbattuti per caso nella protesta e di essere rimasti. Per denunciare il disastro generazionale dei debiti universitari insolvibili in mancanza di lavoro l’Huffington Post ha denunciato in un reportage il diffondersi della prostituzione tra gli universitari in bolletta. Perché mentre nessuno si preoccupa di loro e di chi nella crisi ha perso la casa, i soldi dei contribuenti sono stati usati per salvare le banche. Ma anche per protestare contro la pena di morte, contro la guerra, contro l’avidità del sistema economico.
Giovani e non. Con un’occupazione persa o appesa a un filo. Nonni preoccupati dei nipoti. Figli senza prospettive. Studenti, insegnanti, organizzazioni sindacali, veterani, famiglie, gente comune: uno spaccato di classe media che vede allargarsi la forbice tra chi ha di più e chi ha di
meno, una generazione dopo l’altra, il sogno americano a raccogliere polvere in soffitta. Una realtà a molte facce, che sembra avere al momento più domande che risposte, e che a spanne rientra nel bacino elettorale di Obama, ma non ha visto il cambiamento in cui sperava. «Finché non alzi la voce è difficile che ti ascoltino. Ma è la maggioranza a pensarla come noi», raccontano.
Non saranno la maggioranza sui loro siti inclinano a sinistra. Ma hanno già raccolto parecchie adesioni, non solo quelle blasonate di Susan Sarandon e Michael Moore. Domani si uniranno alla loro protesta i lavoratori dei trasporti, i piloti d’aereo lo hanno fatto nei giorni scorsi. Per qualcuno come il reverendo Herbert Daughtry, attivista di antica data per i diritti umani sentito dal Washington Post, hanno l’aria di essere l’inizio di qualcosa: manifestazioni analoghe sono spuntate come funghi a Boston e San Francisco. «Quello che conta è la durata», dice. In piazza i pionieri di qualcosa che mobilita i sentimenti profondi della società. E anche qualcos’altro. Giovedì scorso è stata aperta una sottoscrizione sul sito Kickstarter per finanziare un giornale della protesta, viste le difficoltà a guadagnarsi l’attenzione mediatica. In 8 ore sono stati raccolti 12.000 dollari. E sabato il giornale è uscito quattro pagine di carta a colori, in controtendenza con il dna virtuale del movimento: il Wall street journal occupato, così si chiama. Tra le firme anche un ex corrispondente di guerra del New York Times, Chris Hedge. «Non ci sono scuse scrive -. O ti unisci alla rivolta in corso davanti a Wall Street e nei distretti finanziari di altre città, o ti trovi dal lato sbagliato della storia».

mercoledì 5 ottobre 2011

«La protesta cresce. I maghi di Wall Street cercano di zittirla»

Corriere della Sera 3.10.11
Intervista a Gay Talese
«La protesta cresce. I maghi di Wall Street cercano di zittirla»
di Ennio Caretto

WASHINGTON — «Spero, ma non sono certo, che sia la nascita di un movimento egualitario simile al movimento pacifista nella guerra del Vietnam, che i giovani, a cui si prospetta un misero futuro, si ribellino contro la finanza selvaggia che ha spaccato l'America, un'esigua minoranza sempre più ricca e un'enorme maggioranza sempre più povera. Oggi il vero potere è nelle mani di Wall Street perché essa sovvenziona la politica e condiziona così non solo il Congresso ma anche il governo, sottraendosi al loro controllo. E' un sistema che va cambiato, ma per farlo bisogna che lo sdegno popolare esploda e che i media gli diano rilievo, cose che sinora non si sono verificate, a differenza che in Gran Bretagna, in Spagna, nei Paesi della primavera araba».
Gli arresti a New York e a Boston hanno sorpreso Gay Talese, 79 anni, l'autore di «Onora il padre», «Il potere e la gloria» e di numerosi libri sulla mafia: «Potrebbero costituire una svolta, sono stati i primi scontri tra i dimostranti e la polizia, segno che la protesta cresce, e a ragione, perché le condizioni di troppe famiglie sono insostenibili». Ma lo scrittore dubita che la protesta si diffonda in fretta nel Paese: «Al momento è disorganizzata, non fa ancora presa sui ceti medio-bassi. Soprattutto, è quasi ignorata da radio, tv e giornali. Avrà qualche successo se ci sarà un'altra recessione, come negli anni 30».
Non è troppo scettico?
«Sono realista. Il movimento pacifista prevalse nella guerra del Vietnam perché il servizio militare era obbligatorio, e l'America vi aderì per proteggere la vita dei suoi figli. In maggioranza, i media l'appoggiarono senza remore. Ma oggi l'America è divisa perché una parte è al servizio di Wall Street mentre un'altra ne è vittima. E tra i clienti della finanza vi è la maggioranza dei media, per via della pubblicità, della proprietà, delle alleanze».
Non si salva nessuno?
«Ho passato mezzo secolo a New York, la metà nei giornali. Un tempo non era così, ma adesso i media sono veloci nell'evidenziare le ribellioni all'estero, ma lenti a illustrare quelle in casa. Eppure, i giovani di "Occupare Wall Street" meritano attenzione. La finanza che ha causato il disastro del 2007-2008 è più forte di prima, e i colpevoli non sono stati puniti, con l'eccezione di pochi personaggi secondari».
Wall Street è responsabile delle attuali tensioni sociali?
«Certamente. Se la finanza, salvata a carico dei contribuenti, fosse stata penalizzata e regolamentata, avrebbe cambiato condotta. Hanno molte responsabilità anche i governi, che non l'hanno riformata e che non hanno saputo creare nuovi posti di lavoro. I danneggiati sono soprattutto i giovani, una generazione che temo perduta. Io crebbi durante la Grande Depressione, a mio parere rischiamo di fare il bis».
Il silenzio dei media non rispecchia l'indifferenza del popolo americano?
«In qualche misura sì. La protesta in Europa è stata ed è più rapida e forte, anche perché i vostri sindacati sono più combattivi e i vostri partiti più numerosi e meno passivi. Per muoverci noi americani abbiamo bisogno di un nemico simbolico, uno alla Gheddafi, e a Wall Street non lo abbiamo individuato. Ma nemmeno Martin Luther King sarebbe riuscito a lanciare il Movimento dei diritti civili se i media l'avessero ignorato».
Perché è così duro con il mondo della finanza?
«Ci sono molti finanzieri e banchieri onesti. Ma ce ne sono anche molti per cui conta solo il profitto a tutti i costi. Una specie di mafia che si arricchisce a danno di chi lavora. Mi hanno colpito le immagini dei big di Wall Street che festeggiano mentre i dimostranti sfilano in strada, le due facce della nostra realtà economica».
New York non è stata spesso così?
«New York è una città cinica, che vive della ricchezza di Wall Street. I nostri ristoranti, cinema, teatri, negozi traboccano di gente, è come se la crisi non ci fosse. Qui vengono i ricchi di tutto il mondo a spendere. Non sarebbe nel suo interesse imbrigliare la finanza. Ma New York è anche una città liberal, e potrebbe ribellarsi».
La protesta è pro o contro Obama?
«Sarà pro Obama se spingerà il presidente a intervenire con maggiore decisione sulla finanza. Al momento è contro, i dimostranti lo accusano di essere troppo debole. Purtroppo anche nel suo governo ci sono ex leader di Wall Street. E' il guaio della nostra democrazia. Noi diciamo che tra Wall Street e Washington c'è una porta girevole».

All’assalto dei “ladri” di Wall Street

il Fatto 4.10.11
All’assalto dei “ladri” di Wall Street
Giovani, in rete, e contro il sistema capitalistico: l’America siamo noi
di Angela Vitaliano

New York. Ne arresti uno e ne spuntano due, questo sembra essere l’effetto finora ottenuto dai circa settecento fermi effettuati dalla polizia di New York nella giornata di sabato, nel tentativo di sgomberare il ponte di Brooklyn. A manifestare, marciando pacificamente, armati solo di parole poco gentili, scritte su cartelli e urlate, nei confronti di “quelli della finanza e della polizia”, erano gli ormai famosi indignados statunitensi, cioè i supporter del movimento Occupy Wall Street. “Noi siamo il 99%” si legge sul loro sito e su tutto il loro materiale di propaganda: il 99% di americani che soffre per una crisi senza fine a fronte di quell’uno per cento di “affaristi” di Wall Street che dettano regole buone solo per loro e per aumentare le proprie ricchezze. Il movimento, costituito in gran parte da giovani e giovanissimi che si ispirano, esplicitamente, alla Primavera Araba, ha cominciato a far parlare di sé da alcune settimane, anche se soprattutto via Twitter e Face-book, per aver occupato pacificamente un’area a ridosso di Wall Street, chiamata Zuccotti Park, dove i dimostranti dormono avvolti in sacchi a pelo e si danno il cambio senza mai lasciare completamente libera la zona.
La prima eco sulla stampa, tuttavia, si è avuta quando, Occupy Wall Street ha deciso di marciare nel pressi del Palazzo di Vetro, nei giorni dell’Assemblea generale, causando una reazione esacerbata della polizia, culminata nell’arresto di un’ottantina di persone. Niente in confronto alle 700 di sabato e, evidentemente, sufficienti solo per catalizzare l’attenzione di molti intorno al movimento e richiamare più supporter da ogni parte del paese.
CHRIS Longenecker, 24, responsabile per la pianificazione dei cortei, a proposito dei fatti di sabato, non esita a parlare di “provocatori” infiltrati in un movimento che è assolutamente pacifico e che non intende fermarsi fino al raggiungimento del proprio obiettivo: smantellare Wall Street o perlomeno le sue logiche. Molti degli “occupanti” non esitano a definirsi “socialisti” o “comunisti” e sottolineano con rigore che non vogliono essere “manipolati” né da democratici né da repubblicani, facce della stessa medaglia .
E se gli indignados, nella città del capitale, dove, però, non è raro vedere, come ovunque, ragazzi con indosso magliette di Che Guevara, si definiscono socialisti, i socialisti non perdono tempo a dargli tutto il loro appoggio, in maniera ufficiale. Molti infatti i gruppi socialisti, comunisti e marxisti che hanno espresso solidarietà e sostegno concreto al movimento. Il Partito socialista Usa, ad esempio, ha annunciato sul proprio sito web che “esprime totale appoggio alla mobilizzazione per occupare Wall Street a New York e in altre città e incoraggia tutte le nostre sedi locali a prendere parte attiva alle azioni”.
Il partito socialista, inoltre, auspica che il movimento contribuisca alla creazione di un “nuovo ordine sociale”. Se i Tea Party, dunque, combattono Obama con ogni arma perché “socialista”, i supporter del movimento Occupy Wall Street fanno esattamente lo stesso ma per la ragione opposta, “il presidente non è abbastanza socialista per smantellare Wall Street”. Il risultato, in periodo che si può già chiamare pre elettorale, è il rischio di una diserzione di massa dalle urne come segno della protesta civile contro il Congresso, nella sua totalità, e le logiche di Washington. A sostenere l’azione del movimento, anche Van Jones, ex consulente per l’ambiente alla Casa Bianca e fondatore, dalla scorsa estate del movimento Rebuild the dream che ha già raccolto numerosissime adesioni attraverso manifestazioni in tutto il paese. “Dopo la primavera araba – ha detto Jones – assisteremo ora all’Autunno statunitense e ottobre sarà solo l’inizio del cambiamento”.

Indignados, la protesta investe l’America

l’Unità 4.10.11
Non solo New York La «marcia» approda a Boston e Los Angeles e arriva fino in New Mexico
Liberi i fermati del ponte di Brooklyn. Tra loro anche una ragazzina. Similitudini con il Tea Party
Indignados, la protesta investe l’America Rilasciati i 700 «ribelli»
Nonostante si stiano conquistando l’appoggio dei sindacati, qualcuno inizia a paragonare gli Indignados ai movimentisti del Tea Party. La protesta, intando, si propaga nel resto degli Stati Uniti
di Martino Mazzonis

Il New York Police Department ha fatto un favore al movimento in gestazione degli occupanti di Wall street. I 700 arresti per aver bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn hanno dato enorme risonanza alla protesta contro le banche e la finanza che stava già crescendo sotto traccia nel resto del Paese. All’inizio della terza settimana di proteste, il campo allestito a Zuccotti Park, a poche centinaia di metri dalla Borsa, è diventato più affollato, le personalità della sinistra americana che si affacciano a fare un saluto aumentano e il numero di gruppi che si segnalano nel resto degli Stati Uniti non fa che crescere. Durante il fine settimana a San Francisco, Boston, Los Angeles, Chicago, Seattle sono sorti i primi campi di tende davanti alle banche o alla sede locale della Federal reserve. A Columbus, capitale dell’Ohio, un corteo per le strade del centro. Ma sul sito Occupytogether.org il numero di gruppi nati spontaneamente è molto più grande e tocca un centinaio di località sparse per il Paese. In California, naturalmente, ce ne sono di più. E da ogni parte d’America persone si prendono un paio di giorni per arrivare a New York e partecipare alla protesta.
Ieri a New York è stata la volta di una marcia di zombie mangia-dollari nel Liberty park a rappresentare la cupidigia della finanza. E dell’inizio delle proteste e della pressione sul Dipartimento di polizia della città di New York per aver usato metodi eccessivi di fronte ad una manifestazione assolutamente pacifica. Una giovane corrispondente del New York Times descrive una situazione non particolarmente violenta ma comunque apparentemente preparata: la polizia, dopo aver fatto entrare il corteo sul ponte, lo ha chiuso ed ha proceduto agli arresti, “all’inizio con una certa brutalità”.
LA LEZIONE DI SEATTLE
La rappresentazione, le forme di gestione, l’assenza di leader hanno caratteristiche in comune con gli indignados spagnoli ed alcune delle rivolte scoppiate nel mondo arabo. Torna anche l’esperienza cominciata a Seattle nel 1999, con in più le possibilità create dalla rete e dai social media che nei primi anni Duemila erano ai primi passi. E con la novità che chi protesta oggi vive la crisi ed è preoccupato per la propria vita e quella delle persone che gli stanno accanto. C’è anche una similitudine con il Tea Party: l’indignazione contro l’ eccessiva contiguità tra finanza e politica e l’assenza di leader riconosciuti sono una caratteristica della parte spontanea di quel movimento. Proprio della necessità di un Tea Party di sinistra parlava ieri sul Washington Post E. J. Dionne, autorevole commentatore liberal. Il riferimento è a Roosevelt e Johnson, presidenti che poggiarono la loro azione riformatrice sulla spinta delle mobilitazioni sindacali e dei movimenti per i diritti civili.
Da qualche giorno attorno ai gruppi che hanno fatto partire la protesta, si stanno affiancando anche i sindacati e associazioni nazionali. MoveOn, organizzazione nata in rete che promuove campagne, petizioni e raccolte fondi e conta più di un milione di aderenti ha dato la sue adesione e così hanno fatto alcune sezioni sindacali locali. Molti affermati opinionisti hanno poi, con un pizzico di paternalismo, spiegato nei loro articoli che gli obbiettivi del movimento non sono chiari. Ed hanno provato a suggerirne qualcuno: tasse, Tobin Tax e regole sulla finanza, sono le idee di Nicholas Kristof, l’inviato del New York Times nelle piazze arabe.

giovedì 29 settembre 2011

Occupy Wall Street: NYPD Uses Extreme Violence, Strips the Right to Free Speech/Peaceful Protests!



Peaceful protestors are assaulted by police on Wall Street in New York City. They are using excessive force as well as chemical agents to illegally suppress people's right to protest peacefully. The night before a undercover provocateur was sent in and was trying to start fights with protestors. After he was called out he left and went right to the police line. This is a different angle of "Police Happy to Kneel on Your Throat", with more footage included.

venerdì 2 settembre 2011

Incubi e raptus di follia quei traumi di guerra che l´esercito nega

La Repubblica 2.9.11
Incubi e raptus di follia quei traumi di guerra che l´esercito nega
Colpito il 20% dei reduci, ma per l´Italia non esiste
La chiamano "Sindrome del Vietnam" e può anche portare al suicidio chi ne è vittima
Il ministero della Difesa minimizza: selezioniamo i nostri soldati meglio degli altri
Gli esperti: impossibile, ha la stessa incidenza che nelle altre forze armate europee
di Ranieri Salvadorini

ROMA - «Ricordo solo che mio figlio mi diede una pacca sulla spalla. "Ciao pà!", disse. Non ricordo altro. Solo che i vicini cercavano di togliermelo dalle mani». Piero Follesa è un reduce di Nassirya che ha aggredito il figlio quattordicenne credendosi sotto attacco. E la sua mente lo era. È il Post Traumatic Stress Disorder (PTSD), una patologia psichiatrica che colpisce soprattutto i reduci dalle missioni militari. Rispetto al trauma provocato dalle catastrofi naturali, come ad esempio un terremoto, in guerra si aggiunge l´intenzionalità: è un tuo simile a volere la tua morte.
Nelle Forze armate italiane si dovrebbero contare migliaia di storie simili a quella di Piero. In Europa, infatti, la media di PTSD tra i contingenti è del 4-5 per cento, all´interno di una stima del 10 per cento di manifestazioni minori del disturbo. Le stime crescono vistosamente negli eserciti più aggressivi, che rispondono a regole d´ingaggio diverse da quelle dei contingenti europei: maggiore è l´esposizione allo scontro e maggiore è l´esposizione allo stress. Si arriva così al 20-30 per cento negli Usa (nel 2008 i soldati colpiti da gravi disturbi psichiatrici sono stati stimati in oltre 320mila, su 1,6 milioni), si flette di poco in Canada o Israele, mentre in Gran Bretagna la Difesa dichiara un 3 per cento, subito smentita dalle cronache: quasi il 10 per cento dei detenuti nelle carceri britanniche (circa 20.000 persone) provengono dalle Forze armate, quasi tutti "dentro" per violenze (soprattutto domestiche) legate all´abuso di alcol e droghe.
Eppure le gerarchie militari italiane invece raccontano un´altra storia: su 150.000 soldati impiegati all´estero risultano solo 2/3 diagnosi l´anno su circa 20 casi segnalati. Statisticamente zero. È credibile questa "singolarità antropologica"? E come si spiega? Se è davvero così "inverosimile", come sostengono alcuni, per quale motivo il fenomeno non emerge? Disattenzione casuale o incompetenza?
L´Esercito rivendica questo zero statistico con orgoglio: «Anche se capisco che possa sembrare inverosimile, le casistiche fornite dai colleghi sono corrette - afferma il Generale Michele Gigantino, che per 10 anni ha guidato il Dipartimento di scienze psichiatriche e neurologiche al Celio di Roma - merito di una selezione a maglie strette: passano solo i più adatti. E poi i comandanti, altro sensore: loro hanno il polso della situazione. Per questi motivi il paragone con gli altri paesi è fuorviante». «Impossibile», replica Carol Beebe Tarantelli, psicoanalista, perché, «addestramento o meno, la strutturazione della psiche occidentale è simile. Così come ci sono in Olanda, ad esempio, devono esserci anche in Italia». L´Esercito non li rileva o li nasconde, conclude.
Daniele Moretti, psichiatra, ha seguito dal 2004 a oggi 5 reduci di Nassirya, al CIM di Finale Ligure, e si dice perplesso sui dati forniti dall´Esercito: «Al pari di altre patologie ci si dovrebbe aspettare un´incidenza analoga agli altri paesi impegnati in missione all´estero e questo fa pensare che il fenomeno non sia stato rilevato», spiega Moretti. Perplessità condivise in questi anni con la collega e psicologa Sabrina Bonino, con cui ha fatto squadra, che introduce un ulteriore aspetto emerso dall´esperienza "di trincea" di Finale Ligure (capitanata dal Direttore del Dipartimento di psichiatria, Tiziano Ferro). «Sono venuti tutti con delle fotografie da mostrarmi, perché forse temevano di non essere creduti», racconta Bonino.
La psicologa si riferisce a immagini di corpi dilaniati dall´esplosione e raccolti dai suoi pazienti nei giorni successivi all´attentato. Dalla paura di non essere creduti nasce, forse, l´ossessione dei militari per la documentazione fotografica: corpi dilaniati o carbonizzati, fusi tra loro o nelle lamiere delle macchine, brandelli di carne. «Noi le fotografie le abbiamo stampate in mente, nei minimi dettagli, ma sono da vedere», è stata la battuta ricorrente durante molti incontri.
A Pietro Sini, altro reduce dall´Iraq, il Disturbo da stress è emerso tardi, nel 2009, quando è diventato irritabile per ogni cosa, e ha perso il sonno, ha capito «che qualcosa non stava funzionando». Sini è un operativo. Subito dopo l´esplosione si è gettato nella base, dove ha messo in salvo oltre 5 colleghi (lo mostra in parte la TV araba) e nel video mostra le foto degli accertamenti del post-attentato, fatte per il riconoscimento dei corpi. «Questo è quel collega che ti dicevo, dentro il Defender», dice Sini indicando una gamba che il calore dell´esplosione ha letteralmente fuso nel motore. Racconta che i resti dei compagni sono stati raccolti a «mani nude, altri con le cesoie, perché aggrovigliati nel filo spinato. Dove ronzavano mosche, racconta il Carabiniere ora in congedo, lì sapevamo che c´erano resti umani. Mettevamo tutto in sacchi neri, normali sacchi di monnezza, cercando di evitare che i cani randagi si portassero via i resti dei nostri compagni».
Corpi, corpi a metà, corpi carbonizzati, corpi sfigurati e 6 sacchi della spazzatura di resti. Questo è quello che c´era in quelle 19 bare. «Noi raccoglievamo tutto, nell´impossibilità di sapere se si trattava di un Carabiniere, di un militare, o altro. La guerra è anche questo». «Quando la sera ti levi gli anfibi e con lo stecchetto li ripulisci dei resti di determinate cose», dice Piero Follesa, rievocando i giorni del post-attentato.
I due reduci sono amareggiati: «Altro che "figli", altro che "uomini", altro che "eroi", l´Arma dei Carabinieri ci ha abbandonato quando ne avevamo più bisogno, per chi abbiamo combattuto?». È l´altro lato della retorica, quando la guerra "torna a casa" nella mente di chi c´è stato. Perché ammettere il disturbo mentale tra i militari «significherebbe dire all´opinione pubblica che le attività che stiamo svolgendo all´estero sono di stampo bellico», sottolinea Sergio Dini, Sostituto procuratore di Padova, a lungo Procuratore militare. Che retoricamente si chiede: «Perché l´Esercito dovrebbe istituire una struttura di studio per far emergere il fenomeno se lo si vuol negare?».
Nella lettura che ne dà Dini le Forze Armate sono un «passaggio obbligato» per entrare nelle Forze dell´ordine. È qui che si crea un gioco dell´equivoco, per il procuratore: l´interesse dei soldati a dissimulare il malessere per restare dentro ed entrare poi in Polizia collude con quello delle gerarchie militari a non doversi far carico del fenomeno. È il precariato militare: cumulare missioni su missioni nascondendo ansia e sofferenza, altrimenti il giorno dopo sei fuori. E ti giochi il tuo progetto di vita. E infatti c´è crisi di "vocazioni": i soldati vengono (quasi) tutti dal Sud, da famiglie disagiate sul piano socio-economico, perché «non sarebbe presentabile mandare a morire i figli dei professionisti e così si è fatto l´esercito professionale: un escamotage per far pagare ai più poveri il prezzo concreto delle missioni all´estero. Che fine facciano questi ragazzi e se sia giusto che l´Esercito sia fondato sulle fasce più deboli della popolazione è un problema che non si sta ponendo nessuno», conclude Dini.

lunedì 8 agosto 2011

Cento docenti universitari a Napolitano: «No alla Tav»

Cento docenti universitari a Napolitano: «No alla Tav»

«Non vorremmo che, nonostante le attuali conoscenze propongano ancora una volta ragionati dubbi, la scelta intransigente di proseguire ad oltranza la costruzione dell'opera (Torino-Lione, ndr) porti a doversi dolere in futuro di questa leggerezza ingiustificabile. Pertanto chiediamo rispettosamente di rimettere in discussione in modo trasparente ed oggettivo le necessità dell'opera».

A formulare la richiesta oltre un centinaio di docenti e ricercatori universitari italiani che hanno scritto al Capo dello Stato Giorgio Napolitano l'«appello alla trasparenza tecnico scientifica sul progetto Tav in Val Susa».

«Il problema della linea ferroviaria ad alta velocità/alta capacità Torino-Lyon rappresenta per noi, ricercatori e docenti, una questione di metodo sulla quale non è più possibile soprassedere» esordisce così la lettera, firmata da docenti come Nicola Tranfaglia, Salvatore Settis e dal saggista e metereologo Luca Mercalli, per citarne alcuni.

«Il pluridecennale processo decisionale che ha condotto a questa situazione è stato sempre afflitto da una scarsa considerazione del contesto tecnologico, ambientale ed economico tale da giustificare o meno la razionalità della scelta, data sempre per scontata dal mondo politico, imprenditoriale e dell'informazione, come assoluta fonte di giovamento per il Paese» puntualizzano i docenti firmatari dell'appello, che aggiungono che ormai è «nota una consistente e variegata documentazione scientifica che contraddice alcuni assunti fondamentali a supporto dell'opera e ne sconsiglia nettamente la costruzione».

A tale proposito l'appello ricorda che in Italia grandi opere su cui ci si è «ostinati anche allorché i dati oggettivi ne sconsigliavano la prosecuzione», si sono in seguito rivelate foriere di «danni, vittime e ingenti costi economici e ambientali che avrebbero potuto essere evitati», concludendo «qualora la nostra istanza non venisse accolta, e le perplessità in essere si rivelassero fondate in fase di realizzazione ed esercizio dell'opera, la presente resterà a futura memoria».
27 luglio 2011
http://www.unita.it/italia/100-docenti-universitari-al-colle-no-alla-tav-1.317724

domenica 31 luglio 2011

Se sui campi dell´Expo nascerà solo cemento

Se sui campi dell´Expo nascerà solo cemento
CARLO PETRINI
MARTEDÌ, 12 LUGLIO 2011 LA REPUBBLICA - Commenti

L´hidalgo Vicente Loscertales, segretario generale del Bie in visita a Milano qualche giorno fa, avrebbe «messo una pietra tombale» sul masterplan dell´Expo 2015, il progetto che contemplava tanti orti e altri esempi di produzioni alimentari per rappresentare la biodiversità globale e come si nutre il Pianeta. «No a una ripetizione di campi», ha detto.
Ha usato queste parole: «Non è per vedere tanti orti tutti uguali che 150mila visitatori al giorno pagheranno un biglietto. Le distese di melanzane sono uguali in Italia o in Togo. Il tema di Expo, "Nutrire il Pianeta", è più complesso: per vivere serve più di un orto, non vuol dire che dobbiamo essere tutti vegetariani». Detto da uno che si è sempre occupato di cooperazione internazionale e ha approvato il tema con cui Milano ha vinto l´Expo a Parigi nell´ormai lontano 2008 suona come una rivelazione d´incompetenza, sufficienza e ignoranza colossale.
Non aver capito niente del masterplan dopo così tanto tempo è sconcertante, ma bisogna prenderne atto. Siccome al Bie l´unica cosa che interessa sono le royalties che prenderanno su ogni biglietto staccato durante l´Expo, è chiaro che la sua visionarietà - e quella di tutti coloro che gli sono andati dietro sottoscrivendo la sua pochezza - si riduce a quello: pecunia. Ciò che ha guidato sin qui ogni mossa, ogni parola, ogni intendimento lasciando la macchina organizzativa senza uno straccio d´idea su come si farà questa imponente manifestazione. E i tempi stringono come non mai.
«Bisogna dare un´accelerata», dicono, e infatti nel mese di luglio consiglio comunale e giunta milanese dovranno fare alcuni passaggi decisivi e molto delicati per quei nuovi equilibri politici che hanno fatto sognare molti milanesi nel dopo-elezioni. L´area dove sorgerà l´Expo, a meno di quattro anni dalla manifestazione, è ancora in mano ai privati. Il Comune dovrebbe cambiare l´indice di edificabilità, perché altrimenti il prezzo sarebbe quello agricolo: si propone un indice che calcolato sugli ettari totali darebbe origine, nel dopo-Expo, o a una piccola Manhattan (se edificata in altezza) o alla costruzione su tutta l´area di un nuovo quartiere. Peccato che questo vada contro la volontà dei cittadini, che si sono espressi con un referendum che parla chiaro: i milanesi lì sopra ci vogliono un parco agroalimentare e la salvaguardia dalla cementificazione. La patata in mano al consiglio comunale non è bollente, di più. I contratti vanno fatti adesso perché le ruspe dovranno entrare in azione a ottobre.
Questa fretta nel decidere e le casse vuote del Comune non sono imputabili ai nuovi eletti. Perché dovrebbero digerire la polpetta avvelenata di una becera speculazione che non rappresenta il nuovo corso milanese? Intanto, gli abitanti di Milano stanno iniziando a mobilitarsi. È difficile prevedere cosa succederà, ed è anche comprensibile che nessuno stia paventando di lasciar perdere l´Expo (cosa che pur avrebbe i suoi perché): sarebbe una sconfitta politica e sarebbe come dire che ci sono soltanto due alternative, le speculazioni edilizie o il nulla. La terza via invece c´era sin dall´inizio, e non era soltanto un orto. Un parco complesso come complesso è il tema che si è data la manifestazione, un nodo cruciale per il futuro di tutto il Pianeta. Era l´occasione unica per l´Expo di diventare qualcosa di nuovo in un mondo che ha bisogno di nuovi paradigmi. Si è persa l´occasione per mobilitare grandi masse di giovani e meno giovani per interrogarsi sulla domanda crescente di cibo, sul cambiamento del clima e sull´avanzare delle zone aride, sulla sicurezza alimentare, sul complesso rapporto città-campagna; tutto questo non in una dimensione bucolica o poetica, ma con il pieno coinvolgimento della piccola produzione, dell´artigianato e dell´industria alimentare. Chiamando in causa anche il mondo della ricerca, delle nuove tecnologie, e garantendo comunque quel piacere alimentare che tutte le comunità del mondo hanno saputo esprimere nei secoli. Questo era l´Expo da auspicare, che avrebbe fatto di Milano un laboratorio del futuro.
Ma sono mancate la politica, la cultura, il progetto, il coraggio, e con il falso pragmatismo che chiede di costruire una kermesse turistica e intanto si sono persi il tempo e il sogno. L´Expo è così diventata una mastodontica macchina invecchiata su se stessa, valida per le masse cinesi, ma che ha perso da decenni la capacità di essere fulcro d´innovazione.
Giunti a questo punto, chiederei che almeno cambino il tema e che ognuno faccia il suo mestiere. Perché c´è spazio per un grande progetto politico nella nuova Milano, partendo dall´agricoltura periurbana di questa grande città, per poi guardare al mondo nel 2015 con una grande chiamata alle reti di donne, giovani, contadini e cittadini che rivolgono lo sguardo a un futuro basato su un concetto di alimentazione che rispetti la terra e i suoi figli. Il giocattolo Expo sarà altra cosa e, viste le figure che stanno facendo mentre il tempo passa e resta un vuoto colossale d´idee, la figura da peraccottai diventerà presto globale. Quella sì, è uguale in Italia come in Togo.

martedì 26 luglio 2011

Il movimento anti-Cadorna. «Nuovi nomi a vie e piazze»

Il movimento anti-Cadorna. «Nuovi nomi a vie e piazze»
Erika Della Casa
Corriere della Sera 18/7/2011

Dal Friuli alla Liguria: parte il revisionismo stradale

Dopo la decisione di Udine richieste anche ai Comuni di Genova, Savona e La Spezia GENOVA — Cosa unisce un commercialista quarantenne di Rapallo e un settantenne scrittore della memoria come Ferdinando Camon, nato in un paesino di montagna del Veneto? Giancarlo Romiti scambia email con lo scrittore su un argomento che li appassiona: il generale Cadorna, comandante supremo dell'esercito italiano nella prima guerra mondiale, sostituito dal generale Diaz dopo la disfatta di Caporetto. La parola d'ordine che corre su Internet è cambiar nome alle vie e alle piazze intitolate al generale che teorizzava, e soprattutto metteva in pratica, gli assalti frontali, protagonista di undici battaglie sull'Isonzo che lasciarono sul terreno una montagna di cadaveri. Macellaio o figlio del suo tempo, generale che mandava al massacro la «truppa» senza volto o militare della vecchia scuola destinata a essere falciata, come gli uomini, dalle nuove mitragliatrici. La polemica infuria sui blog e non solo. Udine, città natale del generale, ha appena deciso: piazza Cadorna non si chiamerà più così, il consiglio comunale ha votato la nuova intitolazione all'Unità d'Italia. Appresa la notizia Romiti ha scritto al Comune di Savona, di Genova e La Spezia chiedendo che le amministrazioni seguano l'esempio di Udine e sfrattino il generale dalla toponomastica cittadina. «La mia — spiega il commercialista — è una passione, mi sono laureato in storia nel 2009 con una tesi sul diario di un soldato della Grande Guerra originario di Novara. Aveva vent'anni ed è tornato a casa. E’ stato fortunato. Centinaia di migliaia hanno trovato la morte a causa degli ordini impartiti da generali come Cadorna. La questione che solleviamo non è legata alla sconfitta del generale, ma alla sua umanità, o meglio alla sua mancanza». Da Savona Romiti ha incassato una tiepida risposta dal portavoce del sindaco: troppo complicato cambiare il nome alle strade, i residenti dovrebbero cambiare i documenti, meglio lasciare le cose come stanno. «Una risposta burocratica a una questione culturale» dice Romiti. A Udine hanno risolto il problema, ha spiegato il sindaco Furio Honsel, svolgendo gratuitamente per i residenti le pratiche necessarie. «La figura di Cadorna è stata sopravvalutata, lo dicono molti storici — ha chiosato il sindaco — meglio ricordare il sacrificio di tanti, dai generali alle reclute, che quello di uno solo». Il fenomeno anti-Cadorna si allarga a macchia d'olio. L'appello di Camon si è esteso a Trieste e a Gorizia, da quest'ultima città è arrivato un no secco: «Finché ci sono io —ha detto il sindaco Ettore Romoli — Cadorna non si tocca. Fa parte della nostra storia». Anche a Cremona c'è chi ha proposto di cambiare il nome a piazza Cadorna per dedicarla a Erminio Favalli, ex calciatore della Cremonese, ma l'obiettivo era ricordare Favalli più che dimenticare Cadorna. A Savona un comitato aveva chiesto di cancellare via Stalingrado (e un altro protesta perché non esiste una via Sandro Pertini). A Milano polemica dopo la proposta di dedicare una strada a Bettino Craxi. A Genova il consiglio comunale ha votato contro l'intitolazione di una strada a Fabrizio Quattrocchi, ucciso dai terroristi in Iraq. E anche la deposizione di un cippo in ricordo di Carlo Giuliani, ucciso durante il G8 di Genova, ha visto favorevoli e contrari.

La scheda
Il generale Luigi Cadorna (Pallanza 1850 - Bordighera 1928) viene avviato alla carriera militare già dall'età di 10 anni. Alla vigilia della prima guerra mondiale è nominato capo di Stato maggiore dell'esercito. Noto per dispotismo e insensibilità nella gestione dei militari, subirà una cocente sconfitta a Caporetto La battaglia Nell'ottobre 1917 le truppe italiane vengono battute pesantemente dalle forze austro-ungariche a Caporetto: Cadorna attribuirà la disfatta alla «viltà» e «codardia» dei soldati italiani «che si sono ignominiosamente arresi al nemico».

domenica 24 luglio 2011

Multe e processi per gli israeliani accusati di boicottare le colonie sulle terre palestinesi occupate

L’Unità 13.7.11
Multe e processi per gli israeliani accusati di boicottare le colonie sulle terre palestinesi occupate
Il nodo del 1967 Netanyahu di fronte a Obama si è rifiutato di riconoscere le risoluzioni Onu
Dal Meretz a Kadima si allarga il fronte degli oppositori: «È incostituzionale»
Legge bavaglio in Israele ma è boomerang
Passa alla Knesset dopo un infuocato dibattito la legge «contro il boicottaggio delle colonie» sulle terre occupate nel ‘67. Ma è un boomerang per il Likud e già si annuncia un ricorso per incostituzionalità.
di Rachele Gonnellui

La legge chiamata «contro il boicottaggio» è passata lunedì notte alla Knesset, il parlamento israeliano, in un’aula prima incandescente e poi semivuota. Ma quella che in Italia verrebbe ribattezzata «legge bavaglio» rischia di trasformarsi in un boomerang, una vittoria di Pirro per il Likud e il governo Netanyahu. I voti a favore sono stati 47 e 38 i contrari. Questi ultimi però molto significativi e già ieri è stato annunciato dall’associazione Adalah per i diritti civili un ricorso alla Corte Suprema per incostituzionalità.
La legge, sponsorizzata da Ze’ev Elkin del Likud e dal ministro delle Finanze Yuval Steinitz, colpisce le ong e le associazioni israeliane senza scopo di lucro che lanciano o forniscono informazioni per campagne internazionali di boicottaggio di istituzioni accademiche o realtà economiche che sostengono le colonie israeliene nei territori occupati dal 1967. Si tratta di norme capestro che prevedono multe salate e procedimenti giudiziari o per cooperative e aziende che si rifiutano di utilizzar i prodotti delle colonie, l’esclusione dai contratti governativi e per le onlus la cancellazione dall’elenco delle aziende che non devono pagare le tasse.
«Siamo tornati al bolscevismo anni 30», ha tuonato Nino Abessadze, centrista Kadima. Ancor più duro Ilan Gilon, della sinistra del Meretz, ha parlato di una legislazione «che
getta nell’imbarazzo e nel discredito internazionale la democrazia di Israele».
Per Eilat Maoz della Coalition of Women for Peace è «una chiara persecuzione contro noi attivisti dei diritti civili» E già prima del voto alla Knesset il consigliere legale del Parlamento Eyal Yanon aveva avvertito che «parti della normativa sono da considerare ai margini della legalità e anche oltre», scrive il quotidiano progressista Haaretz. E lo storico movimento di attivisti israeliani per la pace Peace Now ha annunciato l’apertura di una pagina su Facebook per portare avanti, per la prima volta, il boicottaggio di prodotti dalle colonie illegali.

sabato 23 luglio 2011

Dall´Olanda a Israele, le nuove tecnologie anticrimine

La Repubblica 17.7.11
Grande Fratello detective ecco come le telecamere svelano le cattive intenzioni
Dall´Olanda a Israele, le nuove tecnologie anticrimine
Si possono anche riconoscere reazioni nervose davanti a determinate parole
di Elena Dusi

Hanno occhi e orecchie. Ma da oggi sanno anche guardare nel nostro cuore e riconoscere le nostre intenzioni. Le telecamere che ci promettono sicurezza, in strada e negli aeroporti, non si limitano più a riprendere immagini. Registrano nuovi parametri come la frequenza cardiaca e il calore corporeo. Se messe accanto a un computer, imparano perfino a riconoscere gli individui pericolosi tra la folla di uno stadio, un teatro o una stazione.
A queste tecnologie sviluppate soprattutto in Israele e testate in alcuni aeroporti americani, anche l´Europa ha deciso di affidarsi. Nel 2013 raggiungerà il traguardo il sistema di telecamere intelligenti Adabts, sigla di "Automatic detection of abnormal behaviour and threats in crowded place" che vuol dire "rilevamento automatico di comportamenti anomali e minacce negli spazi affollati". Il progetto è partito nel 2009 ed è finanziato con 4,8 milioni di euro dall´Unione europea. A portarlo avanti sono università, aziende militari (la Bae inglese) e agenzie di sicurezza di Svezia, Gran Bretagna, Olanda, Norvegia e Bulgaria. Ma se manterranno le loro promesse, le nuove tecnologie si faranno presto strada anche negli altri paesi europei.
Se un individuo corre laddove tutti camminano, se all´improvviso si crea un assembramento in un´area poco affollata, se due o tre uomini convergono in direzione di una donna che procede da sola, il sistema lancia l´allarme. Riesce a farlo perché le telecamere distinguono le silhouette umane e ne tracciano gli spostamenti, mentre il software di un computer è stato programmato per riconoscere i comportamenti sospetti.
Fin qui telecamere e chips. Ma i sistemi su cui le aziende di sicurezza sono al lavoro promettono di andare molto più in profondità. Il progetto Adabts ad esempio studia come registrare le variazioni del battito cardiaco di un uomo attraverso un sistema radar. Le termocamere a infrarossi misurano il calore emanato dal corpo. Così come sono state applicate negli aeroporti durante le ultime epidemie di influenze, o come a bordo degli elicotteri vengono sfruttate dalle forze dell´ordine per identificare i fuggitivi nelle zone campestri, in futuro potranno essere adattate anche al riconoscimento di individui più nervosi del normale. Mentre i microfoni oggi hanno raggiunto livelli di sensibilità tali da poter distinguere il rumore di vetri infranti, un urlo o una voce particolarmente acuta che spicca nel brusio di un corridoio d´aeroporto.
Prima ancora degli europei, a sviluppare queste idee, ottenendo fra l´altro dei finanziamenti dalle autorità aeroportuali statunitensi, sono stati gli israeliani. L´azienda di Cesarea Wecu ("We see you": ti stiamo guardando) riconosce eventuali reazioni di nervosismo nel momento in cui si osservano immagini particolari, come la parola "jihad" scritta in arabo o una foto di un campo di addestramento di al-Qaeda. L´idea è che i terroristi di fronte a questi stimoli debbano avere reazioni diverse da quelle dei viaggiatori normali. E i sistemi che studiano i riflessi del corpo di fronte a un interrogatorio, messi a punto dalla ditta israeliana Suspect detection systems, sono approdati in via sperimentale in alcuni aeroporti Usa dopo un programma di test nei checkpoint israeliani in Cisgiordania.
A differenza di un uomo, un computer di fronte a una telecamera non corre il rischio di annoiarsi o addormentarsi. Ma oltre alle preoccupazioni per la privacy che sono state sollevate al momento del lancio del progetto Adabts, i sistemi di "riconoscimento intelligente" hanno ancora seri problemi per quanto riguarda i "falsi positivi": quei viaggiatori cioè che sono nervosi, corrono e hanno il cuore veloce perché il loro aereo sta partendo, le valigie sono pesanti o i figli non vogliono saperne di seguirli.

venerdì 22 luglio 2011

Gaza, Israele blocca una nave della flottiglia

La Repubblica 20.7.11
A bordo dell´imbarcazione francese anche la giornalista Amira Hass
Gaza, Israele blocca una nave della flottiglia

GERUSALEMME - A cinquanta miglia da Gaza ma ancora in acque internazionali, la nave francese "Dignité-Al-Karama", parte della Freedom Flottiglia 2, è stata fermata dalla Marina di Israele. Un arrembaggio «senza incidenti», ha riferito l´esercito che ha ricostruito l´azione tesa ad evitare la rottura del blocco marittimo sulla Striscia da parte delle 16 persone a bordo tra cui, oltre ad attivisti (francesi, canadesi, svedesi, greci), erano presenti la giornalista israeliana Amira Hass e dei reporter di Al Jazeera. Falliti i tentativi diplomatici di fare cambiare rotta all´imbarcazione, la Marina ha abbordato la nave senza trovare resistenza da parte degli attivisti che sono stati scortati da tre navi israeliane nel porto di Ashdod. Qui, stando al comunicato dei militari, gli attivisti in serata attendevano di essere interrogati e consegnati ai funzionari del ministero degli Interni. Oltre all´espulsione, rischiano di non poter rientrare in Israele. Parigi ha già assicurato loro assistenza e lanciato un appello a Israele affinché agisca in modo «responsabile» e «consenta il rapido ritorno» dei connazionali. Mentre la coalizione francese della flottiglia ha bollato come «un attacco ingiustificabile e una violazione del diritto internazionale» l´azione.
Dopo sabotaggi e beghe burocratiche per le altre navi, quella francese era l´unica superstite della flotta che voleva bissare la missione umanitaria del 2010, che però finì con un sanguinoso arrembaggio alla Mavi Marmara costato la vita a nove attivisti.

sabato 11 giugno 2011

L'Europa verso l'Acqua Pubblica



Uno sguardo sulle diverse esperienze europee in tema di Acqua a pochi giorni dal Referendum nazionale

giovedì 2 giugno 2011

Rafah, riapre il valico Il nuovo Egitto toglie dall’isolamento la Striscia di Gaza

l’Unità 29.5.11
Rafah, riapre il valico Il nuovo Egitto toglie dall’isolamento la Striscia di Gaza
Rimosso il blocco anti Hamas dopo 4 anni, passano bus e ambulanze
Israele cauto L’embargo è rotto ma i traffici continuavano nei tunnel
La Striscia di Gaza torna a respirare con la riapertura da ieri a tempo pieno, sei giorni la settimana, del valico di Rafah che garantisce l'ingresso all'Egitto e, da là, al mondo intero. Esulta Hamas, protesta Israele
Virginia Lori

La Striscia di Gaza torna a respirare con la riapertura da ieri a tempo pieno, sei giorni la settimana, del valico di Rafah che garantisce l'ingresso all'Egitto e, da là, al mondo intero. In questa giornata di sollievo che è invece di preoccupazione per Israele che teme il crearsi di una «situazione problematica» Hamas ha voluto che tutto fosse in ordine impeccabile, organizzando fra l'altro quattro corsie separate di ingresso: per i malati; per gli studenti; per gli escursionisti; e infine per i cittadini stranieri.
Nella previsione di un «assalto» al terminal, i servizi di sicurezza avevano schierato forze capaci di contenere una folla di migliaia di persone. Ma all’apertura dei cancelli, alle nove di mattina, si contavano appena 350 passeggeri diretti verso il Sinai. Abituata a notizie negative, la popolazione della Striscia è rimasta incredula fino all'ultimo. A quanto pare, i transiti da Rafah aumenteranno però dai prossimi giorni. Già ieri comunque, ai cancelli il venditore ambulante di bevande calde si stropicciava le mani soddisfatto e lanciava sorrisi smaglianti ai clienti occasionali: i passeggeri in transito e le numerose troupes televisive. Da lui un tè o un caffè costano due shekel (meno di mezzo euro). Nei tempi magri delle aperture a singhiozzo di Rafah tornava a casa con un incasso giornaliero di 30 shekel. Ieri mattina i aveva già nelle tasche banconote per oltre 80 shekel. «Dopo quattro anni di sofferenze e di assedio, quello odierno è per noi un cambiamento importante» rileva il direttore generale del terminal palestinese di Rafah, Salameh Barake. «Finalmente l'Egitto è tornato ad assumere il suo ruolo di leaderhip verso Gaza». La gestione del valico, aggiunge, resta nelle mani dei palestinesi e degli egiziani. Contrariamente a quanto avveniva negli anni 2005-2007, «l'occupazione israeliana non ha più alcun controllo».
LA FINE DELL’EMBARGO
Nel contesto della soddisfazione generale, a Gaza resta peraltro l'interrogativo del ripristino del transito delle merci fra il Sinai e la Striscia, che resta in attesa di un accordo separato. Esso a quanto pare dipende dalla costituzione di un accordo per un governo transitorio palestinese di unità nazionale, che potrebbe essere varato fra una decina di giorni. Allora, secondo alcune indiscrezioni, gli uomini di Abu Mazen riassumeranno il controllo del valico di Rafah, assieme con gli osservatori internazionali.

Flottiglia per Gaza un anno dopo. Israele tra fuoco e acqua

il Fatto 1.6.11
Flottiglia per Gaza un anno dopo. Israele tra fuoco e acqua
Nuova sfida al governo Netanyahu: nel 2010 la strage in mare
Roberta Zunini

Con l’apertura permanente del valico di Rafah la striscia di Gaza non è più completamente isolata. Fatto irrilevante per i sostenitori della Flottila - di cui il pacifista Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza il 15 aprile, era uno degli animatori più attivi - il convoglio di navi che il 31 maggio dello scorso anno fu assalito dalle forze militari israeliane, mentre cercava di rompere l’assedio marittimo della Striscia. “Per noi non cambia nulla, rifaremo ciò che abbiamo fatto lo scorso anno, solo che questa volta ci sarà anche una nave italiana nel convoglio internazionale - spiega Francesco Giordano del coordinamento Flottilla italiana - che partirà dopo il 20 giugno da un porto italiano. Il fatto che gli egiziani abbiano aperto il confine terrestre di Rafah, non cancella l’ingiustizia perpetrata dallo Stato israeliano che costringe un milione e mezzo di persone a vivere in una prigione a cielo aperto”. Il blitz notturno dello scorso anno, condotto da agenti scelti israeliani, che dopo aver abbordato la nave turca Mavi Marnara, spararono, uccidendo 9 attivisti turchi, provocò reazioni negative anche da parte dei partner storici di Israele e la strategica alleanza tra Turchia e Israele ne uscì a pezzi.
A DISTANZA di un anno, il riavvicinamento è ancora in corso ma l’intransigenza israeliana non aiuta. La Turchia, attraverso il suo ministro degli eEsteri, Ahmet Davutoglu, ha fatto sapere che non potrà fermare le imbarcazioni. Israele ha colto l’occasione di questo tragico anniversario, annunciando che nulla cambia: non verrà tollerato alcun tentativo di varcare il confine marittimo di Gaza, anche se per raggiungerlo, la flottila non entrerà nelle acque nazionali israeliane. Il problema infatti è raggiungere la Striscia, indipendentemente dalla territorialità marittima. Israele sta tentando di bloccare a monte la partenza delle navi, per evitare un nuovo ricorso alla forza. Fiancheggiato su questo terreno dall’amministrazione Usa, il governo di Benyamin Netanyahu sta puntando in prima battuta sulla dissuasione diplomatica: lanciando appelli in ogni direzione affinchè la spedizione non trovi porti da cui prendere il largo. Se tuttavia questa strada non dovesse funzionare (l'iniziativa è gestita da organizzazioni private e gli Stati non sembrano nelle condizioni legali di poterla fermare), la carta della forza non viene esclusa neppure stavolta, anche se con correzioni di tiro rispetto al 2010.
LE AUTORITÀ israeliane temono in particolare l’Ihh: il sodalizio islamico-militante turco. I vertici politici e militari dello Stato ebraico ripetono in ogni modo d’essere decisi a presidiare. Le esercitazioni delle forze speciali della marina, riferiscono i media, sono già in corso.

domenica 29 maggio 2011

La Patagonia, le dighe, ed Enel - Cosa c'è in gioco nel grande progetto idroelettrico contestato in Cile

La Patagonia, le dighe, ed Enel - Cosa c'è in gioco nel grande progetto idroelettrico contestato in Cile
13 maggio 2011

La Patagonia è proverbialmente lontana, un territorio in capo al mondo, la cui aura mitica è stata consacrata da un libro di culto del 1977 e da viaggiatori leggendari (Roger Caillois, Victoria Ocampo) che hanno scoperto laggiù una dimensione della vita interamente nuova, un modo diverso di concepire il rapporto tra l’uomo e la natura. In questa dinamica, dalla Terra del Fuoco alle Ande, un ruolo centrale è svolto dall’acqua e dalle pecore: non è forse un caso che Chatwin definisse la lingua degli Yaghan nei termini di una rete di navigazione, né che la prima impressione dei turisti moderni sia legata all’onnipresenza degli ovini.

La pecore della Patagonia argentina sono balzate agli onori delle cronache, come molti ricorderanno, per via dell’acquisto nel 1991 da parte del gruppo Benetton di un gigantesco territorio (900mila ettari, ben il 10% del totale) in parte abitato dal popolo amerindio dei Mapuche: tecnicamente, si è trattato dell’acquisizione – consentita da una favorevole legge di Menem – della “Compañia de Tierras Sud Argentino” da parte del gruppo trevigiano “Edizione Holding”. Dinanzi alle veementi proteste degli indigeni, sloggiati a viva forza dai loro territori, e a una mobilitazione internazionale che finì per coinvolgere perfino un Nobel come Perez Esquivel, Luciano Benetton tentò di sanare la controversia regalando alla comunità Mapuche un appezzamento di 7500 ettari (dono poi peraltro rifiutato dall’orgogliosa comunità), incentivando l’allevamento, restaurando aziende e ville, e promuovendo l’occupazione degli abitanti. Nei fatti – secondo alcuni – Benetton sradicava migliaia di persone dalle loro case, stravolgeva le vie di comunicazione e il paesaggio, sfruttava la manodopera a bassissimo costo, musealizzava le popolazioni locali per poter meglio sfruttare i territori in suo possesso, insomma metteva in pratica le consuete dinamiche del colonialismo latifondistico. Sul significato di questa controversa vicenda, che coinvolge i più alti principi del nostro modello di sviluppo – non foss’altro perché l’azienda interessata si presenta da anni come capofila nella difesa del multiculturalismo e dei diritti umani-, la documentazione più ampia è quella offerta da P. Camuffo, United Business of Benetton (un libro anche altrimenti istruttivo sull’evoluzione del gruppo Benetton da medio produttore di maglie in Veneto a multinazionale detentrice di autostrade).
Peraltro la questione è ancora aperta, se è vero che dopo una serie di cause, ricorsi e controversie giudiziarie, nel marzo 2011 un ennesimo tribunale ha dato ragione a Benetton, ingiungendo un’altra volta (come già nel 2002, data d’inizio della fase acuta del conflitto) lo sgombero della comunità mapuche di Santa Rosa, quella più colpita e più attiva nella protesta: nel sito mapuches.org si può vedere come questa lotta contro il gruppo di Ponzano Veneto s’intrecci all’inquietudine per la sorte dei prigionieri politici Mapuche arrestati e rapidamente condannati dal Cile (dunque al di là del confine) sulla base di accuse assai dubbie, e con una disinvolta applicazione della legge anti-terrorismo. Mette appena conto ricordare che anche lì, in Cile, si combatte per le terre: quelle restituite ai Mapuche da Salvador Allende con la sua riforma agraria, e successivamente riassegnate ai latifondisti sotto il regime di Pinochet. Stiamo parlando insomma – molto concretamente – dei diritti fondamentali delle minoranze, no más no menos.

Ma la Patagonia cilena è attuale anche per l’altro motivo di interesse, l’acqua. È di ieri la notizia che la Commissione ambientale della provincia dell’Aysén ha approvato il piano allestito dalla filiale cilena dell’azienda spagnola Endesa e dal gruppo Colbún per la costruzione di un gigantesco sistema di cinque dighe sui fiumi Baker e Pascua, destinato a produrre il 20% del fabbisogno energetico del Paese. Non si tratta, peraltro, del primo tentativo di sfruttare la zona a tal fine: uno precedente della canadese Noranda fu (provvisoriamente?) sventato nel 2003 in seguito alle proteste internazionali. Incuranti di chi trova le grandi dighe “obsolete, strumenti in mano ai governi per accumulare potere, un modo per strappare ai contadini la loro anima”, fonti di “inondazioni, salinità, malattie” (le parole sono di Arundhati Roy), le multinazionali dell’energia hanno individuato nel complesso sistema fluviale della regione di Aysén un mondo ideale per produrre energia tramite la creazione di sbarramenti di enorme portata: il progetto porta il nome beneaugurante di “Hidroaysén“.

Ora, la questione non dovrebbe interessarci solo perché si inserisce all’interno del ristretto gruppo dei più pericolosi stravolgimenti dell’ecosistema planetario, andando a intaccare in un colpo solo i bacini idrografici (che fra l’altro, con il progressivo scioglimento dei ghiacciai, potrebbero creare squilibri improvvisi e inondazioni), la fisionomia del territorio (6000 ettari sommersi, alterazioni irreversibili di flora e fauna, e soprattutto della forestazione), le attività produttive della zona (pesca, allevamento e altri piccoli lavori di una zona poco popolata), il paesaggio (con i prevedibili effetti negativi sul turismo: si tratta in larga misura di zone protette).
Non è a rischio solo la sopravvivenza dell’armadillo peloso (al quale pure uno potrebbe affezionarsi). Il progetto presenta un risvolto metodologico di estrema importanza: in un Paese dove vigono i sistemi di privatizzazione introdotti da Pinochet con l’interessato supporto dei Paesi occidentali, l’acqua di fatto non è contemplata come “bene comune”: il Código de Aguas del 1981 (marginalmente rivisto nel 2005) sancisce apertamente la deregulation nello sfruttamento delle acque, per il quale non si richiedono dettagliati progetti preventivi, si prevedono poche carte e pochi, quasi automatici passaggi di approvazione; non è un caso che sin dagli anni ’80 Endesa Chile (allora pubblica, oggi ormai privata) abbia acquisito per cifre irrisorie i diritti di sfruttamento che ora accampa. La stessa valutazione di impatto ambientale, già due volte rimandata al mittente dagli organismi pubblici (dietro la pressione delle proteste), non è mai stata sottoposta a un voto popolare, a un pubblico esame condiviso, e cozza perfino contro le direttive della Commissione Mondiale sulle dighe: se oggi si tende a ragionare in termini di piccole centrali idroelettriche, di scarso impatto e di portata minore ma più localmente gestibile, non si capisce come si possa approvare un progetto per un sistema gigantesco che produrrà energia a 2300 km di distanza dal luogo in cui tale energia dovrebbe servire (essenzialmente: i giacimenti minerari a nord della capitale, quelli dove si consumò il dramma a lieto fine di quest’inverno), e che comporterà pertanto la costruzione di una lunghissima linea di trasmissione destinata ad attraversare 6 parchi nazionali, e a sconciare ed espropriare migliaia di ettari. Tutte le informazioni essenziali sul tema sono esemplarmente raccolte qui.

A monte della decisione vi sono la cieca fiducia nella crescita esponenziale del fabbisogno energetico del Cile (un Paese che vuole incrementare il suo già sostenuto ritmo di sviluppo), e il mito delle “grandi infrastrutture” che generano sicuri profitti per le grandi imprese internazionali, sicuri guadagni per il cuore economico, ed effetti secondari tutto sommato “tollerabili” per le zone periferiche. Poco importa che, come dimostrato da precisi studi dell’Università di Santiago, le altre fonti energetiche (rinnovabili e non) già programmate in Cile nei prossimi anni siano destinate a coprire abbondantemente (e non in linea teorica) il fabbisogno del Paese. Non si tratta dunque – come mostrano i progetti alternativi allestiti dai comitati di esperti – di semplice difesa dell’arretratezza: lo ribadisce anche uno dei cantori più appassionati di quella terra, Luís Sepúlveda, in una lettera aperta al presidente Piñera, che vale da sola più di molte parole.
Una tappa essenziale in questo gioco (non a caso pianificata con sagacia tramite apposite società di promozione) è stata la ricerca del consenso: chiunque veda il bel documentario di Camilla Martini, o quello dello stesso Sepúlveda e di Diego Meza “Corazón Verde” (presentato a Venezia già nel 2003), può sentire dalla viva voce delle persone (talora timorose di apparire, talaltra francamente indignate, quasi sempre molto consapevoli di ciò che sta per avvenire) quante e quali risorse sono state investite nella regione (a Cochrane, a O’Higgins, a Coyahique) allo scopo di conquistare l’assenso o la non belligeranza delle popolazioni locali: pannelli solari, infrastrutture, sostegno al turismo e alle imprese, finanziamento di attività culturali e di aree verdi etc.; in prospettiva, la promessa di costruire strade, di erigere nuovi quartieri, di ricollocare le famiglie sfollate etc. Anche il via libera della Commissione di ieri è stato in realtà subordinato a una serie di cospicui investimenti di HidroAysén per promuovere il turismo nella zona, per riforestare, per ridurre la bolletta energetica degli abitanti.

Nonostante questo massiccio dispiegamento di strumenti di persuasione, il 61% degli abitanti rimane contrario al progetto, e contro la decisione di l’altroieri sono scoppiate vivaci manifestazioni anche a Santiago e in altre città del Cile. Ma in realtà l’esito è stato blindato per altra via, se è vero che (per non citare che i due casi più lampanti di compromissioni e conflitto d’interessi: ve ne sono in realtà moltissimi) il vicedirettore di HidroAysén è il cognato del presidente Piñera, e il ministro dell’Energia Ricardo Ranieri è stato tra gli ideatori del progetto in questione.

Qui finalmente entriamo in gioco noi, perché – questo è il senso di questo articolo – “la Patagonia è vicina”. Tramite un complesso quanto consueto gioco finanziario, il consorzio Hidroaysén è controllato di fatto da Endesa Chile, dunque dalla sua azionista di maggioranza Endesa, dunque dalla detentrice del 92% di Endesa, che dal 2007 è la nostra Enel. In buona sostanza, pertanto, il progetto delle dighe in Patagonia, benché gestito e finanziato in lingua spagnola, porta ormai il marchio del nostro Paese, il che spiega anche il peso che in Cile si attribuisce alle dichiarazioni di Fulvio Conti, e spiega la mobilitazione che si è verificata nel nostro Paese: una mobilitazione che ha ricevuto in verità ben poco spazio nei media, e praticamente nessuno nella politica, in tutt’altre faccende affaccendata. E questo, si badi, in un momento in cui è di rigore parlare, discutere, dibattere di “sviluppo sostenibile”, di “sostenibilità ambientale”.

«La Patagonia era lenta, ma spaziosa e confortevole, e c’era un decoro materno nel suo lungo grembiule da balia e nel sibilo del suo passo antiquato, nel fruscío molteplice dietro di lei, come di mille strette sottovesti. Era come se non volesse presentarsi al porto con la scoperta bramosia di una giovane creatura». Questa Patagonia non è la regione, ma la nave protagonista dell’omonimo racconto di Henry James. La metafora regge comunque: l’evoluto Occidente, in tutto dimentico di Dersu Uzala, non ha pazienza per le felpate movenze di un universo ancestrale e poco bramoso, e mette in campo i propri giovani giganti economici per ricavare le sue ambitissime risorse. Perché ora i giganti siamo noi.
Ma non era la Patagonia, la terra dei Giganti? Invero fu questo, per secoli, lo stereotipo occidentale degli abitanti di luoghi così lontani da sembrare mitici; fu questa, forse, l’etimologia stessa della parola “patagões” che primamente li designò. Racconta Antonio Pigafetta che quando nel 1520 Magellano e i suoi giunsero sulle coste di quella terra incontrarono un uomo altissimo, così alto che i marinai gli arrivavano alla cintola. A un certo punto, gli dettero uno specchio (Relazione del primo viaggio intorno al mondo, 1524, cap. II): “quando el vide sua figura, grandemente se spaventò, e saltò in dietro”.
http://www.ilpost.it/2011/05/13/la-patagonia-le-dighe-ed-enel/