mercoledì 26 agosto 2009

Gli Usa non mollano l'osso

Gli Usa non mollano l'osso

Antonio Sciotto

il manifesto del 22/08/2009

Incriminati ex manager Ubs e un legale: favorivano le frodi

Se qualcuno pensava che il capitolo «lotta all'evasione» si potesse concludere - almeno per questo periodo - con l'accordo Usa-Ubs di qualche giorno fa, si deve ricredere: gli States di Barack Obama hanno deciso di perseguire duramente i trasgressori e adesso sono passati a una guerra aperta contro il segreto bancario svizzero, arrivando a incriminare un manager della Neue Zurcher Bank (Nzb), quadro di Ubs fino al 2002, e un avvocato di uno studio legale zurighese: i due sono accusati di aver aiutato clienti statunitensi ad evadere le tasse e di aver corrotto un funzionario svizzero. Intanto proprio ieri è arrivata la sentenza di un caso che ha molto fatto discutere in America, quello del manager - anche lui ex Ubs - Bradley Birkenfeld: rischiava cinque anni per aver aiutato un miliardario americano, Igor Olenicoff, a evadere le tasse, trasferendo 200 milioni di dollari in Svizzera e in Liechtenstein; è stato condannato a 40 mesi, perché ha confessato e collaborato. Inoltre, Birkenfeld aveva fatto da corriere per ricchi statunitensi, trasportanto clandestinamente gioielli e oggetti d'arte, fino a nascondere un diamante nel tubetto di dentifricio, per poterlo far entrare negli Usa.
La denuncia contro il banchiere e l'avvocato zurighesi è il terzo procedimento di questo tipo delle autorità Usa contro manager di banche svizzere accusati di aver aiutato gli evasori fiscali. Il primo ad essere denunciato era stato proprio Birkenfeld; il secondo Raoul Weil, ex responsabile della gestione patrimoniale, che non si è presentato dinanzi alle autorità americane ed è quindi stato dichiarato latitante. Tornando ai due personaggi denunciati ieri, il Wall Street Journal parla di quattro clienti citando l'atto di accusa: si tratta di Jeffrey Chernick e John McCarthy, due uomini d'affari che si sono già dichiarati colpevoli di aver evaso il fisco, e di altri due clienti rimasti anonimi.
I due accusati «hanno falsificato documenti bancari per far sembrare che gli asset dei loro clienti americani appartenessero a cittadini svizzeri - dice la denuncia - e hanno falsificato documenti per far sì che il rimpatrio degli asset sembrasse un'eredità ricevuta dall'estero». «Hanno spiegato ai loro clienti che i loro asset sarebbero stati più al sicuro alla Nzb visto che la banca non è presente negli Stati Uniti» e quindi «era meno probabile che le autorità americane potessero fare pressione per ottenere le loro identità». Il manager coinvolto nella vicenda è stato licenziato non appena appreso della denuncia, ha annunciato la Nzb.
Il banchiere e l'avvocato avrebbero aiutato Chernick e McCarthy a evadere le tasse attraverso società a Hong Kong collegate a un conto corrente Ubs. Inoltre - secondo il Dipartimento di giustizia Usa - i due avrebbero versato 45 mila dollari in favore di «un rappresentante del governo svizzero» per sapere se Chernick figurava nella lista dei 285 nomi che Ubs ha consegnato lo scorso febbraio alle autorità americane». Ieri il ministero pubblico della Confederazione elvetica ha confermato di aver avviato un'inchiesta contro ignoti per corruzione e violazione del segreto d'ufficio, mentre sembra che le autorità abbiano già emesso mandati di cattura nei confronti dei due uomini.
«La mossa degli Usa - afferma il New York Times - apre un nuovo fronte nella sfida fra Washington e la tradizione del segreto bancario svizzero ed è un segnale di come le autorità americane stiano ampliando il proprio attacco al segreto bancario. In Svizzera ci sono circa un terzo dei 7 mila miliardi di asset che si ritiene siano depositati offshore». «Si tratta di un nuovo passo nell'ambito degli sforzi per perseguire gli asset in paradisi nascosti, non importa dove» - ha spiegato il commissario dell'Internal Revenue Service (Irs, agenzia del fisco Usa) Douglas Shulman, precisando che le autorità «stanno ottenendo l'accesso a un numero crescente di informazioni su istituzioni e individui coinvolti in schemi di evasione fiscale tramite paradisi offshore».

Furbetti a stelle e a strisce

Furbetti a stelle e a strisce

Matteo Bosco Bortolaso

il manifesto, 23/08/2009

In America il caso della banca svizzera Ubs riapre la caccia agli evasori, finiti sul banco d'accusa come i manager delle banche fallite. E il Times sollecita il Congresso ad approvare subito la nuova legge anti-evasione

Su Madison Avenue, dietro Grand central, la stazione delle ferrovie di New York, c'è uno splendido palazzo che porta il nome di Leona Helmsley, donna ricchissima che lasciò parte della sua fortuna - 12 milioni di dollari - al suo cane maltese, Trouble. «Dovete pagare molte tasse», le disse una volta Elizabeth Baum, una governante. «Noi non le paghiamo - rispose la regina degli immobili newyorchesi - le tasse sono cosa per il popolino». Qualche tempo dopo, la Baum parlò in tribunale. E la ricca signora fu condannata ad un anno e mezzo di carcere.
E' un episodio che potrebbe ripetersi presto. Dopo i manager di Wall Street che si premiano con i bonus dorati, l'America in crisi ha trovato un nuovo capro espiatorio: gli evasori. Questa settimana è arrivata una decisione storica: la Svizzera ha deciso di collaborare con gli Stati Uniti, rendendo noti - più poi che prima - i nomi di migliaia di correntisti americani accusati di aver aggirato il fisco con l'aiuto del gigante elvetico Ubs. La banca ha tentacoli ovunque, con grosse sedi negli States: New York, New Jersey, Connecticut. Un suo spot diceva confidenzialmente: «You and us», tu e noi.
I clienti? Uomini d'affari, industriali, amanti degli yacht. Centinaia, migliaia di furbetti a stelle e strisce che popolano le coste della Florida e quelle della California. In cima alla lista c'è John McCarthy, imprenditore di Malibù che ha usato un conto corrente di Ubs - controllato da Hong Kong - per evitare di pagare tasse. Poi c'è Steven Michael Rubinstein, il contabile di una società di yacht della Florida, accusato di non aver denunciato milioni di dollari circolati su un conto elvetico gestito da una società di comodo sulle Isole Vergini. Nella galleria degli evasori troviamo anche Robert Moran, altro patito degli yacht che ha ammesso di non aver dichiarato oltre tre milioni di dollari controllati da un'azienda fittizia panamense. C'è Jeffrey Chernick, rappresentante di costruttori di giocattoli cinesi a New York che ha cercato di nascondere al fisco otto milioni di dollari, tenuti in conti segreti controllati ad Hong Kong.
Il caso più eclatante, però, è quello del re dell'immobile Igor Olenicoff, che ama la vodka e divide il suo tempo tra Orange County, in California, e Lighthouse Point, in Florida. Tra tasse evase, multe ed interessi, ha dovuto pagare al fisco americano 52 milioni di dollari. I loschi traffici di Olenicoff sono stati aiutati da Bradley Birkenfeld, ex banchiere della Ubs che si è pentito.
Birkenfeld è una figura chiave dell'affare Ubs: decidendo di collaborare con la giustizia americana, ha aperto le porte sull'universo dei ricchi evasori. Non è un caso che il 44enne, originario del Massachusetts, studi negli States e in Svizzera, abbia ricevuto attestati di stima da parecchie parti: dal senatore Carl Levin, che da tempo indaga sulla banca elvetica, dai responsabili della Securities and Exchange Commission (la Consob americana) e dalla Internal Revenue Service, l'agenzia che riscuote le tasse degli Stati Uniti.
Il pubblico ministero aveva chiesto che Birkenfeld fosse condannato a due anni e mezzo. Il giudice di Fort Lauderdale, in Florida, ha preferito una pena di tre anni, comunque meno del massimo possibile (un lustro). L'ex banchiere, in effetti, non è senza colpe: ha aiutato Olenicoff e altri abbienti ad aggirare il fisco, con sotterfugi rocamboleschi come gli ormai famosi diamanti nascosti in un tubetto del dentifricio.
L'opinione pubblica, però, è perplessa: perché punire il pentito e non il furbetto che continua a godersi il sole di Emerald Beach? Olenicoff, il 66enne re del mattone aiutato da Birkenfeld, ha pagato i 52 milioni di dollari di arretrati e se l'è cavata con la condizionale. «Quello più ricco non è andato in carcere - commenta rabbioso un lettore di Usa Today, che si firma Brutus Buckeye - ancora una volta, se hai i soldi per pagare le multe, evadere le tasse è un rischio accettabile!». In effetti, la legge degli Stati Uniti prevede il carcere per gli evasori, ma chi riesce a pagare può evitare la galera. Secondo Tax Justice Network, un'associazione che combatte i paradisi fiscali, gli evasori hanno nascosto a livello planetario più di 11 trilioni di dollari. Se la Svizzera, viste le prime crepe nel segreto bancario, non sembra più essere un luogo sicuro, i furbetti puntano ad altri lidi: Singapore, Panama, Liechtenstein.
Ieri il New York Times ha dedicato alla faccenda il primo dei suoi editoriali, suonando la carica: «Il Congresso - scrivevano le penne della pagina Op-Ed - dovrebbe approvare la legislazione anti-evasione preparata per il bilancio 2010». Con le nuove norme, spiega il giornale, l'agenzia per la riscossione potrebbe chiedere alla banche all'estero di rendere note alcune informazioni sui risparmi dei cittadini americani, con la possibilità di prelevare le tasse non pagate.

domenica 9 agosto 2009

Amazzonia all'avanguardia

Amazzonia all'avanguardia

Gianni Proiettis

il manifesto del 05/08/2009

Dopo i sanguinosi scontri di giugno nella Amazzonia peruviana, il governo di García credeva di avere stroncato il movimento di resistenza indigena. Ma si è sbagliato

La strage della Curva del Diablo, perpetrata nei pressi di Bagua nell'Amazzonia peruviana il 5 giugno scorso, costituisce «un nuovo episodio della storia di lotta e resistenza dei popoli per la vita», come è stato scritto, mostra la forza e la maturità del movimento indo-amazzonico e marca un prima e un dopo nella storia recente del Perú.
Per i fatti di Bagua - in cui furono uccisi 24 poliziotti e un numero imprecisato, ma certamente superiore, di indios amazzonici - la stampa peruviana ha già creato un neologismo: un «baguazo», un colpo alla Bagua, servirà a indicare d'ora in poi la repressione omicida esercitata a tradimento dallo Stato contro una protesta popolare.
Gli indios awajún e wampis che bloccavano la strada statale Fernando Belaúnde all'altezza della Curva del Diablo avevano una valida ragione per la loro lotta: impedire il saccheggio e la devastazione delle terre ancestrali, salvare l'Amazzonia dalla cupidigia dell'uomo bianco e dall'ombra mortale del suo «sviluppo».
Con un nome preso in dalla mitologia greca, selva primordiale e terra incognita per eccellenza, bacino fluviale delle dimensioni di un continente, l'Amazzonia non è solo «il polmone del pianeta» per i suoi 7 milioni di km quadri di vegetazione, ne è anche il rene - gigantesco filtro acquatico - e l'utero, in quanto crogiuolo umido e fecondo della massima biodiversità.
Divisa fra sette paesi - Brasile, Guyana, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia - l'Amazzonia è una delle regioni linguistiche più complesse del pianeta: 300 lingue autoctone, derivate da 20 famiglie differenti, per meno di due milioni di parlanti. La sola Amazzonia peruviana ospita 60 gruppi etnici diversi e altrettante lingue e cosmovisioni.
Immortalato da Claude Lévi-Strauss, studiato da generazioni di etnografi e antropologi, ammirato in crescendo dai lettori occidentali, l'indio amazzonico, al di là della varietà delle sue etnie e culture, presenta paradossalmente, in una società considerata «senza scrittura», le capacità poliedriche di un saggio del Rinascimento: architetto (e costruttore), artista, astronomo, botanico (e terapeuta), guerriero (e cacciatore), musicista, naturalista, inventore. E, soprattutto, guardiano della foresta, scudo umano contro il «progresso» occidentale portato dalle grandi compagnie, che non arretrano neanche di fronte all'etnocidio e all'ecocidio.
Preceduta da un anno di proteste contro i decreti-legge del presidente Alan García - fast track all'apertura indiscriminata di una regione grande una volta e mezza l'Italia alle multinazionali, soprattutto estrattive e agro-industriali, ignorando l'esistenza e i diritti degli abitanti originari - l'aggressione poliziesca di Bagua, che nelle intenzioni del governo avrebbero dovuto porre fine a quasi due mesi di scioperi, occupazioni e blocchi stradali, ha provocato invece un effetto domino nella realtà nazionale e il risveglio della campagna in difesa dell'Amazzonia e dei suoi popoli a livello mondiale.
Dopo il ritiro dei decreti più apertamente incostituzionali - uno dei quali chiamato ironicamente ley de la selva, la legge della giungla - ci sono state le dimissioni del governo di Yehude Simon, a metà luglio. Simon, che ha un suo progetto di carriera politica a lungo termine, ha evitato dimettendosi di pagare due conti: quello con le comunità amazzoniche e le loro organizzazioni e, soprattutto, quello con la giustizia, a cui dovrebbe rispondere per la strage di Bagua.
Con la formazione del nuovo governo, guidato da Javier Velázquez Quesquén, che guardacaso è stato il maggior responsabile, come presidente del Congresso, del ritardo del dibattito parlamentare sui decreti amazzonici, il presidente Alan García manda un messaggio forte e chiaro: dopo l'effimera vittoria del movimento indigeno con il ritiro dei decreti, che ci si prepari a una stagione di repressione dura. C'è già chi lo ha definito un «governo di trincea», preoccupato soprattutto, dopo le giornate di lotta del 7-8 luglio di molti settori e in tutto il paese, di non farsi sfuggire di mano la situazione.
Tutte le promesse fatte da Yehude Simon - ormai ribattezzato popolarmente Judas, Giuda - si stanno avverando al contrario: per i cinque principali dirigenti dell'Aidesep (la Asociación Interétnica para el Desarrollo de la Selva Peruana, l'organizzazione che raggruppa 1350 comunità della selva, varie organizzazioni regionali ed è l'unico interlocutore valido del governo) non si vogliono ritirare i mandati di cattura, credendo così di decapitare il movimento.
Ad Alberto Pizango, il lucido e battagliero leader shawi rifugiato in Nicaragua, si sono aggiunti i fratelli Cervando e Saúl Puerta Peña, a cui il governo peruviano ha concesso il lasciapassare. Teresita Antazu, presidente della Unión de Nacionalidades Asháninka-Yanesha, ha rifiutato l'asilo politico di Managua e ha preferito restare in clandestinità in Perù, da dove rilascia combattive interviste in cui sottolinea l'assurdità delle accuse con cui si vorrebbe addossare ai dirigenti indigeni la responsabilità dei fatti di Bagua, proprio mentre loro si trovavano a Lima impegnati nelle trattative con il governo.
Anche Santiago Manuín, un leader del movimento indo-amazzonico riconosciuto a livello continentale, non ha voluto esiliarsi in Nicaragua. Voluto né potuto, visto che è ancora ricoverato nell'ospedale di Chiclayo dopo aver ricevuto otto colpi di una raffica di mitra la mattina del 5 giugno alla Curva del Diablo. Santiago si stava dirigendo verso i poliziotti con le mani in alto, esortandoli a non aprire il fuoco. Nessuno dei manifestanti che partecipavano al blocco stradale aveva armi da fuoco. Al massimo, le loro lance di legno, che usano anche come simboli di identità.
Varie organizzazioni nazionali e internazionali stanno chiedendo al presidente García e alla magistratura peruviana che si cambi il mandato di cattura a Santiago Manuín e agli altri dirigenti con uno di comparizione. Ma non sembra esserci nessuna volontà di ammorbidimento nel nuovo governo, anzi. Si è cercato di dividere l'Aidesep (www.aidesep.org.pe), facendo convocare un'assamblea per il cambio di direzione da un ex-dirigente estromesso per peculato.
Lo zampino fin troppo scoperto del governo in questa operazione divisionista si è scontrato con una direzione provvisoria - Daysi Zapata sostituisce attualmente Alberto Pizango - decisa a far valere la legalità. Gli otto apus, i soli rappresentanti regionali con la facoltà statutaria di convocare un'assemblea di quel tipo, sono venuti a Lima per confermare l'attuale direzione. I divisionisti sono rimasti con le pive nel sacco di fronte alla dimostrazione di forza e unità del movimento, ormai con appoggio a livello nazionale e solidarietà mondiale.
Da parte del governo, che gode di bassissima popolarità, non c'è da aspettarsi una conversione: è di pochi giorni fa la notizia che il ministro degli esteri José Antonio García Belaúnde ha protestato presso il governo nicaraguense per aver permesso un intervento telefonico di Alberto Pizango in un congresso del movimento indigeno dell'Amazzonia centrale. Secondo il governo peruviano, si «varcati i limiti» del diritto d'asilo.
Ma nella trincea opposta, quella che difende l'Amazzonia, non si sta mani in mano. Daysi Zapata era attesa ao a Ginevra i primi d'agosto per accusare di razzismo il presidente Alan García di fronte a un'apposita commissione. L'Onu, che ha già inviato in Perù il relatore sui diritti umani James Anaya, insiste perché sia un organismo indipendente e internazionale a indagare sui fatti di Bagua. Amnesty International ha già mandato due osservatrici per un'inchiesta sul luogo.
Alan García, che ha pronunciato un discorso alla nazione il 28 luglio, festa dell'Indipendenza e inizio del quarto e penultimo anno del suo mandato, non ha smesso, neanche per l'occasione, di farneticare sul «complotto internazionale» contro il Perú, capitanato da Evo Morales e Hugo Chávez ed eseguito da alcune perfide ong.
«Se si prendessero la briga di vedere da dove vengono i maggiori finanziamenti all'Aidesep», dice Maria Pia Dradi, «avrebbero la sorpresa di scoprire che vengono soprattutto da Spagna e Germania, due paesi poco propensi alla sovversione». Maria Pia è la responsabile del Fondo Italo-Peruano, un fondo da 200 milioni di dollari che si trasformano da debito estero in cooperazione allo sviluppo. Con una prassi che andrebbe riprodotta in molti altri paesi, il Fondo seleziona fra i progetti presentati dalle ong quelli più interessanti e urgenti - produttivi, ecologici, culturali, archeologici e così via - e li finanzia. Va menzionato l'ottimo lavoro di Terra Nuova, presente da più di 20 anni in Amazzonia, con progetti di salute, educazione, acquicoltura, etnoturismo e agroforesteria.
Le scelte e le decisioni del comitato direttivo del Fondo si prendono per consenso più che per maggioranza. E' un omaggio al principio del consenso comunitario praticato nelle assemblee indo-americane o è un esperimento democratico per superare la vecchia e oppressiva regola della maggioranza?
Intanto è trapelato che, negli stessi giorni in cui venivano ritirati i decreti amazzonici, il ministero per l'energia e le miniere ha firmato un contratto di concessione alla compagnia petrolifera anglo-francese Perenco, che investirà due miliardi di dollari nella perforazione di cento pozzi nel Block 67, ai confini con l'Ecuador. La previsione è di estrarre 100mila barili di greggio al giorno. Poco importa che gli studi di impatto ambientale abbiano segnalato la presenza di due tribù incontattate nella zona: il governo ha dichiarato la concessione «necessità nazionale».

sabato 1 agosto 2009

I tank Usa nell´antica Babilonia "Devastata la culla della civiltà"

I tank Usa nell´antica Babilonia "Devastata la culla della civiltà"
FRANCESCA CAFERRI
SABATO, 01 AGOSTO 2009 LA REPUBBLICA - - Esteri

Durante la guerra per 18 mesi il sito archeologico iracheno fu trasformato in zona militare dagli americani Dopo 4 anni di studio il report Unesco accusa: reperti distrutti, strade danneggiate, bassorilievi divelti

Una delle culle della civiltà antica. Basta il nome per evocarne la leggenda: i giardini pensili di Nabucodonosor, una delle Sette meraviglie del mondo antico. Il codice di Hammurabi, fra le più antiche raccolte di leggi della storia dell´umanità. Il sogno di grandezza Alessandro Magno, che voleva farne la sua capitale. Le Nazioni Unite annunciano oggi al mondo che parte del patrimonio artistico e culturale dell´antica capitale degli assiri e dei babilonesi è andato perduto per sempre. La responsabilità, sostengono gli esperti dell´Unesco - l´agenzia Onu per la cultura - non è del tempo né di ladri d´arte senza scrupoli: piuttosto dell´esercito americano e dei suoi contractors che durante l´ultima offensiva in Iraq hanno utilizzato la zona come base militare.
L´accusa è contenuta in un rapporto stilato dopo quattro anni di lavoro da un team internazionale di esperti e archeologi: pur sottolineando i danni subiti dall´area già prima del 2003 - Saddam Hussein la trasformò in una sorta di parco di divertimenti che inneggiava alla sua gloria, con parcheggi e palazzi, sostituì anche parte delle iscrizioni antiche con quelle con il suo nome - lo studio non lascia dubbio sui danni che la trasformazione dell´area in Camp Alpha fra l´aprile 2003 e il dicembre 2004 ha provocato. "L´uso di Babilonia come base militare è stata una grave violazione di questo sito archeologico conosciuto in tutto il mondo. Durante la loro permanenza, l´esercito americano e i suoi contractors, principalmente Kbr (società controllata da Hulliburton, il colosso legato all´ex vicepresidente Dick Cheney a cui andarono buona parte degli appalti legati all´esercito americano in Iraq ndr) hanno provocato danni diretti alla città scavando, tagliando, demolendo e livellando. Fra le strutture fondamentali danneggiate ci sono la porta di Ishtar (principale accesso alla città, ndr) e il viale delle Processioni", scrivono gli esperti dell´Onu.
Seguono una serie impressionante di accuse: trincee scavate lungo le antiche mura. Distruzione di reperti per costruire strutture moderne. Uso di zone non ancora esplorate come parcheggi per veicoli pesanti, con conseguenti danni a tutto ciò che era sottoterra. Costruzione di una pista per elicotteri nella zona dell´antica città. Demolizione e livellamento di diverse aree archeologiche, poi ricoperte con sabbia e terriccio. Uso di materiali chimici e strumenti per compattare il terreno in zone ancora da scavare. E infine le lesioni alle strutture: "I danni alla porta di Ishtar comprendono la distruzione parziale di nove degli animali che adornano la porta e rappresentano il leggendario drago-serpente simbolo di Marduk, il dio della città. Sul Viale delle Processioni sono chiari gli effetti del passaggio di veicoli pesanti che hanno rotto la pavimentazione della strada".
Sia Kbr e che l´esercito americano hanno per il momento preferito non rispondere alle accuse nel dettaglio. «Il nostro scopo era proteggere la zona dai saccheggi», ha detto un portavoce militare intervistato dalla Cnn. Mentre Kbr si è limitata a sottolineare che «l´impegno a fornire servizi di alta qualità alle truppe in Iraq rimane». Ma il dipartimento di Stato Usa si è indirettamente assunto la responsabilità dei danni e ha stanziato 700mila dollari per restaurare le zone più danneggiate. Allo stesso tempo, l´Unesco sta cercando di inserire il sito nella lista di quelli Patrimonio mondiale dell´Umanità, in modo da garantire l´accesso a nuovi fondi. Qualcosa, sostengono gli esperti, sarà possibile recuperare. E magari durante i restauri potrebbero esserci sorprese importanti: «Molto rimane ancora sotto terra. Ci sono ancora tante cose da scoprire sull´antica Babilonia», scrive l´Unesco.

SABATO, 01 AGOSTO 2009

Pagina 32 - Esteri

L´intervista

De Martino, del Centro Scavi di Torino

"È un simbolo per il mondo ora va salvata"



Washington pronta a spendere 700mila dollari per riparare: ma molto è andato perduto per sempre

Gli esperti del Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l´Asia sono fra quelli che, a livello mondiale, conoscono meglio la situazione dei siti archeologici iracheni: è anche grazie a loro che è stato possibile riaprire il museo di Bagdad e esplorare Selecia, antica città sul Tigri. Collaborano anche con l´Unesco a Babilonia. Il professor Stefano De Martino è il direttore del centro.
Professore, ha ragione l´Unesco quando parla di danni gravissimi?
«Sì. L´Antiquarium è stato danneggiato. Una pista per elicotteri è nata vicino agli scavi. Il sito ha sofferto moltissimo, come tutti quelli nella zona più meridionale dell´Iraq, quella più difficile da controllare».
Perché Babilonia è un luogo così importante?
«È il simbolo stesso dell´antichità orientale, un simbolo per tutto il mondo. Per questo serve uno sforzo internazionale per recuperare quello che si può».
Crede che un recupero sia possibile?
«Parliamo di un sito molto difficile, che è stato vissuto per 2000 anni e dove gli strati si sono sovrapposti. Ci sono danni irreparabili ma credo che ci sia anche tanto materiale su cui lavorare ancora».
Cosa sta facendo il vostro centro per il recupero?
«In questo momento siamo impegnati in un progetto di mappatura dell´area dall´alto, in modo da catalogare le strutture architettoniche rimaste in piedi. In questo modo quando si potrà tornare a lavorare sul terreno potremo ricostruire quello che è possibile».
(fr. caf.)