mercoledì 23 luglio 2008

La vita ci appartiene!

Il dibattito vita/morte, testamento biologico, accanimento terapeutico e eutania diviene ogni giorno sempre più attuale.
Abbiamo sempre pensato che la vita appartenga alle persone, e che ogni persona possa disporre liberamente della sua esistenza. Le religioni monoteistiche, oltre ad aver inventato un dio creatore, follemente sostengono che la vita appartine al loro inventato dio. Noi non siamo dei burattini in loro mano. Per questo motivo, e per seguire il dibattito su a chi appartenga la vita è nato il blo:
http://lavitaciappartiene.blogspot.com
Il blog informerà su quanto viene scritto su questo tema.

martedì 22 luglio 2008

Una funivia sulle Cinque Terre "Fermatevi, è uno sfregio al parco"

LIGURIA - Una funivia sulle Cinque Terre "Fermatevi, è uno sfregio al parco"
MARCO PREVE
la Repubblica 22/07/2008

Dovrà collegare uno dei sentieri più affollati dai turisti - la via dell´amore o sentiero azzurro - sopra il comune di Riomaggiore, alla cima del monte Parodi, ad un´altezza di 600 metri dove si trova il forte di Bramapane.
Bonanini difende la scelta del Parco e della Regione Liguria (che per l´opera stanzierà in totale un milione di euro) di un «ascensore che unisce, come un´opera d´arte e che avrà una sola campata, quindi un impatto assolutamente minimo». Anzi Bonanini rilancia e annuncia che il Parco ha già presentato ricorso nei confronti del Genio Militare che un anno fa ha venduto ad una società privata di Pavia, la Cinque Forti srl, l´ex forte militare di Bramapane «senza rispettare l´opzione di prelazione che ci spettava e che non ci è stata neppure offerta».
Ma partiamo dalla funivia che potrebbe essere lunga circa due chilometri. E dalla delibera del Consiglio Nazionale di Italia Nostra dopo la segnalazione del presidente regionale dell´associazione, Giovanni Gabriele. «Una struttura di questa natura - dicono da Italia Nostra - determinerebbe l´occupazione di spazi attualmente liberi nel luogo di partenza e in quello di arrivo con la inammissibile alterazione della delicata morfologia del territorio e dunque con lesione della stessa integrità fisica di aree protette».
Nel mirino la visibilità della struttura: «L´impianto, con la realizzazione delle invasive stazioni a valle e a monte e la successione dei piloni di sostegno, altererebbe l´immagine del parco, interferendo nelle molteplici visuali da terra e dal mare».
In conclusione, secondo l´associazione Italia Nostra, ci si trova di fronte all´«introduzione di un sistema artificiale di mobilità dentro il parco e in zona di protezione naturalistica sul modello, del tutto estraneo al paesaggio costiero, delle attrezzature a servizio delle zone sciistiche di montagna».
«Non capisco la critica perché il progetto definitivo ancora non c´è - replica Bonanini che è anche il presidente dell´Agenzia Turistica regionale - . L´idea in ogni caso è quella di realizzare una funivia che parta da mezza costa, ad una sola campata, senza piloni intermedi e con strutture necessarie solo ad ospitare i macchinari meccanici. Tra l´altro il percorso è in una valle chiusa, senza vista sul mare. È una scelta per alleggerire la costa. Attualmente le migliaia di visitatori, quasi tutti escursionisti, si concentrano in una porzione minima di territorio, il 4 forse il 5%. In più, con la funivia, si potranno offrire opportunità turistiche anche ai comuni e ai borghi dell´altro versante della val di Vara».
Il dibattito sulla futura funivia conferma l´altissimo livello di sensibilità ambientale che circonda il Parco delle Cinque Terre, patrimonio Unesco. E che, se da un lato costringe Bonanini alla difesa, dall´altro lo vede all´attacco, impegnato a sua volta in una battaglia contro il Genio Militare che ha venduto il forte Bramapane ad un´immobiliare di Pavia. «Vogliamo bloccare tutto - spiega Bonanini - . Non ci è stato permesso di esercitare la nostra prelazione per acquistare l´area. È chiaro che i vincoli impediscono tentativi di speculazione, ma se hanno acquistato qualche speranza devono averla e noi certo non vogliamo far loro un regalo portando la gente con la funivia. Noi su quelle aree vogliamo ci siano biciclette e cavalli, non alberghi esclusivi».

lunedì 21 luglio 2008

La medicalizzazione della nascita

l'Unità 21.7.08
La medicalizzazione della nascita, il dolore, la mancanza di informazioni corrette alle donne tra i temi affrontati da Elisabetta Malvagna
Niente paura, è solo un parto
di Cristiana Pulcinelli

In Italia la percentuale più alta di tagli cesarei tra i paesi industrializzati

L’Italia è uno dei paesi con il più basso tasso di natalità. Ma è anche il paese industrializzato con il più alto numero di parti cesarei. Facciamo pochi figli e quei pochi li facciamo nascere con l’aiuto della chirurgia. Nel 2003 il 36,4% dei parti avvenuti nel nostro paese sono stati parti cesarei: fino a vent’anni fa erano tre volte di meno.
Il fenomeno naturalmente non è solo italiano: un aumento del ricorso al bisturi nel momento del parto si riscontra negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania. E recentemente anche paesi come l’India, il Brasile e la Cina stanno assistendo a un fenomeno analogo, nonostante che per l’Organizzazione Mondiale della Sanità il numero di cesarei dovrebbe costituire un 15% di tutti i parti.
Perché si ricorre al cesareo? In un libro della giornalista dell’Ansa Elisabetta Malvagna (Partorire senza paura, Edizioni red!, pp. 141, euro 12,00) troviamo alcune risposte. Le statistiche dicono che l’uso del bisturi avviene più nelle strutture private che nelle strutture pubbliche. Questo fa pensare che ci sia un ritorno economico maggiore a spingere verso il ricorso alla chirurgia, inoltre c’è il fatto che il parto si può programmare in anticipo senza dover saltare pasti o sonni. Ma non bisogna dimenticare che c’è anche un alto numero di donne che chiede di partorire con il cesareo. Tanto che nel 2004 il governo britannico ha esortato i medici del sistema sanitario pubblico a non accettare automaticamente le richieste di partorire con il taglio cesareo avanzate dalle future mamme. Il taglio cesareo infatti non è esente da rischi per la madre e, inoltre, costa molto di più al servizio sanitario.
A spingere le donne verso la chirurgia è la paura, sostiene Malvagna. Prima di tutto paura del dolore. Ma l’autrice punta il dito contro la mancanza di informazione. «Il problema è che 4 donne su 10 non ricevono un’informazione sufficiente sul loro stato e per il 50% le opinioni della partoriente non sono prese in considerazione». Anche il dolore si può affrontare se si hanno gli strumenti per farlo e se si sa esattamente cos’è e perché c’è.
Il fenomeno dell’incremento nel numero di cesarei, in realtà, è solo un aspetto di un fenomeno più vasto che si potrebbe definire «medicalizzazione» del parto. Le donne partoriscono da sempre e sanno come farlo, ma negli ultimi duecento anni il parto non è più una cosa naturale. Ai primi dell’Ottocento si diffonde l’uso del lettino ostetrico e il forcipe viene inventato poco prima. Quasi contemporaneamente comincia il declino del ruolo dell’ostetrica a favore del ginecologo. La partoriente comincia ad essere considerata una persona malata.
Malvagna racconta i suoi due parti avvenuti in casa e segnala le esperienze pilota internazionali, senza disconoscere il ruolo della medicina: dove e come partorire è una scelta individuale, ma deve essere fatta in possesso di tutte le informazioni. Un’esigenza già espressa da una Carta dei diritti della partoriente votata dal parlamento di Strasburgo nel 1988, ma che l’Italia non ha mai ratificato.

domenica 20 luglio 2008

Gli agrocarburanti la causa principale dei prezzi stellari del cibo

Gli agrocarburanti la causa principale dei prezzi stellari del cibo

di Junko Terao

Il Manifesto del 05/07/2008

Secondo un rapporto «segreto» della Banca mondiale hanno fatto salire del 75% i costi dei prodotti di base

Negli ultimi sei anni i prezzi dei prodotti alimentari sono hanno subito un'impennata del 220%, cento milioni di persone in più si trovano sotto la soglia della povertà e la mortalità infantile per malnutrizione nei paesi in via di sviluppo sta aumentando vertiginosamente: la causa? Principalmente gli agrocarburanti.
Lo dice il quotidiano britannico The Guardian che cita un rapporto della Banca Mondiale redatto lo scorso aprile e mai pubblicato, secondo cui gli agrocarburanti hanno provocato un aumento del prezzo degli alimenti di base pari al 75% , e non al 3% come sostengono da sempre i difensori dei agrocombustibili, Stati uniti in primis. Secondo il Guardian il rapporto è rimasto nel cassetto proprio per non «mettere in imbarazzo» Washington, che punta il dito contro la crescente domanda di India e Cina. Ma nel rapporto si legge che «la rapida crescita dei redditi nei paesi in via di sviluppo non ha portato un grande aumento del consumo globale e non è stato un fattore decisivo per i rincari». E non c'entra nemmeno la siccità in Australia, altro fenomeno riportato generalmente tra le cause dei prezzi stellari di mais, grano, riso e altri cereali di base.
La verità - secondo la Banca Mondiale - è che, senza l'aumento considerevole della produzione di agrocarburanti, le scorte di grano e mais non sarebbero diminuite in modo così drastico e l'impennata dei prezzi dovuta ad altri fattori sarebbe stata più contenuta.
Dopo che, negli ultimi mesi, le proteste popolari hanno minacciato la stabilità politica di molti paesi in tutto il mondo, la crisi alimentare è diventata un tema di primo piano nell'agenda del G8 in programma per la prossima settimana in Giappone. L'emergenza alimentare sta mettendo in ginocchio le popolazioni dei paesi più poveri: il cibo pesa sui bilanci delle famiglie del Bangladesh per il 65%, su quelle di Haiti e del Kenya per il 50% e su quelle senegalesi per il 40%. Secondo i dati dell'Unicef, inoltre, a causa della crisi un milione e ottocentomila bambini indiani in più sono a rischio malnutrizione.
Ma i prezzi sono destinati ad aumentare, soprattutto perché le politiche di Usa e Ue puntano tutto sugli agrocarburanti di prima generazione - quelli derivati da coltivazioni ad hoc - offrendo sussidi che, nel caso dell'etanolo negli Usa, arrivano a 45 centesimi di dollaro per gallone e che anche il Fondo monetario internazionale ha chiesto di rivedere. Peccato che le recenti stime del colosso umanitario britannico Oxfam dicano che, anche se tutti i raccolti di grano statunitensi venissero convertiti in etanolo, questo rimpiazzerebbe solo un gallone di carburante ogni sei venduti negli Usa.
Intanto l'Ue ha deciso di investire un milione di euro entro la fine del 2009 per aiutare gli agricoltori nei paesi in via di sviluppo a far fronte alla crisi e ad aumentare la produzione. Ma gli agrocarburanti non si toccano.

«Tutti in piazza contro la Tav». E i valsusini bocciano l'«accordo»

«Tutti in piazza contro la Tav». E i valsusini bocciano l'«accordo»

di Elsa Camuffo

Il Manifesto del 05/07/2008

«Siamo tutti d'accordo?». Il titolo dell'assemblea di ieri sera a Bussoleno non poteva essere più eloquente. E la risposta alla domanda non si è fatta attendere: a centinaia sono arrivati nel piazzale dietro al centro polivalente di Bussoleno. Sono i valsusini arrabbiati che non ci stanno all'accordo, vero o presunto, raggiunto a conclusione dei lavori dell'osservatorio tecnico sulla Torino-Lyon. Vogliono dire la loro anche perché si sentono ingannati dai loro sindaci, quei sindaci di movimento che ormai raramente si fanno vedere in piazza. Un'assenza che tutti notano e sottolineano. «Non vogliono più il confronto pubblico», dice qualcuno ricordando che proprio in questo spazio nei momenti caldi della lotta contro il Tav la comunità si ritrovava unita a votare, a decidere insieme del futuro della valle. Oggi ci sono tantissimi cittadini, i comitati no Tav, i sindaci «dissidenti». Un migliaio di persone, giovani, vecchi, donne e lavoratori, per una assemblea che è ormai classica nella sua composizione per la val Susa.
Ha aperto l'assemblea Alberto Perino, per i comitati no Tav. «Stanno vendendo la pelle dell'orso - ha detto in maniera efficace e colorita - non solo prima di averlo ammazzato ma prima ancora di averlo trovato». Tra gli amministratori presenti Loredana Bellone, sindaco di San Didero, una dei quattro sindaci che non hanno partecipato ai lavori dell'osservatorio e che ha ribadito il suo impegno a fianco della gente della val Susa. Presenti anche gli altri tre sindaci dissidenti e vari amministratori. Assenti invece totalmente, ed è un'assenza pesante che segna una svolta in qualche modo in valle, i sindaci che hanno partecipato alle riunioni dell'Osservatorio.
In risposta alla presidente della provincia di Torino Mercedes Bresso e a quanti, nelle istituzioni, chiedono un referendum sull'alta velocità, ieri sera l'assemblea ha ribadito che il referendum è già stato fatto e lo dimostrano le 32mila firme raccolte in valle. Viene sottolineato da più interventi il poco rispetto dei cittadini, della loro volontà e in qualche modo di quello stesso metodo di democrazia dal basso che ha caratterizzato la lotta di questi anni.
Claudio Cancelli, ingegnere del Politecnico, ha rilevato come tra i quattro punti manchi l'opzione zero che invece era stata la conquista della valle nell'autunno caldo del 2005, vale a dire la possibilità di non realizzare affatto l'opera. Lele Rizzo dei comitati popolari no Tav ha ricordato l'appuntamento con il campeggio che si svolgerà dal 21 al 27 luglio e che sarà un ulteriore momento per discutere anche delle iniziative da intraprendere in autunno. Prima fra tutte una nuova manifestazione nazionale in valle, dove i comitati e i movimenti no Tav ribadiranno la convinzione di essere la maggioranza. «I sindaci - ha detto Rizzo - hanno scelto da che parte stare e hanno scelto di ingrassare la lobby del Tav».
L'assemblea ha registrato le comunicazioni di Rifondazione della val Susa e degli indipendenti di sinistra, che hanno confermato di voler uscire dalla giunta della comunità montana Bassa val Susa. «Vediamo purtroppo che è cambiato l'approccio di molti colleghi amministratori, riconoscendo un ruolo super partes al tavolo politico, con governi che vogliono comunque fare l'opera», hanno detto gli indipendenti di centrosinistra. «Per rispettare l'impegno assunto verso i nostri amministrati - hanno concluso - riteniamo ormai superflue e inutili le programmate verifiche di maggioranza e comunichiamo, con decorrenza immediata, la nostra uscita dalla maggioranza». Lo stesso ha fatto Rifondazione, che ha sottolineato come «la storia dei cedimenti è lunga e viene da un passato che avevamo deciso di superare, grazie soprattutto alle mobilitazioni che hanno avuto il punto più alto nella liberazione di Venaus del dicembre 2005».
Sono quattro i punti del presunto accordo sbandierato da Mario Virano, che proprio ieri è stato riconfermato a capo dell'Osservatorio. Il punto 1 è quello più importante per i sindaci perché sancisce che «la politica delle infrastrutture non è scindibile dalla politica dei trasporti e del territorio». Si parla dunque di prevedere un «miglior utilizzo per la linea storica Torino-Lyon sia per i passeggeri che per le merci». Il punto 2 stabilisce la necessità di una «regia unitaria». Mentre il punto 3 pone l'accento sulle «convergenze sulle fasi progettuali e le divergenze su quelle realizzative». Le due posizioni esplicitate sono quella che ritiene si debba «operare per lotti funzionali, affidandosi alla programmazione degli interventi e alla loro razionale attuazione secondo un quadro di riferimento». La seconda posizione invece «ritiene indispensabile sottoporre l'attivazione dei lotti per fasi successive a una verifica dell'effettivo conseguimento degli obiettivi della fase precedente». A questo orientamento si rifanno i sindaci. Al punto 4 i riferimenti per una progettazione ispirata dal territorio e rivolta all'Europa.

(hanno collaborato Gianluca Pittavino e Gabriele Proglio)

La base Dal Molin va al referendum

La base Dal Molin va al referendum

di Orsola Casagrande

Il Manifesto del 09/07/2008

Il consiglio comunale approva la proposta della giunta di centrosinistra. La parola ai cittadini, a ottobre. Il sindaco Variati (Pd) durissimo con Berlusconi, Prodi e il commissario di governo Costa

Alla fine è arrivato il sì che apre ufficialmente un conflitto istituzionale tra il comune di Vicenza e il governo. Che si somma alla sospensiva del Tar e all'opposizione frontale dei no Dal Molin, di fronte alle quali Berlusconi e il commissario straordinario Costa fanno la faccia dura. Il consiglio comunale di Vicenza ha approvato nella tarda serata di ieri, a larga maggioranza, un ordine del giorno contrario al progetto di realizzazione della nuova base militare americana all'aeroporto Dal Molin e congiuntamente la delibera che indice la consultazione popolare sulla destinazione d'uso della stessa area.
Il sindaco Achille Variati ha così fatto quello che aveva promesso di fare in campagna elettorale. E' stato proprio il primo cittadino ad aprire il consiglio ripercorrendo con parole anche molto dure la storia del Dal Molin fin qui. Ce l'ha con la vecchia giunta, Variati, ma anche con il governo Prodi. «Hanno risposto alle interrogazioni parlamentari dicendo che nulla sembrava essere definitivo. E' responsabile questo? - si è chiesto Variati - No, è irresponsabile. E' stato responsabile da parte di Prodi quello che io e altri abbiamo chiamato editto di Bucarest? E' responsabile approfittare di una visita all'estero dicendo la base si farà, quasi a esprimere una forza che quel governo non aveva?». E ancora, il sindaco si è chiesto se sia stato «responsabile da parte di quel governo non mandare mai a Vicenza nemmeno un sottosegretario dei tanti, non dico un ministro. A spiegare, a sentire una città che nel frattempo cominciava a muoversi. No, io dico, è stato irresponsabile». Il sindaco non ha risparmiato neppure Costa. «E' stato spedito un commissario di governo, l'onorevole Costa, al quale il governo Prodi non ha dato un potere di negoziato tra le parti dicendogli che l'obiettivo è realizzare al Dal Molin quello che il governo chiama allargamento della Ederle e che io chiamo, molto più propriamente, una nuova base. Non è stato responsabile. Il lavoro del commissario è stato quello di tentare di minimizzare gli impatti. La città chiede notizie che non vengono date, mai. Il dissenso, le manifestazioni, la grande manifestazione demonizzata equiparata a momento di violenza. Io c'ero, ho visto, so che gente c'era. Di Vicenza e non solo. Ma la Costituzione di fronte alle dichiarazioni dei ministri di allora non deve garantire anche il dissenso, o il dissenso va demonizzato?»
Variati ha quindi sottolineato di aver «cercato documenti anche sulle cosiddette compensazioni. Non c'è nessuna sicurezza su nulla. In questo pasticcio - ha detto ancora il sindaco - dove le vittime principali sono gli americani ai quali hanno detto tutti che va tutto bene e bene non va, e la nostra città. La responsabilità oggi è quella di non lasciare la città vittima, di non continuare in quella cappa di silenzio». Quindi Variati ha detto di aver parlato con «il governo che ha da salvaguardare una ragion di stato. Secondo me la ragion di stato deve sapersi coniugare con le ragioni della comunità. Sarebbe drammatico per la nostra libertà e democrazia se la ragion di stato fosse imposta con i manganelli». Il sindaco ha infine ricordato che «il consiglio di stato ha ritenuto di rinviare al 29 luglio pur con le pressioni che ritengo non siano state da poco. Credo che il pensiero della città si debba sentire, seppur in zona cesarini. Ecco, deriva da qui questa delibera».
L'opposizione di centrodestra ha chiesto di sospendere la seduta ritenendo illegittima la delibera. Ma la richiesta è stata respinta e il consiglio, a volte teso, è proseguito. Il sindaco ha anche ricordato di aver posto un quorum «che non era richiesto, ma è per me segno di responsabilità. So che qualcuno avrebbe preferito non ci fosse. Ma dobbiamo capire se la città interpellata sull'idea di avviare il procedimento di acquisizione dell'area riterrà di interessarsi o di disinteressarsi». Applausi da parte dei consiglieri di maggioranza, ripresi dal presidente del consiglio che ha ammonito i suoi colleghi a esprimere il loro consenso soltanto con il voto. Voto che è giunto a tarda sera, dopo un dibattito dai toni anche molto accesi da parte dell'opposizione che non ha lesinato accuse (ma sembravano più che altro attacchi di rabbia) al sindaco e alla giunta.
Fuori, in piazza dei Signori, centinaia di cittadini si sono ritrovati per assistere al consiglio, visto che in sala i posti erano limitati. Il presidio permanente no Dal Molin aveva allestito dei maxischermi per poter dare a tutti la possibilità di partecipare.

Panico made in USA, in fila davanti alle banche

Panico made in USA, in fila davanti alle banche

di Carlo Leone Del Bello

Il Manifesto del 16/07/2008

Il fallimento della Indymac ha messo in evidenza la crisi. Non è più solo nei listini di borsa, ma si vede per le strade: i correntisti ritirano i risparmi. Il presidente Usa tenta di rassicurare e invita il Congresso a sostenere i salvataggi. Intanto la recessione si avverte anche in Spagna, mentre in Brasile e Giappone ripartono le proteste

George W. Bush crede che il sistema finanziario americano sia «fondamentalmente solido». Lo crede davvero, ha aggiunto, come se ci fosse stato bisogno di una ulteriore rassicurazione. Tuttavia, la chiave per la risoluzione della crisi, per il presidente, è nell'approvazione in tempi brevi, da parte del Congresso, del piano d'emergenza per Fannie Mae e Freddie Mac, oltre al solito appello per la fine del divieto di estrazione petrolifera lungo le coste statunitensi. Peggiora nel frattempo la situazione del settore bancario, a quasi un anno dallo scoppio della crisi, iniziata con le sofferenze dei mutui subprime. Le scene delle code agli sportelli della Indymac, banca californiana fallita venerdì scorso, e le crescenti preoccupazioni circa la solvibilità delle banche, rischiano infatti di innescare una reazione a catena fra tutte le istituzioni di deposito, soprattutto quelle locali.
Il presidente degli Stati uniti ha riconosciuto, in una conferenza stampa tenuta ieri, che è un «periodo difficile» per le famiglie americane. Due le cause: crisi del credito e prezzo della benzina alle stelle. Per il secondo problema, come va ripetendo da mesi, la soluzione è una sola: permettere nuove perforazioni lungo le coste e specialmente in Alaska, nonostante le opposizioni degli ambientalisti. Di utilizzare le riserve strategiche (che attualmente ammontano a oltre 700 milioni di barili, sufficienti un mese di consumo, agli attuali standard) invece, non se ne parla neanche: «sono per le emergenze», ha detto Bush. Per il credito, l'amministrazione avrebbe già fatto la sua parte, approntando, nel fine settimana, un piano di salvataggio «morbido» per i giganti del mutuo Fannie Mae e Freddie Mac. Ora tocca infatti al Congresso approvare il piano, che dovrebbe essere sulla scrivania del presidente, pronto per la firma, entro la prossima settimana. Le misure delineate dal segretario al tesoro Hank Paulson, prevedono l'istituzione di una «linea di credito» di cui beneficierebbero le due istituzioni gemelle. Alle Gse (government sponsored enterprises, come si chiamano in gergo), sarebbe inoltre garantito l'accesso allo sportello di rifinanziamento della Federal Reserve, proprio come se fossero delle vere e proprie banche. L'ammontare del tetto massimo di queste linee di credito non è tuttavia stato dichiarato, ma dovrebbe assumere la forma di prestiti o addirittura di immissioni di capitale di rischio. Immissioni che però, secondo quanto dichiarato da Bush, non altereranno la natura di società private delle Gse. Tali interventi sarebbero comunque temporanei (si parla di 18 mesi), e non si tratterebbe quindi di un «salvataggio fatto con il denaro dei contribuenti», cosa che preoccupa particolarmente l'opinione pubblica americana.
Intanto una nuova minaccia incombe sui precari equilibri del sistema bancario americano: il virus della corsa agli sportelli, eterno spauracchio del capitalismo. Ieri lunghe code si sono formate alle filiali di Indymac, grossa banca californiana fallita venerdì e immediatamente posta sotto il controllo della Fdic, agenzia federale di assicurazione sui depositi. In generale, nostante il fatto che per le altre banche non si stia verificando una vera e propria «corsa agli sportelli», ci sono segnali di un lento quanto inesorabile allontanamento dai conti correnti, soprattutto quelli nelle piccole banche regionali. Il Wall Street Journal la chiama «walk on the bank», in contrapposizione al «run on the bank», la vera e propria corsa agli sportelli. In tempi di prosperità infatti, in pochi si preoccupano della sorte dei propri risparmi, ma in tempi di crisi di liquidità, tende ad aumentare la consapevolezza dei risparmiatori circa il fatto che i loro soldi, di fatto, non sono nei forzieri della banca. Questo provocherebbe quel tipo di crisi autorealizzantesi, tante volte osservata nella storia economica: gli investimenti fatti dalle banche non sono facilmente smobilizzabili, e un numero sufficientemente alto di correntisti che ritira il denaro può bastare a provocare un rapido fallimento. Dal singolo episodio di bank run alla crisi sistemica, il passo potrebbe essere breve; per questo i conti correnti americani sono assicurati dalla Fdic fino all'ammontare di 100 mila dollari (250 mila per i conti di risparmio pensionistico). Per l'ex presidente dell'associazione bancaria americana, Donald Ogilvie, quella attuale è «senza alcun dubbio una crisi bancaria molto seria».
Quando si era in pieno boom immobiliare, e le banche facevano immensi profitti nella concessione di mutui, con rischio virtualmente nullo, le banche facevano a gara a chi si aggiudicava più correntisti, potendo in questo modo concedere più mutui. A quell'epoca (solo due anni fa, anche se sembra una vita), si diffondeva l'offerta di conti di risparmio ad alto rendimento con zero spese, utilizzabili solo via internet, con modalità molto simili a quelle di conti correnti «mordi e fuggi» ampiamente pubblicizzati in Italia. La settimana prima del collasso, Indymac offriva un tasso annuale del 4,35%, il doppio di un titolo del tesoro americano.
Della salute dell'economia americana ha parlato anche il presidente del board della Federal reserve, Ben Bernanke, in un discorso al senato giudicato «tetro e pessimista» da molti osservatori. Il copione è lo stesso: le cose vanno male per via della crisi finanziaria e del rialzo dei prezzi delle commodities (merci primarie, tra cui alimentari, petrolio e minerali). La chiave di tutto però rimane il mercato del credito immobiliare, al quale la Fed dà una mano garantendo liquidità, da ora anche alle Gse. Una vera ripresa però non si verificherà fintantoché i prezzi degli immobili non riprendono a salire. Per il banchiere centrale, il mercato rimarrà depresso almeno fino alla fine del 2008.

Quando l’America non vive più alla grande

l’Unità 20.7.08
Quando l’America non vive più alla grande
di Roberto Rezzo

DISOCCUPAZIONE, inflazione, assalto agli sportelli bancari. La Casa Bianca cerca di tranquillizzare gli americani ma non convince nessuno. George Soros evoca lo spettro della Grande depressione del 1929. Dalla crisi dei mutui sub prime al contagio che investe tutta l’economia. La bolletta energetica è l’incubo principale delle famiglie.

È sparita dai cartelloni una celebre pubblicità di Citibank, il primo gruppo bancario degli Stati Uniti e uno dei più grandi al mondo. Suggeriva alla clientela di «vivere alla grande», investendo nei suoi prodotti finanziari e spendendo liberamente grazie a una generosa linea di credito.

Adesso ai piani alti del grattacielo al numero 399 di Park Avenue a New York hanno ben altri problemi: cercare di farsi pagare dai debitori e convincere i correntisti a non fuggire a gambe levate. Venerdì scorso, dopo la chiusura dei mercati, Citibank ha annunciato una perdita secca di 2,5 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre e una svalutazione degli investimenti pari a 7,2 miliardi. Wall Street ha tirato un sospiro di sollievo: gli analisti si aspettavano che andasse molto peggio. Nel trimestre precedente Citibank aveva perso 5,1 miliardi. Intanto a Washington i funzionari di un’agenzia governativa di cui solo gli addetti ai lavori conoscevano l’esistenza rilasciano comunicati e interviste a tutto spiano, Si chiama Federal Deposit Insurance Corporation (Fdci) e garantisce i depositi sino a 100mila dollari nel caso la banca si dichiari insolvente.
L’America ha assistito sotto shock alle immagini trasmesse da tutti i telegiornali. File interminabili davanti agli sportelli di IndyMac, la prima banca nell’area di Los Angeles e il settimo istituto Usa nel settore dei mutui immobiliari. Migliaia di correntisti accampati sotto il sole per ritirare i risparmi. L’11 giugno IndyMac è ufficialmente fallita. Su qualsiasi strada della California si vedono a centinaia le case abbandonate con un cartello davanti: «Foreclosed». Proprietà pignorate per mancato pagamento del mutuo e che da mesi non trovano un compratore. Non sono le periferie abitate dagli immigrati messicani e cinesi. Sono i quartieri residenziali con le case prefabbricate tutte uguali, quattro camere da letto, tre bagni, cucina con frigorifero monumentale, il giardino ben curato. Due o tre auto nel garage. Il sogno raggiunto della middle class protagonista di «American Beauty». Intere comunità spazzate via dalla crisi, costrette a trasferirsi in appartamenti d’affitto in città.
Nessuno parla più di depressione. Il termine è stato abolito dopo la Seconda guerra mondiale. Evocava la Grande depressione del 1929, con la gente rovinata che si gettava dalla finestra. Il panico. In seguito gli economisti hanno preferito parlare di recessione, per indicare un protratto periodo di crescita negativa. L’ultima viene fatta risalire al 2001 e ufficialmente durò appena nove mesi. L’amministrazione Bush sostiene che gli Stati Uniti adesso non sono affatto in recessione. E per spiegare la situazione ha coniato un nuovo termine «rallentamento». Per la gente comune sono parole che sembrano pronunciate da chi vive su un altro pianeta. L’ultimo sondaggio Gallup indica che l’81% degli americani sta tagliando le spese su ogni fronte possibile. Tre su quattro hanno rinunciato a qualche divertimento o a un’uscita al ristorante. Due terzi sono stati costretti a pianificare un budget mensile per la famiglia. Quasi la metà risparmia sistematicamente sugli acquisti: il 49% scegliendo prodotti di qualità inferiore, il 46% cercando articoli scontati. Il 30% si è trovato un secondo lavoro. Dall’ultima indagine pubblicata da Destination Analists, il centro studi e marketing delle organizzazioni di tour operator, risulta che negli ultimi dodici mesi c’è stata una contrazione del 45,8% nei viaggi per le vacanze. E per chiarire meglio il fenomeno, conia il neologismo «staycation». Significa passare le ferie a casa.
«C’è il rischio concreto d’andare incontro alla più grave crisi mai vista in vita nostra», ha dichiarato George Soros. E il finanziere di origine ungherese, la cui fortuna personale è stimata in nove miliardi di dollari, essendo nato nell’agosto del 1930, ha visto anche la Grande depressione. Anzi, c’è cresciuto in mezzo. Al capezzale di Fannie Mae e Freddie Mac, le due società che insieme detengono circa il 50% dei 12.360 miliardi di dollari in mutui attualmente accesi in Usa, sono stati chiamati i massimi esperti. Nessuna incertezza sulla diagnosi: o interviene il Congresso o vanno a gambe all’aria. Furono create durante la Grande depressione per cercare di rendere più accessibile l’acquisto della casa. Il loro lavoro è quello di acquistare i mutui concessi da banche e società di brokeraggio, impacchettarli sotto forma di prodotti finanziari, e rivenderli agli investitori. Sempre attraverso il sistema bancario. Il meccanismo consente alle banche di recuperare liquidità, che può essere destinata a nuovi prestiti. Il meccanismo si è inceppato con i mutui sub prime, finanziamenti capestro a tasso variabile, concessi anche in assenza di garanzie, pur di macinare commissioni. Ora il buco rischia di superare la metà dell’intero debito pubblico americano. Susan Wachter, docente all’università della Pennsylvania, spiega che la crisi finanziaria alimenta la crisi del mercato immobiliare. E che la crisi del mercato immobiliare alimenta quella finanziaria: «Siamo in un circolo vizioso».

mercoledì 9 luglio 2008

Un milione e mezzo di schiave nell’Arabia Saudita tanto amica dell’Occidente

l’Unità 9.7.08
Il rapporto di Human Right Watch
Un milione e mezzo di schiave nell’Arabia Saudita tanto amica dell’Occidente
di Umberto De Giovannangeli

UN ESERCITO di schiave. Sfruttate. Picchiate. Violentate. Senza diritti. Senza dignità. Costrette a lavorare per 18 ore, sette giorni su sette. E se qualcuna osa ribellarsi il suo destino è segnato: fustigata a sangue. «Come se non fossi un essere umano». E questo in un Paese che l’Occidente democratico, paladino dei diritti della persona, considera un fedele alleato nel nevralgico scacchiere mediorientale: l’Arabia Saudita. L’organizzazione Human Right Watch (HRW), che difende i diritti umani, denuncia che milioni di donne di origine asiatica sono trattate come delle schiave in Arabia Saudita. Per questo motivo HRW chiede a Riad di prendere misure radicali per tutelarle legalmente.
L’Organizzazione non governativa dopo due anni di ricerche ha pubblicato il rapporto dal titolo «Come se non fossi un essere umano» e stima che un totale di 1.5 milioni di donne tuttofare provenienti dall’Indonesia, dalle Filippine, dallo Sri Lanka e dal Nepal sono sfruttate in Arabia Saudita. «Nel migliore dei casi le donne che emigrano in Arabia Saudita beneficiano di buone condizioni di lavoro e di buoni datori di lavoro. Nel peggiore invece sono trattate quasi come delle schiave. Nella maggior parte dei casi queste donne si trovano in una condizione intermedia», riassume Nisha Varia, co-autrice del rapporto. La legislazione sul lavoro nel regno ultraconservatore, secondo il rapporto, «esclude le domestiche, privandole di diritti garantiti invece agli altri lavoratori, come ad esempio un giorno di riposo settimanale ed il pagamento di ore di straordinario». «Il governo saudita ha fatto delle proposte di riforma ma ha passato anni a contemplarle senza prendere alcuna misura in merito», afferma Varia e continua: «È arrivato il momento di attuare queste riforme».
In Arabia Saudita, ufficialmente, la schiavitù è stata abolita solo nel 1963. Ufficialmente. Perché la realtà racconta un’altra storia. Agghiacciante. Nel lavoro di 133 pagine, corredato da più di 80 interviste a domestiche, emerge un quadro drammatico di sfruttamento e violazione dei diritti umani. «Per un anno e cinque mesi non ho percepito stipendio. Quando chiedevo il denaro il mio datore di lavoro mi colpiva, cercava di ferirmi con un coltello», afferma una donna. «Lavoravo 18 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, per anni, senza essere pagata», dichiara una signora di origine indonesiana. La materia di diritto, in tema di tutela delle donne sul lavoro in Arabia Saudita dà un potere molto forte agli uomini, al punto da impedire alla domestica di cambiare luogo dell’occupazione o lasciare il Paese. In questi anni numerose donne filippine, indonesiane, dello Sri Lanka hanno cercato rifugio nelle rispettive ambasciate. «È tempo di fare dei cambiamenti - afferma una donna intervistata - cercando di garantire, anche alle domestiche, il rispetto dei diritti del lavoratore, previsti dalla legge del 2005».
«Le donne continuano a subire discriminazioni di fronte alla legge e nelle consuetudini e non hanno ricevuto adeguate protezioni contro la violenza domestica e familiare», denuncia Amnesty International in un suo recente rapporto sulla condizione della donna in Arabia Saudita. «Ogni giorno - ricorda Amnesty - i diritti fondamentali di chi vive in Arabia Saudita sono prevaricati e in pochi vengono a saperlo: condanne a morte, fustigazioni ed amputazioni sono comminate ed eseguite senza la minima considerazione per i principi di umanità e le regole del diritto internazionale». Un diritto che non trova spazio in Arabia Saudita. Un Paese in cui - concordano le più impegnate associazioni umanitarie internazionali - il Corano e la shari’a (legge islamica) sono utilizzati come strumento per opprimere, spaventare, violare la dignità di donne, bambini, uomini impotenti ed incapaci a difendersi. Donne come Maria, giovane filippina giunta in Arabia Saudita come collaboratrice domestica e colta dal padrone di casa, qualche mese più tardi, mentre dava da mangiare all’autista. Per questo «reato» - aver avvicinato un uomo, seppur per offrirgli del del cibo - la domestica fu condannata a dieci mesi di carcere e a 200 frustate. Al termine della pena, Maria venne deportata nelle Filippine.

sabato 5 luglio 2008

PENSIONI. Il grande buco dei Fondi Usa

Il Manifesto, 3 luglio 2008

PENSIONI. Il grande buco dei Fondi Usa

Negli Stati uniti La crisi dei sistemi previdenziali sta precipitando: la «Pension Benefit Guarantee Coroporation», l'assicurazione pubblica che tutela le prestazioni dei fondi a benefici definiti (nei quali è predeterminato l'ammontare della pensione) ha visto passare il proprio bilancio da un avanzo di 7,7 miliardi di dollari nel 2001 a una perdita di 18,1 miliardi nel 2006. Lo steso ente che gestisce la «Pension Benfit» ha stimato che l'ammontare totale di «underfunding», cioè di sottocapitalizzazione dei Fondi pensione a benefici definiti sia aumentato da 44 miliardi a fine 2000, fino a 650 miliardi del 2006. E la situazione dovrebbe essere ulteriormente peggiorata negli ultimi 18 mesi visti i numerosissimi pensionamenti legati alla crisi economica, ma anche la caduta delle borse statunitensi.