martedì 11 ottobre 2011

“Occupiamo Wall Street” Tutto è iniziato con un post

il Fatto 7.10.11
“Occupiamo Wall Street” Tutto è iniziato con un post
Ancora scontri tra Indignati d’America e polizia
di Angela Vitaliano

Abbiamo avuto la più grande crisi finanziaria dalla Grande Depressione con conseguenti danni collaterali in tutto il Paese e si vedono ancora alcuni di quelli che hanno agito irresponsabilmente andarci giù pesante con quelle stesse procedure corrotte che ci hanno per prime portato in quella situazione. Per questo penso che le persone siano frustrate”. Parla degli indignados di OWS, Obama, a margine di una conferenza stampa, in cui decide che non è più momento di tacere su quanto, da settimane, sta avvenendo nel quartiere finanziario di Manhattan: “Chi protesta stia sicuro che il nostro obiettivo è quello di avere le banche e le istituzioni finanziarie in ordine, perché le peggiori conseguenze sono sempre quelle sull'economia reale”. Nessuno ignora più, dunque, il movimento, giunto al suo 20° giorno di occupazione dell’area di Zuccotti Square, a poca distanza da Wall Street, lì dove quell’1% di persone riesce a “manipolare” la ricchezza del 99% di americani che, invece, la crisi la sta soffrendo fino in fondo e da troppo tempo.
E SE OBAMA “parla” con gli indignados, promettendo il suo appoggio nella battaglia alla “cattiva politica” della finanza, anche i media ora trattano il movimento con attenzione. Per la prima volta mercoledì, in occasione della marcia organizzata con l’appoggio di moltissime sigle sindacali, la Msnbc, canale nazionale, ha mandato i propri giornalisti e cameramen per seguire in diretta quanto avveniva a downtown. Lo stesso ha fatto Keith Olbermann che dalle frequenze di Current tv, per primo, sin dalla prima settimana di attività del movimento, gli aveva dato spazio nel suo programma. Finora gli indignados a stelle e strisce avevano potuto contare solo sui social network, in particolare twitter, e su alcuni website che avevano “sposato” la loro causa fin dal principio. A cominciare dal sito della rivista anticapitalistica adbuster.org   che, sin dall’estate, aveva chiamato a raccolta quelli che questa situazione non la reggono più per dare vita a quello che ormai viene comunemente denominato “l’autunno newyorchese”.
SICURAMENTE, l’adesione dei sindacati alla protesta e la loro presenza massiccia alla marcia di mercoledì è servita a dare un ulteriore spinta alla popolarità degli indignados che ogni giorno, pioggia o sole, si riuniscono in assemblea, per discutere la piattaforma dei loro programmi. Con loro giovedì anche Naomi Klein, l’attivista canadese nota per i suoi interventi contro la finanza delle corporazioni.
La marcia di mercoledì di è svolta in maniera assolutamente pacifica fino a quando un gruppo di dimostranti ha tentato di occupare Wall Street scatenando la reazione della polizia e l’arresto di altre ventiquattro persone. Il movimento degli indignados, che ora stampa anche un proprio giornale, The Occupy Wall Street Journal, ha, fra l’altro, presentato una class-action contro il sindaco Bloomberg e contro il capo delle polizia Kelly per i 700 arresti sul ponte di Brooklyn. Non ci sono dubbi che la battaglia per appurare le responsabilità degli uni e degli altri negli scontri sarà uno degli argomenti più importanti anche nei prossimi giorni. La prima notizia dei nuovi scontri si è avuta, ancora una volta, via Twitter, proprio mentre, l’altra metà della rete apprendeva la notizia della scomparsa di Jobs.

lunedì 10 ottobre 2011

L’antipolitica dei bravi ragazzi senza futuro

La Stampa 3.10.11
L’antipolitica dei bravi ragazzi senza futuro
di Umberto Gentiloni

Park Place, lower Manhattan, piccolo rettangolo incastonato tra Ground Zero e Wall Street, è diventato uno strano incrocio di percorsi e storie; da qualche giorno è il ritrovo per centinaia di manifestanti che presidiano i luoghi della Borsa e della finanza. In quell’imbuto di strade si trova anche l’uscita principale per chi visita il nuovo Memorial 9/11, nel vuoto lasciato dalle Torri gemelle. Turisti e residenti muniti di prenotazione si mettono in coda, gruppi di cento vengono ammessi ogni ora nel recinto del cantiere del World Trade Center. Si esce nel cuore della protesta studentesca; un accampamento dotato di ogni servizio: collegamenti con computer a ogni angolo, telecamere, materassi per terra, cibo, bevande e scatole di cartone di vari formati per la richiesta fondi. Fianco a fianco uomini d’affari in pausa pranzo con turisti segnati dalle emozioni del nuovo memoriale che arrotolano lunghi fogli di carta spessa distribuiti con una grande matita (Name Impression Kit) e utilizzati per imprimere il nome delle vittime.
Le voci dei ragazzi sono senza interruzione, si danno il cambio gridando slogan, parole d’ordine, lunghe e dettagliate piattaforme di rivendicazione scandite da un singolo e amplificate dal gruppo che lo circonda. I cartelli in mostra: «Difendiamo la nostra terra», «L’economia è come una stella che sembra produrre luce ma in realtà è già spenta» o ancora le domande sul luogo simbolo del ritrovo: «Non siamo protagonisti. Solo consapevoli». «Queste strade? Le nostre strade». Fino al grido d’allarme «Satana controlla Wall Street». Al centro della piazza un ammonimento: «Per favore. Niente droghe. Non ne parlare, non chiedere e non insistere. Noi non facciamo uso di sostanze!»; richiamo al passato e a stagioni lontane.
La protesta non raccoglie gli inviti di smobilitazione delle forze dell’ordine, seguono momenti di tensione e i primi fermi quando vengono occupate alcune strade limitrofe perpendicolari all’ultimo tratto della Broadway. Chi si trova da quelle parti guarda incuriosito e incerto sul da farsi. Tutto sembra fermarsi al suono della sirena dei pompieri, uno strano silenzio si sostituisce ai rumori diffusi, i ragazzi in piedi insieme ai turisti salutano il mezzo dei vigili del fuoco che si dirige versoNord. Un simbolo che unisce e rassicura, uno stimolo di orgoglio per i newyorkesi di varia provenienza; l’applauso forte copre alcuni minuti, nella piccola piazza torna la calma.
Un mix strano di sguardi e presenze, ma anche l’incontro tra nuove domande e antiche forme di protesta. Tutto viaggia via Internet ma la parola amplificata dalla piazza richiama i primi Anni Sessanta e le origini del movimento del Free Speech nella baia di San Francisco, gli albori della stagione del Sessantotto. La culla di quella protesta, l’Università di Berkeley, è ancora sotto i riflettori dei media, nelle stesse ore della cosiddetta «occupazione di Wall Street».
L’istantanea è molto diversa: una vendita di dolci al centro della celebre Sproul Plaza organizzata da giovani studenti repubblicani che chiedono di bloccare una legge sulle affermative action, vale a dire i criteri di ammissione in parte basati sui gruppi linguistici e culturali di appartenenza, sul genere e sul colore della pelle. Il tema non è certo inedito, ma i cupcakes (piccoli muffin ricoperti di glassa colorata) con prezzi diversificati arrivano sugli schermi della Cnn: 2 dollari per maschio bianco, 1 e mezzo per studente asiatico, 1 latino, 75 centesimi per gli african american e 25 per i native american; sconto previsto per le donne. Un menù provocatorio, venato di discriminazione secondo alcuni.
Dal 1995 le quote per le minoranze sono abolite da una legge californiana; il governatore Jerry Brown ha tempo fino al prossimo 9 ottobre per decidere su una proposta che le inserirebbe tra i diversi fattori per l’ammissione agli studi. Da qui la tensione tra le parti. Docenti e funzionari dell’università, cifre alla mano, rispondono che le differenze sono un valore irrinunciabile, visto che le «diverse minoranze» raggiungono il 16 per cento della popolazione studentesca, erano oltre il 20 nel 1994. Persino al di là di forme e contenuti sembra uno scherzo del destino o una fortuita coincidenza della storia. A dieci anni dall’11 settembre 2001, in simultanea sulle due coste dell’America le proteste di nuove generazioni attraversano simboli del secolo americano; nuove sfide convivono con antiche contraddizioni, la crisi del capitalismo finanziario con la difficile avanzata dei diritti civili.

sabato 8 ottobre 2011

Tra gli indignados di Zuccotti Park: tende, tamburi e rabbia

La Stampa 3.10.11
Tra gli indignados di Zuccotti Park: tende, tamburi e rabbia
“Basta, facciamo come in Egitto”
di Maurizio Molinari

Tamburi, computer, sacchi a pelo e bandiere americane costellano a Zuccotti Park l’accampamento di Occupare Wall Street, il gruppo di manifestanti che si propone di innescare negli Stati Uniti una protesta simile a quelle avvenute in Egitto e Gran Bretagna. «Sono arrivata con i primi, era il 17 settembre - racconta Zubeyda, 19 anni, del New Jersey -. Tutto è iniziato attraverso Twitter e Facebook, con i messaggi di un magazine di sinistra che dicevano “Ci vediamo a Freedom Plaza, porta 10 persone”, e così ho fatto».
Zuccotti Park, fra Broadway e Ground Zero, è stato scelto come sede della protesta «contro l’avidità di Wall Street» - come si legge in uno dei cartelloni all’entrata - perché è molto vicino alla Borsa e al tempo stesso, essendo un parco, consente di rimanervi 24 ore su 24. L’hanno rinominato Liberty Plaza e il comitato che coordina i militanti lo gestisce come un accampamento. Entrando da Broadway ci si trova nello «spazio pubblico» dove Abdullah, 26 anni, di New York, è uno dei suonatori di tamburi. «Barack Obama è come Hosni Mubarak e se ne deve andare pure lui - dice con rabbia -. Per chi è povero e di colore come me questo presidente è un traditore, anziché proteggere noi tutela i banchieri, se siamo qui è perché vogliamo un vero cambiamento».
Lasciandosi alle spalle i tamburi si arriva nella «zone dei media» dove su panchine di pietra e tavolini di legno i militanti dotati di computer sono al lavoro: sfruttano i social network per organizzare le marce che si svolgono ogni giorno, alle 12 e alle 17,30. Quella di sabato aveva raccolto oltre tremila persone e la scelta del comitato è stata di puntare sul Ponte di Brooklyn al grido di «Take the Bridge» (Prendiamo il Ponte). Ne sono scaturiti oltre 700 arresti. A raccontare com’è andata è Matt Brady, 24 anni, di Dover in Delaware, che c’era: «La polizia ci ha detto che potevamo andare, arrivati all’entrata del Ponte eravamo troppi per camminare solo sulle corsie pedonali, siamo andati avanti anche su quelle stradali e dopo poche centinaia di metri ci siamo trovati un muro di agenti davanti e un altro alle spalle. Ci hanno arrestati in massa».
Brady e Nicholas Moers, 21 anni, del New Jersey, hanno ancora i segni delle manette ai polsi e concordano nel dire che «è stata una trappola, volevano punirci e ci sono riusciti». Ma entrambi, reduci da un fermo durato fino alle 3 del mattino, assicurano che «non ci hanno piegato e marceremo ancora». Ogni fermato dovrà pagare 300 dollari di multa perché, spiega il portavoce della polizia Paul Browne, «li avevamo avvertiti che non dovevano invadere le corsie ma lo hanno fatto lo stesso».
Ci sono stati tafferugli e il vice-ispettore Anthony Bologna ha usato lo spray accecante, un video lo ha ripreso ed è finito sotto inchiesta. Il capo della polizia, Raymon Kelly, assicura che «se ha agito in maniera impropria sarà punito». Il Dipartimento di polizia circonda Zuccotti Park con un assedio leggero: gli agenti ci sono ma restano a distanza. Il suono dei tamburi non cessa mai ma l’angolo più visitato è là dove sono stesi sul selciato i cartelli che descrivono la protesta. Invitano a «Fire the Boss» (Licenziare il capo), assicurano che «One Day Everything Will Be Different» (Un giorno tutto sarà diverso), invocano «Destroy Power Not People» (Distruggi il potere, non la gente) e gridano «Tired of Capitalism» (Stanchi del Capitalismo) riassumendo quando sta arrivando con «Wall Street is Nero and Rome is Burning» (Wall Street è Nerone e Roma sta bruciando).
La sorpresa arriva quando, passando attraverso la zona cucine, dove caffè, muffin e sandwich vengono offerti da volontari, si arriva nel dormitorio disseminato di sacchi a pelo. È qui che i singoli espongono le proprie insegne e ci si accorge che la matrice di sinistra non è l’unica. Se infatti lo stemma del Partito socialista d’America campeggia in bella vista, altrettanto vale per i cappelli a tricorno e le bandiere del Tea Party, o per le insegne dei militanti libertari di Ron Paul, candidato repubblicano alla Casa Bianca. «Questo non è un partito politico - spiega Ignadi, 24 anni, seduto su un muretto con gli occhiali scuri e il berretto calato sulla fronte - perché sono presenti gruppi diversi, uniti solo dalla volontà di combattere la corruzione. Come mi ha detto un ex marine che ha dormito vicino a me, siamo qui per servire l’America».
I manifestanti pubblicano un giornale, «The Occupied Wall Street Journal» che in prima pagina proclama «La rivoluzione inizia a casa» e in ultima pubblica i cinque comandamenti della rivolta: Occupare, Passare parola, Donare, Seguire online l’occupazione, Istruirsi. I richiami alle altre proteste nel mondo sono costanti. Per Abdullah: «Dopo la Tunisia e l’Egitto abbiamo capito che toccava a noi ma il modello è Londra perché anche qui siamo pronti a batterci».
C’è un problema in vista e Matt lo riassume così: «Stanno per arrivare l’inverno e la neve, ci servono coperte e tende più resistenti, il comitato le sta cercando». Sempre ammesso che il proprietario di Zuccotti Park, una importante società immobiliare di Manhattan, non decida di chiedere agli agenti di sgombrare il parco mandando tutti a casa.

giovedì 6 ottobre 2011

«No allo strapotere della finanza»

l’Unità 3.10.11
La protesta. Da due settimane accampati vicino alla Borsa. «No allo strapotere della finanza»
Si ispirano alla Primavera araba e hanno prodotto un loro giornale, raccogliendo fondi sul web
«Non siamo anarchici. È la protesta del 99% contro l’avidità dell’1%»
Settecento arresti a New York. Indignados contro Wall Street
Fermata dalla polizia la marcia degli indignados americani, 700 arrestati. Da due settimane stazionano davanti a Wall Street contro l’ingordigia della finanza. «È la protesta del 99% contro lo strapotere dell’1%»
di Marina Mastroluca

Per qualcuno è stata una trappola. La marcia degli «indignados», che da due settimane stazionano pacificamente nei pressi di Wall Street, sabato scorso è finita peggio che si trattasse di hooligan scatenati a fine partita: settecento arrestati, e presto rilasciati, e una sfilza di accuse per disturbo dell’ordine pubblico, per aver bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn.
Che cosa sia davvero successo non è chiaro nemmeno a molti dei manifestanti. Un imbuto all’ingresso del ponte, la folla che si divide, qualcuno sui marciapiedi, altri intenzionati ad occupare la corsia. «Gli agenti guardavano e non facevano nulla, piuttosto sembravano guidarci verso la strada», ha raccontato Jesse A.Meyerson, uno dei coordinatori di «Occupy Wall Street». «Non c’era un solo poliziotto a dire: “Non lo fate” ha detto al New York Times Etan Ben-Ami, psicoterapista di 56 anni -. Ho pensato che ci scortassero per garantirci sicurezza». Comunque sia andata, per quel migliaio, forse 2-3000 persone che manifestano da due settimane la reazione degli agenti è stata quasi un colpo di fortuna: mai tanti titoli sulle prime pagine dei giornali, da quando è partita la versione Usa della Primavera araba, quello che dichiaratamente intendono essere i «ribelli» accampati allo Zuccotti Park, a poche centinaia di metri da Wall Street, bersaglio primario della loro indignazione.
«Questa non è una protesta contro la polizia di New York ha detto uno dei manifestanti, Robert Cammiso, alla Bbc -. Questa è la protesta del 99 per cento contro il potere sproporzionato dell’1 per cento. Non siamo anarchici. Non siamo hooligans. Io sono un uomo di 48 anni. L’1% che è in cima controlla circa il 50% della ricchezza degli Stati Uniti». Detto così, questo sembra essere il filo conduttore di una ribellione organizzata sul web fondamentale il ruolo del gruppo di hacker Anonymous e cresciuta spontaneamente. Tanti, tra quelli in piazza, hanno raccontato di essersi imbattuti per caso nella protesta e di essere rimasti. Per denunciare il disastro generazionale dei debiti universitari insolvibili in mancanza di lavoro l’Huffington Post ha denunciato in un reportage il diffondersi della prostituzione tra gli universitari in bolletta. Perché mentre nessuno si preoccupa di loro e di chi nella crisi ha perso la casa, i soldi dei contribuenti sono stati usati per salvare le banche. Ma anche per protestare contro la pena di morte, contro la guerra, contro l’avidità del sistema economico.
Giovani e non. Con un’occupazione persa o appesa a un filo. Nonni preoccupati dei nipoti. Figli senza prospettive. Studenti, insegnanti, organizzazioni sindacali, veterani, famiglie, gente comune: uno spaccato di classe media che vede allargarsi la forbice tra chi ha di più e chi ha di
meno, una generazione dopo l’altra, il sogno americano a raccogliere polvere in soffitta. Una realtà a molte facce, che sembra avere al momento più domande che risposte, e che a spanne rientra nel bacino elettorale di Obama, ma non ha visto il cambiamento in cui sperava. «Finché non alzi la voce è difficile che ti ascoltino. Ma è la maggioranza a pensarla come noi», raccontano.
Non saranno la maggioranza sui loro siti inclinano a sinistra. Ma hanno già raccolto parecchie adesioni, non solo quelle blasonate di Susan Sarandon e Michael Moore. Domani si uniranno alla loro protesta i lavoratori dei trasporti, i piloti d’aereo lo hanno fatto nei giorni scorsi. Per qualcuno come il reverendo Herbert Daughtry, attivista di antica data per i diritti umani sentito dal Washington Post, hanno l’aria di essere l’inizio di qualcosa: manifestazioni analoghe sono spuntate come funghi a Boston e San Francisco. «Quello che conta è la durata», dice. In piazza i pionieri di qualcosa che mobilita i sentimenti profondi della società. E anche qualcos’altro. Giovedì scorso è stata aperta una sottoscrizione sul sito Kickstarter per finanziare un giornale della protesta, viste le difficoltà a guadagnarsi l’attenzione mediatica. In 8 ore sono stati raccolti 12.000 dollari. E sabato il giornale è uscito quattro pagine di carta a colori, in controtendenza con il dna virtuale del movimento: il Wall street journal occupato, così si chiama. Tra le firme anche un ex corrispondente di guerra del New York Times, Chris Hedge. «Non ci sono scuse scrive -. O ti unisci alla rivolta in corso davanti a Wall Street e nei distretti finanziari di altre città, o ti trovi dal lato sbagliato della storia».

mercoledì 5 ottobre 2011

«La protesta cresce. I maghi di Wall Street cercano di zittirla»

Corriere della Sera 3.10.11
Intervista a Gay Talese
«La protesta cresce. I maghi di Wall Street cercano di zittirla»
di Ennio Caretto

WASHINGTON — «Spero, ma non sono certo, che sia la nascita di un movimento egualitario simile al movimento pacifista nella guerra del Vietnam, che i giovani, a cui si prospetta un misero futuro, si ribellino contro la finanza selvaggia che ha spaccato l'America, un'esigua minoranza sempre più ricca e un'enorme maggioranza sempre più povera. Oggi il vero potere è nelle mani di Wall Street perché essa sovvenziona la politica e condiziona così non solo il Congresso ma anche il governo, sottraendosi al loro controllo. E' un sistema che va cambiato, ma per farlo bisogna che lo sdegno popolare esploda e che i media gli diano rilievo, cose che sinora non si sono verificate, a differenza che in Gran Bretagna, in Spagna, nei Paesi della primavera araba».
Gli arresti a New York e a Boston hanno sorpreso Gay Talese, 79 anni, l'autore di «Onora il padre», «Il potere e la gloria» e di numerosi libri sulla mafia: «Potrebbero costituire una svolta, sono stati i primi scontri tra i dimostranti e la polizia, segno che la protesta cresce, e a ragione, perché le condizioni di troppe famiglie sono insostenibili». Ma lo scrittore dubita che la protesta si diffonda in fretta nel Paese: «Al momento è disorganizzata, non fa ancora presa sui ceti medio-bassi. Soprattutto, è quasi ignorata da radio, tv e giornali. Avrà qualche successo se ci sarà un'altra recessione, come negli anni 30».
Non è troppo scettico?
«Sono realista. Il movimento pacifista prevalse nella guerra del Vietnam perché il servizio militare era obbligatorio, e l'America vi aderì per proteggere la vita dei suoi figli. In maggioranza, i media l'appoggiarono senza remore. Ma oggi l'America è divisa perché una parte è al servizio di Wall Street mentre un'altra ne è vittima. E tra i clienti della finanza vi è la maggioranza dei media, per via della pubblicità, della proprietà, delle alleanze».
Non si salva nessuno?
«Ho passato mezzo secolo a New York, la metà nei giornali. Un tempo non era così, ma adesso i media sono veloci nell'evidenziare le ribellioni all'estero, ma lenti a illustrare quelle in casa. Eppure, i giovani di "Occupare Wall Street" meritano attenzione. La finanza che ha causato il disastro del 2007-2008 è più forte di prima, e i colpevoli non sono stati puniti, con l'eccezione di pochi personaggi secondari».
Wall Street è responsabile delle attuali tensioni sociali?
«Certamente. Se la finanza, salvata a carico dei contribuenti, fosse stata penalizzata e regolamentata, avrebbe cambiato condotta. Hanno molte responsabilità anche i governi, che non l'hanno riformata e che non hanno saputo creare nuovi posti di lavoro. I danneggiati sono soprattutto i giovani, una generazione che temo perduta. Io crebbi durante la Grande Depressione, a mio parere rischiamo di fare il bis».
Il silenzio dei media non rispecchia l'indifferenza del popolo americano?
«In qualche misura sì. La protesta in Europa è stata ed è più rapida e forte, anche perché i vostri sindacati sono più combattivi e i vostri partiti più numerosi e meno passivi. Per muoverci noi americani abbiamo bisogno di un nemico simbolico, uno alla Gheddafi, e a Wall Street non lo abbiamo individuato. Ma nemmeno Martin Luther King sarebbe riuscito a lanciare il Movimento dei diritti civili se i media l'avessero ignorato».
Perché è così duro con il mondo della finanza?
«Ci sono molti finanzieri e banchieri onesti. Ma ce ne sono anche molti per cui conta solo il profitto a tutti i costi. Una specie di mafia che si arricchisce a danno di chi lavora. Mi hanno colpito le immagini dei big di Wall Street che festeggiano mentre i dimostranti sfilano in strada, le due facce della nostra realtà economica».
New York non è stata spesso così?
«New York è una città cinica, che vive della ricchezza di Wall Street. I nostri ristoranti, cinema, teatri, negozi traboccano di gente, è come se la crisi non ci fosse. Qui vengono i ricchi di tutto il mondo a spendere. Non sarebbe nel suo interesse imbrigliare la finanza. Ma New York è anche una città liberal, e potrebbe ribellarsi».
La protesta è pro o contro Obama?
«Sarà pro Obama se spingerà il presidente a intervenire con maggiore decisione sulla finanza. Al momento è contro, i dimostranti lo accusano di essere troppo debole. Purtroppo anche nel suo governo ci sono ex leader di Wall Street. E' il guaio della nostra democrazia. Noi diciamo che tra Wall Street e Washington c'è una porta girevole».

All’assalto dei “ladri” di Wall Street

il Fatto 4.10.11
All’assalto dei “ladri” di Wall Street
Giovani, in rete, e contro il sistema capitalistico: l’America siamo noi
di Angela Vitaliano

New York. Ne arresti uno e ne spuntano due, questo sembra essere l’effetto finora ottenuto dai circa settecento fermi effettuati dalla polizia di New York nella giornata di sabato, nel tentativo di sgomberare il ponte di Brooklyn. A manifestare, marciando pacificamente, armati solo di parole poco gentili, scritte su cartelli e urlate, nei confronti di “quelli della finanza e della polizia”, erano gli ormai famosi indignados statunitensi, cioè i supporter del movimento Occupy Wall Street. “Noi siamo il 99%” si legge sul loro sito e su tutto il loro materiale di propaganda: il 99% di americani che soffre per una crisi senza fine a fronte di quell’uno per cento di “affaristi” di Wall Street che dettano regole buone solo per loro e per aumentare le proprie ricchezze. Il movimento, costituito in gran parte da giovani e giovanissimi che si ispirano, esplicitamente, alla Primavera Araba, ha cominciato a far parlare di sé da alcune settimane, anche se soprattutto via Twitter e Face-book, per aver occupato pacificamente un’area a ridosso di Wall Street, chiamata Zuccotti Park, dove i dimostranti dormono avvolti in sacchi a pelo e si danno il cambio senza mai lasciare completamente libera la zona.
La prima eco sulla stampa, tuttavia, si è avuta quando, Occupy Wall Street ha deciso di marciare nel pressi del Palazzo di Vetro, nei giorni dell’Assemblea generale, causando una reazione esacerbata della polizia, culminata nell’arresto di un’ottantina di persone. Niente in confronto alle 700 di sabato e, evidentemente, sufficienti solo per catalizzare l’attenzione di molti intorno al movimento e richiamare più supporter da ogni parte del paese.
CHRIS Longenecker, 24, responsabile per la pianificazione dei cortei, a proposito dei fatti di sabato, non esita a parlare di “provocatori” infiltrati in un movimento che è assolutamente pacifico e che non intende fermarsi fino al raggiungimento del proprio obiettivo: smantellare Wall Street o perlomeno le sue logiche. Molti degli “occupanti” non esitano a definirsi “socialisti” o “comunisti” e sottolineano con rigore che non vogliono essere “manipolati” né da democratici né da repubblicani, facce della stessa medaglia .
E se gli indignados, nella città del capitale, dove, però, non è raro vedere, come ovunque, ragazzi con indosso magliette di Che Guevara, si definiscono socialisti, i socialisti non perdono tempo a dargli tutto il loro appoggio, in maniera ufficiale. Molti infatti i gruppi socialisti, comunisti e marxisti che hanno espresso solidarietà e sostegno concreto al movimento. Il Partito socialista Usa, ad esempio, ha annunciato sul proprio sito web che “esprime totale appoggio alla mobilizzazione per occupare Wall Street a New York e in altre città e incoraggia tutte le nostre sedi locali a prendere parte attiva alle azioni”.
Il partito socialista, inoltre, auspica che il movimento contribuisca alla creazione di un “nuovo ordine sociale”. Se i Tea Party, dunque, combattono Obama con ogni arma perché “socialista”, i supporter del movimento Occupy Wall Street fanno esattamente lo stesso ma per la ragione opposta, “il presidente non è abbastanza socialista per smantellare Wall Street”. Il risultato, in periodo che si può già chiamare pre elettorale, è il rischio di una diserzione di massa dalle urne come segno della protesta civile contro il Congresso, nella sua totalità, e le logiche di Washington. A sostenere l’azione del movimento, anche Van Jones, ex consulente per l’ambiente alla Casa Bianca e fondatore, dalla scorsa estate del movimento Rebuild the dream che ha già raccolto numerosissime adesioni attraverso manifestazioni in tutto il paese. “Dopo la primavera araba – ha detto Jones – assisteremo ora all’Autunno statunitense e ottobre sarà solo l’inizio del cambiamento”.

Indignados, la protesta investe l’America

l’Unità 4.10.11
Non solo New York La «marcia» approda a Boston e Los Angeles e arriva fino in New Mexico
Liberi i fermati del ponte di Brooklyn. Tra loro anche una ragazzina. Similitudini con il Tea Party
Indignados, la protesta investe l’America Rilasciati i 700 «ribelli»
Nonostante si stiano conquistando l’appoggio dei sindacati, qualcuno inizia a paragonare gli Indignados ai movimentisti del Tea Party. La protesta, intando, si propaga nel resto degli Stati Uniti
di Martino Mazzonis

Il New York Police Department ha fatto un favore al movimento in gestazione degli occupanti di Wall street. I 700 arresti per aver bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn hanno dato enorme risonanza alla protesta contro le banche e la finanza che stava già crescendo sotto traccia nel resto del Paese. All’inizio della terza settimana di proteste, il campo allestito a Zuccotti Park, a poche centinaia di metri dalla Borsa, è diventato più affollato, le personalità della sinistra americana che si affacciano a fare un saluto aumentano e il numero di gruppi che si segnalano nel resto degli Stati Uniti non fa che crescere. Durante il fine settimana a San Francisco, Boston, Los Angeles, Chicago, Seattle sono sorti i primi campi di tende davanti alle banche o alla sede locale della Federal reserve. A Columbus, capitale dell’Ohio, un corteo per le strade del centro. Ma sul sito Occupytogether.org il numero di gruppi nati spontaneamente è molto più grande e tocca un centinaio di località sparse per il Paese. In California, naturalmente, ce ne sono di più. E da ogni parte d’America persone si prendono un paio di giorni per arrivare a New York e partecipare alla protesta.
Ieri a New York è stata la volta di una marcia di zombie mangia-dollari nel Liberty park a rappresentare la cupidigia della finanza. E dell’inizio delle proteste e della pressione sul Dipartimento di polizia della città di New York per aver usato metodi eccessivi di fronte ad una manifestazione assolutamente pacifica. Una giovane corrispondente del New York Times descrive una situazione non particolarmente violenta ma comunque apparentemente preparata: la polizia, dopo aver fatto entrare il corteo sul ponte, lo ha chiuso ed ha proceduto agli arresti, “all’inizio con una certa brutalità”.
LA LEZIONE DI SEATTLE
La rappresentazione, le forme di gestione, l’assenza di leader hanno caratteristiche in comune con gli indignados spagnoli ed alcune delle rivolte scoppiate nel mondo arabo. Torna anche l’esperienza cominciata a Seattle nel 1999, con in più le possibilità create dalla rete e dai social media che nei primi anni Duemila erano ai primi passi. E con la novità che chi protesta oggi vive la crisi ed è preoccupato per la propria vita e quella delle persone che gli stanno accanto. C’è anche una similitudine con il Tea Party: l’indignazione contro l’ eccessiva contiguità tra finanza e politica e l’assenza di leader riconosciuti sono una caratteristica della parte spontanea di quel movimento. Proprio della necessità di un Tea Party di sinistra parlava ieri sul Washington Post E. J. Dionne, autorevole commentatore liberal. Il riferimento è a Roosevelt e Johnson, presidenti che poggiarono la loro azione riformatrice sulla spinta delle mobilitazioni sindacali e dei movimenti per i diritti civili.
Da qualche giorno attorno ai gruppi che hanno fatto partire la protesta, si stanno affiancando anche i sindacati e associazioni nazionali. MoveOn, organizzazione nata in rete che promuove campagne, petizioni e raccolte fondi e conta più di un milione di aderenti ha dato la sue adesione e così hanno fatto alcune sezioni sindacali locali. Molti affermati opinionisti hanno poi, con un pizzico di paternalismo, spiegato nei loro articoli che gli obbiettivi del movimento non sono chiari. Ed hanno provato a suggerirne qualcuno: tasse, Tobin Tax e regole sulla finanza, sono le idee di Nicholas Kristof, l’inviato del New York Times nelle piazze arabe.