venerdì 19 giugno 2009

«Intollerabile la tragedia e la devastazione di Gaza»

l’Unità 18.6.09
«Intollerabile la tragedia e la devastazione di Gaza»
L’ex presidente Usa: coraggioso il discorso di Obama. L’alternativa a una pace giusta sarebbe una guerra ancora più dolorosa
intervista a Jimmy Carter di Umberto De Giovannangeli

Porto nel mio cuore i racconti di donne, uomini, bambini costretti a vivere come bestie più che come esseri umani. Non potrò mai dimenticare ciò che ho visto con i miei occhi: immagini di case, scuole rase al suolo in una deliberata devastazione». Parla Jimmy Carter, ex presidente degli Stati Uniti, premio Nobel per la Pace. Carter è in questi giorni a Gaza. Queste le sue impressioni.
Qual è l’immagine di Gaza che poterà con sé?
«Una immagine angosciante. Non ho potuto trattenere le lacrime quando ho visto con i miei occhi rovine, devastazione, vite distrutte...».
Il suo grido d’allarme sembra perdersi nel vuoto...
«Ciò è profondamente ingiusto e finché ne avrò la forza non smetterò di denunciare questa situazione. Mi lasci aggiungere che la tragedia di Gaza non è solo ingiusta sul piano umano, dei diritti della persona, ma è anche dannosa per la stessa causa della pace. Perché è impensabile rilanciare il dialogo quando metà di un popolo è costretta a vivere in una enorme prigione a cielo aperto. I riflettori si sono spenti, ma la sofferenza di quasi un milione e mezzo di palestinesi non è diminuita...».
E la comunità internazionale?
«Purtroppo la comunità internazionale sembra sorda agli appelli che giungono da Gaza».
A Gaza Lei ha avuto modo di incontrare i vertici di Hamas. Quali indicazioni ha potuto trarne?
«Mi pare importante l’affermazione di Haniyeh (primo ministro nel governo di Hamas nella Striscia, ndr.) di una disponibilità di Hamas ad accettare una soluzione negoziale se i confini fossero definiti entro quelli del ‘67. Un’affermazione che si accompagna con una valutazione incoraggiante dei leader di Hamas sulle posizioni assunte dal presidente Obama. Il confronto è possibile, spazi sembrano aprirsi, ma per rafforzare questa prospettiva occorre porre fine al blocco di Gaza. Non è solo una scelta umanitaria. È un investimento su una pace possibile».
Nel campo palestinese regna la divisione.
«E la divisione rende tutto ancora più difficile. Su questo punto ho molto insistito nei miei incontri politici a Gaza. Ai miei interlocutori ho detto che solo un governo di unione nazionale potrebbe porre fine alla sofferenza del popolo palestinese...».
Un governo con dentro Hamas...
«Mi pare inevitabile. Piaccia o no, Hamas rappresenta una parte significativa della società palestinese. Negare questo dato di fatto non aiuta la ricerca di un un accordo di pace che non può reggere se taglia fuori metà dei palestinesi. Occorre incalzare Hamas, ma non serve la sua criminalizzazione. Di questo è consapevole il presidente Obama come dimostra il suo discorso al Cairo. Un discorso coraggioso, di svolta...».
Lei sa che Israele l’accusa di unillateralismo filopalestinese.
«Sono rattristato di questa accusa perché la trovo ingiusta, non corrispondente al vero. Ai palestinesi ho ripetuto che non è bello vedere la distruzione operata a Gaza dalle forze armate israeliane, ma non è neanche buono quando mi reco a Sderot (una delle città israeliane più colpite dai Qassam di Hamas, ndr.) vedere i razzi che cadono sugli israeliani. Resto fermamente convinto che il solo modo di evitare che questa tragedia possa ripetersi, è raggiungere un vero accordo di pace tra palestinesi e Israele. Un accordo fondato sul principio “due popoli, due Stati”; un principio che ispira l’azione dell’amministrazione Obama».
Obama ha sottolineato a più riprese l’importanza del fattore tempo...
«Sono pienamente d’accordo con lui. Occorre essere consapevoli che l’alternativa ad una pace giusta, rispettosa dei diritti dei palestinesi come della sicurezza d’Israele, non è il mantenimento dell’attuale status quo, ma una guerra ancora più dura di quelle che hanno già segnato questa tormentata regione».
Un’altra questione cruciale nel conflitto israelo-palestinese è quella degli insediamenti. Un tema che divide il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu e l’amministrazione Usa.
«Obama ha usato parole chiare definendo la colonizzazione dei territori occupati il principale ostacolo ad ogni accordo di pace. E si è impegnato di fronte al mondo perché questo ostacolo sia rimosso».
Il presidente Obama si è impegnato per un accordo di pace definitivo entro la scadenza del suo mandato, nel 2012.
“Vede, una cosa che abbiamo in comune è che io ho cominciato a lavorare sul Medio Oriente sin dal primo giorno del mio insediamento. E lui ha promesso a me e ad altri che avrebbe fatto altrettanto. Sta mantenendo la promessa. Questa è la sostanziale differenza tra Clinton, l’amministrazione Bush e Obama Una differenza che fa ben sperare».
(ha collaborato Osama Hamdan)

lunedì 15 giugno 2009

La deputata del Fatah Ashrawi: «Non ci sta offrendo la patria ma una nuova occupazione»

Corriere della Sera 15.6.09
La deputata del Fatah Ashrawi: «Non ci sta offrendo la patria ma una nuova occupazione»
di F. Bat.

Netanyahu vuole che diventiamo anche noi sionisti, che gli arabi che stanno in Israele accettino d'essere quel che non sono

GERUSALEMME — «A me piacciono i bei di­scorsi, indipendentemente da quel che si di­ce... », ride Hanan Ashrawi. Sessantun anni, buo­ni studi all'American University di Beirut, cristia­na per famiglia e marito, nella politica palestine­se da quand'era la portavoce di Arafat, oggi depu­tata vicina al premier Salam Fayyad, la signora Ashrawi fa una sola concessione, una volta spen­ta la tivù e la faccia di Netanyahu: «L'unica cosa che m'è piaciuta, è l'uso che ha fatto delle paro­le, dei silenzi. Dev'essersi esercitato molto. Per dire poco».
Poco?
«Non vedo un grande cambio di posizione. È la solita politica della destra israeliana. C'è una bella differenza, fra le cose che ha detto Bibi e quelle di Obama, a cui voleva idealmente rispon­dere. Al di là delle emozioni: il presidente ameri­cano ha detto con chiarezza che Israele deve dire stop agli insediamenti, Netanyahu ha detto sol­tanto che non ne vuole di nuovi. Ma s'è ben guar­dato dal parlare d'un congelamento di quelli che già ci sono».
Però una novità c'è: la prima volta, dopo molti anni, che un premier della destra accet­ta l'idea d'uno Stato palestinese.
«E a lei questa sembra una novità? È chiaro che si tratta solo d'una operazione di retorica. D'un gioco di parole. Netanyahu dice che ci dev' essere uno Stato palestinese. Ma vuole che di­ventiamo anche noi sionisti, che gli arabi che stanno in Israele accettino d'essere quel che non sono, prima d'accomodarci al tavolo e trattare».
Ma perché non riconoscete Israele?
«Non possiamo farlo in questi termini. Signifi­ca abbandonare al loro destino i nostri fratelli arabi. Significa contraddire tutta la nostra sto­ria ».
Una Palestina smilitarizzata non è nell'inte­resse di tutti?
«La nozione di Pale­stina smilitarizzata cor­risponde al concetto che ha Bibi del popolo palestinese: un popolo che abbia una terra, ma che comunque non controlli le sue frontiere, non abbia un esercito e non pos­sa nemmeno guardare se nel suo cielo volino bombe o aquiloni. Questo non è uno Stato: è la prosecuzione di un'occupazione. Anzi, è la ver­sione aggiornata dell'occupazione: una cosa morbida, tanto per compiacere la Casa Bianca. Il suo discorso è arrogante, ideologico. Non ha le dimensioni del discorso di pace: ha quelle del controllo del territorio».
Ma non c'è niente da salvare?
«Netanyahu ha chiuso la porta su tutto. Geru­salemme è una città occupata, non può non esse­re la nostra capitale. E se Fatah e Hamas raggiun­gono un accordo, Israele deve accettarlo: noi non decidiamo chi deve stare al governo israelia­no. La cosa più arrogante è la pretesa di risolve­re al di fuori d'Israele la questione dei profughi. E poi di chiedere ai palestinesi d'aderire all'iden­tità ebraica: dobbiamo dimostrare d'essere ra­gazzi di buone maniere, prima d'essere ammessi a vivere sulla loro terra».

venerdì 5 giugno 2009

Cisgiordania, la furia dei coloni. Linciati quindici palestinesi

Cisgiordania, la furia dei coloni. Linciati quindici palestinesi

Francesca Marretta

Liberazione del 02/06/2009

Nelle ultime ultime quarantotto ore un'ondata di violenza ha investito la Cisgiordania. Ieri mattina quindici palestinesi sono stati attaccati settler israeliani nei pressi dell'insediamento di Kedumim, vicino Nablus. Quattro palestinesi sono stati violentemente picchiati. Alì Sida, di 41 anni è ricoverato in ospedale col cranio fratturato. È stato trascinato a forza fuori dalla sua auto dopo che i coloni lo avevano costretto a fermarsi, per poi dare inizio a quello che testimoni hanno descritto come un linciaggio. I settler, tra i più estremisti della West Bank, hanno anche vandalizzato le auto dei palestinesi, bruciato copertoni per strada e dato fuoco a frutteti nei nei villaggi di Burin e as-Sira.
Le forze di sicurezza israeliane non hanno arrestato nessuno degli assalitori, la cui violenza è stata scatenata dalla decisone del governo israeliano di smantellare un paio di avamposti illegali. Baracche provvisorie innalzate in mancanza di permessi delle autorità israeliane. Avamposti che i settler delle colonie fondate negli anni '70 vicino Nablus continuano a costruire, convinti di voler restare su una terra promessa loro da Dio. Quello di ieri mattina è un attacco che le forze di sicurezza israeliane avrebbero potuto prevedere e impedire. Lo ha confermato anche un esponente di Rabbini per i diritti umani Zakaria Sada, che ha parlato di comportamento «violento e ben pianificato dei coloni».
Il fatto che non vi sia stata una sanzione seria contro la violenza dei settler da carta bianca a nuove violenze man mano che partiranno gli ordini per lo smantellamento dei 22 avamposti da abbattere individuati dal governo Netanyahu su sollecitazione del governo americano.
Lo stesso Netanyahu ha confermato ieri che l'allargamento degli insediamenti in Cisgiordania continuerà, a dispetto delle ferme richieste di Washington per uno stop alla colonizzazione delle terre palestinesi da parte israeliana.
«Ci sono richieste ragionevoli e richieste irragionevoli», sono state le parole del Premier, determinato a garantire quella che chiama «crescita naturale» degli insediamenti. Quella «crescita naturale» specularmente negata al popolo palestinese, costretto a vivere stipato in campi profughi diventati nel tempo agglomerati urbani in cui si vive gli uni addosso agli altri.
La tensione in terra palestinese sembra dunque destinata a salire. L'esito del braccio di ferro tra governo israeliano e Amministrazione americana sui punti basilari della Road Map dipenderà da quanto il presidente degli Stati Uniti Obama, saprà fare nei fatti piu' che nelle parole, quando richiama al ripetto degli accordi sottoscritti israeliani e palestinesi.
Come se l'occupazione israeliana non bastasse a rendere insopportabile l'esistenza quotidiana di chi vive in Cisgiordania e Gaza, domenica, un sanguinoso scontro tra uomini di Hamas e Fatah, ha lasciato sul terreno sei morti a Qualqilia. Due degli uccisi appartenevano all'ala armata del movimento islamico, tre ai servizi di sicurezza preventiva dell'Anp, mentre la sesta vittima, Abd An-Nasser Al-Basha, civile, si è trovato tra il fuoco incrociato per caso. Anche sua moglie è rimasta ferita, ma è sopravvissuta.
I violenti scontri di Qualquilia mettono ora una seria ipoteca sul dialogo inter-palestinese. Anche se nel pomeriggio di ieri il numero due dell'ufficio politico di Hamas, Musa Abu Marzuq, è intervenuto pubblicamente per smentire quanto affermato dai dirigenti del suo movimento a Gaza in merito alla fine del dialogo con Fatah, dichiarando che il movimento islamico vuole «ancora dialogare», la profonda lacerazione in campo palestinese è emersa, ancora una volta, in tutta la sua drammaticità.
Gli uomini di Hamas, che hanno mostrati di essere ben armati anche in West Bank, hanno accusato i reparti speciali Anp di aver «scatenato una campagna repressiva in Cisgiordania» ed aver arrestato decine di militanti islamici nelle ultime ore.
Dopo gli scontri Fatah ha accusato Hamas di aver sequestrato 15 suoi appartenenti.
Alla televisione di Hamas "Al-Aqsa", un portavoce dell'ala militare del movimento islamico ha accusato l'Anp di «alto tradimento» e ha chiesto alla «resistenza palestinese» di opporsi alla repressione. Con Hamas è schierato il Jihad Islami che ha accusato l'Anp di «colpire chi si oppone all'occupazione israeliana».
Entrambe le formazioni islamiche non fanno parte dell'Olp.

VOLTERRA - Il comune che vieta l’energia pulita

VOLTERRA - Il comune che vieta l’energia pulita
Marco Gasperetti
Corriere della Sera 05/06/2009

VOLTERRA (Pisa) — Benve­nuti a Volterra, primo comune «deolicizzato» d’Italia e anche «liberato» dai pannelli solari. Il cartello ancora non c’è. E forse non ci sarà mai. Ma, da quando è stato approvato il nuovo rego­lamento urbanistico, la cittadi­na pisana, uno scrigno d’arte etrusca, romana e medievale, è già entrata nella storia dei di­vieti. La nuova normativa impe­disce l’istallazione in tutto il territorio comunale, borgo e colline toscane, di impianti eo­lici standard e limita l’uso dei pannelli solari. Non installabili nella cittadina, quest’ultimi, ma solo in siti industriali e, per uso proprio, in zone fuori le mura di non particolare pre­gio. «Una decisione saggia che tutela il paesaggio e il valore ar­tistico della nostra città — spie­ga il sindaco Cesare Bartaloni (Pd) —. Un provvedimento che non è contro l’energia rin­novabile. Non si possono issa­re pale enormi accanto a cam­panili e cattedrali o deturpare i tetti di antichi palazzi da sfilze di pannelli solari».

La decisione del Comune non è piaciuta agli ambientali­sti. Che hanno annunciato una marcia su Volterra e un espo­sto all’Autorità garante della concorrenza. «Le aziende che operano nel settore delle ener­gie rinnovabili — spiega Fabio Roggiolani, consigliere regiona­le e leader dei Verdi — saranno penalizzate. Un esempio lo ab­biamo già avuto con un assur­do divieto a istallare tre piccoli impianti fotovoltaici fuori dal centro storico. E tutto questo accade in un Comune famoso per aver autorizzato industrie chimiche a deturpare il sotto­suolo e ad inquinare i fiumi».

Durante la marcia gli am­bientalisti si vestiranno da vampiri. «Non solo perché sim­bolo delle tenebre in cui si vuo­le gettare la città — spiega l’ecologista pisano Andrea Che­li — ma perché dopo i successi dei romanzi e dei film della sa­ga di Twilight ambientati an­che a Volterra, la città è diventa­ta il tempio degli amanti dei succhiasangue. Ora speriamo non diventi la capitale degli ammazza energia pulita».

Non tutti però la pensano co­sì. A favore del Comune si schiera Alberto Asor Rosa. Il professore, coordinatore della rete dei comitati per la difesa del territorio, premette di non essere contrario a priori dei confronti delle due energie la cui applicazione va studiata ca­so per caso. «Però in una città come Volterra mi sembra un provvedimento adeguato e to­talmente condivisibile», dice.

Contraria è invece Mariella Zoppi, docente universitaria e paesaggista: «Con le energie al­ternative bisogna fare i conti senza pregiudizi. Non si posso­no proibire le pale eoliche e i pannelli solari che, non solo ci regalano energia pulita, ma possono integrarsi perfetta­mente con l’ambiente. Che co­sa avremmo dovuto fare allora con i tralicci dell’alta tensione? Abbatterli tutti e rimanere al buio?».

L’assessore all’Urbanistica del comune di Volterra, Andrea Cinotti, contesta l’accusa di proibizionismo. «Anche per­ché noi abbiamo vietato l’eoli­co invasivo: le grandi pale in tutto il comune e il mini eolico nel centro storico. Piccole pale non più alte di due metri, pos­sono essere installate fuori dal borgo in zone di non particola­re pregio già individuate o nel­le zone industriali. E lo stesso vale per i pannelli solari. Difen­dere tesori architettonici e am­bientali è un atto di civiltà». Ma intanto, davanti a Volterra, il vicino comune di Montecati­ni Val di Cecina ha issato le pri­me quattro altissime pale. La battaglia del vento e del sole è solo agli inizi.

giovedì 4 giugno 2009

«No agli F35 a Cameri». La controparata dei no war

«No agli F35 a Cameri». La controparata dei no war

Giorgio Salvetti

Il Manifesto del 03/06/2009

La parata per la festa della Repubblica si trasforma in una sfilata elettorale del premier. Mentre i pacifisti se ne vanno in Piemonte a contestare i bombardieri Pacifisti in corteo a Novara per dire no ai cac

Il ministero della Difesa ha risparmiato un milione di euro per la parata militaresca sui Fori Imperiali. Verranno devoluti all'Abruzzo. Un'inezia. Lo Stato infatti spenderà 15 miliardi di euro per gli F-35, cacciabombardieri americani targati Lockheed Martin. Dalla fine del 2009 verranno assemblati nell'aeroporto militare di Cameri (No). L'Italia ne acquisterà 131 e si doterà così di una micidiale arma d'attacco contro paesi stranieri. Alla faccia della Costituzione repubblicana. Con tutti quei soldi si potrebbero finanziare ben altre opere pubbliche. Per questo ieri a Novara si è riunito il movimento pacifista per dire no agli F-35. Hanno celebrato così la festa della Repubblica.
Il corteo, circa 1500 persone, ha sfilato per ore intorno alla città. 1500 manifestanti sono pochi vista l'enormità dell'affare F-35. Ma sono tanti dato che nessuno vuole parlare di questa vicenda, né i giornali, né le forze politiche (il progetto fu approvato anche dai governi di centrosinistra), né la Cgil che spera in nuovi posti di lavoro (solo 600). Eppure ieri sono arrivati da tutta Italia, da Milano, da Torino, dalla Val di Susa, dal presidio No Dal Molin di Vicenza e da Roma. I cittadini novaresi non si scaldano troppo e tollerano la presenza del loro storico aeroporto militare. Segno che questa non è solo una protesta locale a difesa del proprio territorio. E' una questione nazionale.
Che si può fare con 15 miliardi? Ecco qualche idea, scritta sui cartelli appesi nella piazza della Stazione. 20 treni per pendolari costano 10 milioni e impiegano 1500 persone. Con 8,5 miliardi si comprano 10 milioni di pannelli solari che potrebbero dare energia pulita a 300 mila famiglie e dare lavoro a 80 mila persone. Con tre miliardi si potrebbero mettere in sicurezza 100 scuole per 300 mila studenti e creare 15 mila posti di lavoro. Con 2,5 miliardi si potrebbe dare un'indennità di disoccupazione di 700 euro al mese per 6 mesi a 800 mila precari. E con 2,5 miliardi si potrebbe ricostruire il centro storico de L'Aquila. I motivi per essere in piazza sono tutti qui. Una signora se li è appesi all'ombrello parasole. Molti li portano sulla schiena. Prima di partire si firmano le petizioni contro gli F-35. Nei giardini i ragazzi si sdraiano. Ci sono punk con la cresta e famiglie con bici, cani e bambini. Un distinto signore legge il dossier contro i caccia, una ragazza tatuata studia le dispense per il prossimo esame: «il positivismo». Le donne della tavola pacifista discutono dell'affaire Noemi. «Come siamo messi, con tutti i motivi che ci sono per attaccare Berlusconi ci tocca tifare Veronica Lario, e poi, tanto, troppe donne quello là lo ammirano sempre...». I partiti della sinistra non ci sono e non sono graditissimi, giusto una bandiera del Prc (accusato di non essersi opposto con efficacia al progetto quando sosteneva Prodi) e una di Sinistra e Libertà (accusata di sostenere il candidato presidente alla Provincia del Pd, Vedovato, da sempre pro F-35). Sfila lo striscione di Sinistra critica. E c'è la federazione Anarchica italiana. Ma soprattutto si vedono le Donne in nero, le bandiere della pace, i No Tav, i No Dal Molin e tanti gruppetti in rappresentanza della varie anime sparse dei movimenti, che pure per Novara, fino a oggi si sono mossi troppo poco.
Si parte, in testa un solo furgone con la musica e i ragazzi dell'assemblea permanente contro gli F-35. Cantano «Bella ciao», gridano slogan contro la guerra e non solo: «Noi non siamo disobbedienti...La disoccupazione vi ha dato un bel mestiere...». Sono questi i duri del corteo. La scritta «Fermiamo la fabbrica di morte» issata sul furgone si incastra sotto un cavalcavia. E' l'unico incidente. Dietro si cammina, pochi slogan, un gruppo di torinesi con i tamburi, un grosso scheletro di gomma piuma in bicicletta con un missile come manganello, e tante persone per bene. Il percorso del corteo è molto lungo, 5 chilometri. Il passaggio per il centro della città è stato negato quindi si va anche per risaie. Ma non è un problema, tanto Novara ieri era assolata e deserta.
L'unico rumore che disturbava manifestanti e cittadini veniva dal cielo: l'elicottero della polizia. Una pacifista lo ammonisce: «Attento, che tra un po' qui abbiamo i caccia».

lunedì 1 giugno 2009

Ecco come la paura può trasformare la pandemia in un affare miliardario

La Repubblica 25.5.09
Virus Spa
La nuova influenza ha rilanciato il mercato dei vaccini
Ecco come la paura può trasformare la pandemia in un affare miliardario
di Ettore Livini

La recessione non abita qui. Nell´era del bio-terrorismo, delle pandemie, della rinascita di Ebola e della Tbc, la Virus Spa - arrivata sull´orlo della bancarotta solo dieci anni fa - scoppia (anche se suona paradossale) di salute. L´influenza suina, ribattezzata in chiave più politically correct H1N1, è solo l´ultimo tassello di una resurrezione annunciata: le vendite di vaccini - crollate alla fine del secondo millennio - hanno ripreso a crescere a tassi del 10-15% l´anno, arrivando già oggi a un giro d´affari vicino ai 20 miliardi l´anno. I governi, colti in contropiede dalla rinascita di questi nemici invisibili, sono tornati a incentivare la costruzione di nuovi siti produttivi (George Bush ha stanziato un miliardo di incentivi). E tutto l´indotto - dalle mascherine protettive, alla candeggina, fino ai macchinari per la disinfezione di casa - gira a mille.
La spiegazione del boom, più che nei testi scientifici, va cercata nei manuali di economia: la domanda supera l´offerta. «La globalizzazione non è stata solo un volano per l´industria e i servizi - spiega Giovanni Rezza, epidemiologo dell´Istituto superiore della Sanità - . Anche i virus hanno imparato a cavalcarla alla grande». Salgono in aereo con le persone infette, viaggiano con le ondate di nuova immigrazione, mettono su casa nella carne di polli che girano mezzo mondo prima di finire sul piatto di portata. Senza bisogno di passaporti, troppo piccoli (100 volte meno di una cellula) per essere respinti alle frontiere. E prosperano. La Sars (8.400 persone infettate, 800 morti) è stato il primo campanello d´allarme nel 2002. Quattro anni dopo è arrivata l´aviaria (421 casi di contagio, 257 vittime tra gli umani, 300 milioni tra i volatili). Ma oggi l´esplosione della H1N1 fotografa una certezza: il ritorno del rischio-pandemia. «Il mondo microbiologico è in gran fermento - dice Margaret Chan, numero uno dell´Organizzazione mondiale della Sanità - . E Hiv, Sars e Aviaria non saranno le sue ultime cattive sorprese». Il problema? «Che oggi non siamo in grado di produrre vaccini per tutti», ammette candidamente Marie Paul Kiney, uno dei membri del Shoc (Strategic Health operation center), la task force di superesperti asserragliata da tre settimane nei sotterranei dell´Oms a Ginevra per gestire le strategie anti-suina a livello mondiale.
La Virus Spa - un´azienda totalmente privata - si frega le mani. Barak Obama ha chiesto al congresso 1,5 miliardi per comprare preventivamente nuove scorte di Relenza e Tamiflu, i due anti-influenzali di Glaxo e Roche che paiono aver effetti di contenimento sulla H1N1. Le stesse due società (schizzate in Borsa) hanno ricevuto in pochi giorni ordini per un miliardo dai governi inglese, francese, belga e finlandese. E tra Wall Street, la City e il listino elvetico, hanno messo il turbo le azioni delle 20 società farmaceutiche in grado, secondo gli analisti, di sviluppare in tempi brevi un vero e proprio vaccino contro l´influenza suina. Un affare - in caso di pandemia - da decine di miliardi.
La guerra a queste microscopiche e sfuggenti entità biologiche è diventata in pochi anni una miniera d´oro. «Me l´avessero detto dieci anni fa, non ci avrei mai creduto», ammette Rino Rappuoli, direttore del centro Novartis di Siena, in America in questi giorni proprio per la messa a punto del vaccino contro la suina insieme al Center for disease control. Negli anni ‘90 i virus e il loro indotto industriale sembravano sulla via d´estinzione. Il mondo occidentale aveva estirpato a colpi di vaccinazioni quasi tutte le malattie più pericolose. I paesi poveri, quelli dove i morbi prosperavano (e prosperano) ancora, non avevano i soldi per pagare i farmaci. E i big della farmaceutica avevano deciso di cercar fortuna in altri campi più redditizi: i produttori di vaccini sono crollati da 26 a 7 dal 1970 al 2004. In America sono scesi da 5 a 2. E quando sono arrivati l´antrace, le Torri Gemelle con il rischio di bio-terrorismo e le nuove pandemie, i virus si sono ritrovati a combattere con truppe nemiche ridotte all´osso.
George Bush è stato così costretto ad avviare in fretta e furia un piano per ripristinare la capacità produttiva domestica, destinata a cavalcare pure la domanda di filantropi come Bill Gates impegnati in campagne di vaccinazione miliardarie nel terzo mondo. E lo stesso stanno facendo altri paesi, convinti che in caso d´emergenza - secondo l´Oms la prossima pandemia seria potrebbe uccidere fino a 7,4 milioni di persone - è meglio aver scorte di medicinali in casa propria.
L´incrocio pericoloso tra la salute pubblica mondiale e gli interessi del business legati ai virus, in effetti, ha ricadute geopolitiche importanti: i paesi più poveri sono per tradizione quelli più esposti al rischio contagio ma anche quelli con meno soldi per combatterlo. Il portafoglio ordini dei vaccini, non a caso, è già quasi tutto opzionato dai grandi paesi occidentali. E l´Oms - cui Glaxo ha "regalato" 50 milioni di dosi dei suoi medicinali - sta tentando una mediazione difficilissima per trovare un punto d´equilibrio e non dividere il mondo in due, metà a prova di virus e l´altra metà preda delle scorribande microbiologiche. L´Indonesia, ad esempio, è stata tra i primi a ricostruire la sequenza genetica dell´H1N1, passaggio-chiave per la preparazione del vaccino. Ma si è rifiutata di girarla a Ginevra e alle case farmaceutiche senza garanzie di aver poi accesso al prodotti finito.
L´altra faccia della Virus Spa, farmaci a parte, è l´indotto da psicosi, un´altra azienda fiorentissima. L´americana Clorox ha visto decuplicare in Messico e quasi raddoppiare negli Usa le vendite della sua candeggina, usata come disinfettante. Aziende come le americane 3M e Kimberley lavorano a pieno ritmo ma non riescono a soddisfare la richiesta di mascherine per la respirazione: solo il governo inglese ne ha ordinate 32 milioni per i suoi medici, temendo più avanti una carenza. Tirano anche i sistemi di teleconferenza di Cisco e altri big dopo che molte aziende in giro per il mondo - già scottate dalla recessione - hanno ridotto al minimo i viaggi dei dipendenti. L´italianissima Polti, invece che pubblicizzare il suo storico pulitore Vaporetto, paga intere pagine di giornale per promuovere il Sanisystem, sanificatore anti-virus per bonificare le case degli italiani. Spese che valgono la candela se è vero, come stima Moody´s, che una pandemia da 1,4 milioni di morti (l´influenza tradizionale fa ogni anno 500mila vittime) potrebbe costare all´economia mondiale 330 miliardi di dollari.
Lo scoppio di un´epidemia seria, naturalmente, avrebbe conseguenze ad oggi inimmaginabili sulla Virus Spa. Nessuno in effetti è riuscito a creare modelli matematici attendibili per anticipare le reazioni emotive della gente. Per assurdo l´unico campione attendibile, - come certifica la rivista Lancet, arriva dal mondo virtuale del videogame "The world of warcraft". Un gioco interattivo dove l´infezione ("corrupted blood") attaccata dal serpente Haggar è sfuggita completamente al controllo dei softwaristi della Blizzard Entertainment, il produttore. L´azienda ha "teletrasportato" - «come succede con gli aerei nella realtà», dice Ran Balicer della Ben Gurion University - i giocatori infetti lontani da Haggar. Ma il virus online non si è fermato. In pochi giorni sono morti - per fortuna solo in questa specie di Matrix - 4 milioni di partecipanti. E la Blizzard ha dovuto resettare il sistema per debellare il morbo. Regalando però agli scienziati un campione prezioso per studiare le reazioni dei partecipanti e capire chi e perché era sopravvissuto (soprattutto i giocatori che non si sono fatti prendere dal panico e si sono "auto-quarantenati" fuori dai grandi centri telematici).
Il panico, in effetti, è stato sempre cattivo consigliere - anche in termini economici - per il mondo dorato del business del virus. La madre di tutte le influenze suine, quella scoppiata nel 1976 a Fort Dix nel New Jersey, è paradigmatica: ha contagiato 13 militari, uccidendone uno. Washington, con l´incubo della pandemia, ha vaccinato 40 milioni di americani, spendendo centinaia di milioni di dollari. Il morbo non si è mosso da Fort Dix e non ha più ucciso nessuno. Gli effetti collaterali del vaccino (la sindrome Guillain-Barre, sintomi la paralisi) sono costati però a Casa Bianca e produttori 93 milioni per le cause legali.

La legge di Lieberman: fedeltà a Israele

l’Unità 26.5.09
Stato sionista
La legge di Lieberman: fedeltà a Israele
Cittadinanza. Potrà essere revocata a chi si rifiuta di giurare
Il falco del governo Netanyahu impone all’esecutivo l’esame delle nuove norme
Nel mirino un milione e mezzo di arabi israeliani. Insorgono le associazioni umanitarie
di Umberto De Giovannangeli

Da «provocazione» elettorale a proposta di legge. Destinata a infiammare Israele. È il giuramento di fedeltà allo «Stato sionista» chiesto da Israel Beitenu di Avigdor Lieberman. Lo scontro alla Knesset.

Ora non è più una «provocazione elettorale». Ora è una proposta di legge avanzata dalla terza forza politica d’Israele - Israel Beitenu (IB), destra radicale - il cui leader, Avigdor Lieberman - guida uno dei ministeri chiave del governo: gli Esteri. Una proposta che tende a imporre a tutti i cittadini un inedito giuramento di fedeltà allo Stato israeliano e alla sua natura ebraica, è da ieri sul tavolo del governo Netanyahu.
POLEMICHE ROVENTI
La proposta ha in realtà molto cammino da fare prima di potersi tramutare in legge effettiva, poiché dovrà ottenere l'assenso collegiale del governo (a cui sarà sottoposta la settimana prossima) e successivamente della Knesset, dove si prevede fin d’ora una dura battaglia con probabili ricorsi alla Corte Suprema. Ma la polemica sul peso della destra identitaria nella compagine del premier Benyamin Netanyahu già divampa. IB, del resto, appare deciso a dare corpo agli slogan più barricadieri e discussi dei suoi comizi elettorali. Mentre il partner principale di governo (il Likud, partito della destra storica capeggiato da Netanyahu) sembra contare solo poche voci dissonanti. È dell’altro ieri il via libera ottenuto dal gruppo di Lieberman in consiglio dei ministri a un altro contestato disegno di legge, che mira a impedire alla minoranza araba del Paese (1,5 milioni di persone, il 20% della popolazione) ogni commemorazione della Nakba («catastrofe» in arabo) in cui i palestinesi rievocano la nascita d'Israele nel 1948, indissolubilmente legata nella loro memoria all’esodo di circa 700 mila profughi.
Servizio militare
La proposta formalizzata ieri, se venisse recepita, imporrebbe ai firmatari del giuramento di dichiarare fedeltà «allo Stato d’Israele quale Stato ebraico, democratico e sionista», impegnandoli per iscritto «a servire il Paese secondo le necessità, anche prestando servizio militare o civile». Non solo: essa darebbe al ministro dell’Interno la facoltà di non rilasciare carta d’identità o passaporto a chiunque rifiutasse di aderire e perfino di revocargli d'autorità la cittadinanza. La legge sull’«atto di lealtà» colpirebbe soprattutto gli arabi israeliani, molti dei quali non s'identificano affatto col carattere ebraico d'Israele. Ma anche quegli ebrei ultraortodossi che contestano lo Stato sionista in quanto creazione laica e non opera del Messia.
L’Associazione israeliana dei diritti civili non ha esitato a evocare i bagliori sinistri di una cultura totalitaria dietro la proposta, bollata come espressione di «totale fascismo». «Siamo alla barbarie identitaria, una pagina vergognosa per Israele», dice a l’Unità Yael Dayan, scrittrice, paladina dei diritti delle minoranze, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan. «Questa proposta è il biglietto da visita di un governo che ha il razzismo nel suo dna», le fa eco Shulamit Aloni, più volte ministra nei governi a guida laburista, figura storica della sinistra pacifista israeliana. Imbarazzi sono emersi inoltre nel Partito laburista, portato da Ehud Barak nella coalizione con Likud e IB, mentre critiche pesanti sono piovute dall’opposizione centrista di Kadima, la formazione dell’ex ministra degli Esteri Tzipi Livni. I partiti arabi hanno parlato a loro volta di «deriva razzista», promettendo opposizione a oltranza. Un loro esponente, Jamal Zahalka (deputato del Balad alla Knesset), ha in particolare preso di mira il divieto della Nakba, affermando che «varare una legge per impedire il dolore e il lutto è un fatto senza precedenti a livello internazionale». Ma avvertendo che gli arabi d'Israele troveranno «il modo di ricordare il passato malgrado questo folle governo Netanayhu-Lieberman».

Israele sfida Obama: le nostre colonie cresceranno

l'Unità 1.6.09
Israele sfida Obama: le nostre colonie cresceranno
di Umberto De Giovannangeli

La sfida ad Obama. La guerra fratricida in Cisgiordania. A pochi giorni dall’atteso discorso al Cairo del presidente Usa (il 4 giugno), le notizie che giungono da Israele e dai Territori palestinesi non inducono all’ottimismo. Al governo israeliano Obama aveva chiesto un gesto concreto in favore del dialogo: il blocco della colonizzazione in Cisgiordania. La risposta è una porta chiusa.
«Voglio rendere chiaro che l’attuale governo non accetterà mai alcun congelamento degli insediamenti legali di Giudea e Samaria» (Cisgiordania), tuona più di tutti il ministro dei Trasporti, Yisrael Katz, esponente del Likud (il partito di Netanyahu): definendo «legali» (a differenza degli avamposti) quelle costruzioni autorizzate dai governi israeliani, che la comunità internazionale giudica viceversa illegittime al pari di tutte le colonie realizzate dal 1967 in poi. Katz ritiene in particolare «ingiusta» la richiesta americana di congelare i piani di ampliamento presentati da Israele come una risposta alla «crescita naturale» della popolazione delle colonie (forte già oggi di 280.000 persone solo in Cisgiordania, Gerusalemme est esclusa).
PORTE CHIUSE
D’accordo con lui, fra gli altri, il ministro-rabbino Daniel Hershkowitz, titolare del dicastero della Scienza e rappresentante del Focolare Ebraico (vicino al movimento dei coloni religiosi), il quale ha tacciato di «irragionevolezza» il rifiuto Usa di convenire sull''argomento della «crescita naturale». Accostando Obama niente meno che a un «faraone» reincarnato, deciso a «buttare nel Nilo» il popolo di Mosè.Netanyahu - archiviato ieri il secondo sgombero in pochi giorni di un micro avamposto - si è sentito a sua volta in dovere di precisare al gruppo parlamentare del Likud di non avere alcuna intenzione di «rimuovere comunità» intere. Nello staff del premier - scrive unanime la stampa, da Haaretz a Maariv - non mancano d'altronde inquietudini per la sequenza delle mosse di Obama: intenzionato, secondo indiscrezioni di provenienza britannica, a promuovere in ogni modo una svolta nel negoziato israelo-palestinese, verso la contrastata soluzione dei due Stati, già «entro due anni». Mosse che secondo un funzionario anonimo citato dai media hanno ormai indotto lo stesso Netanyahu a domandarsi se Washington non stia cercando di metterlo in difficoltà di proposito, nella speranza magari di far cadere il suo governo.
SANGUE IN CISGIORDANIA
L’altra notte agenti dell'Anp hanno bussato alla porta di una casa di due piani a Qalqilya (nord della Cisgiordania) per arrestare due attivisti di Hamas. Ma gli agenti vengono accolti con raffiche di armi automatiche che feriscono mortalmente tre poliziotti e costringono gli altri a ritirarsi in attesa di rinforzi. Inizia così una battaglia durata circa sette ore, a conclusione della quale, ieri mattina, sono stati uccisi Mohammed Samman, il più alto ufficiale di Hamas nell'area, il suo vice Moahmmed Yassin e il proprietario della casa. Secondo il portavoce della polizia di al Fatah, Adnan Damiri,gli assediati hanno ignorato ripetute esortazioni ad arrendersi e hanno continuato a far fuoco sulle forze dell'ordine. A suo dire la cellula distrutta aveva il compito di raccogliere informazioni sui servizi di sicurezza palestinesi e sulle loro basi per conto di Hamas al fine di preparare attacchi. «Se vogliamo costruire il nostro Stato dobbiamo fare in modo che vi sia una sola autorità col potere di far rispettare le leggi e di portare armi», sottolinea Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente Abu Mazen. «L’esempio di Hamas a Gaza non si ripeterà» avvertono fonti dell'Anp.
La reazione di Hamas non si fa attendere. L’accusa rivolta all'Anp e al Fatah è di aver «superato ogni linea rossa», ad Abu Mazen di essere colluso con «il nemico sionista». Lo si legge in una nota diffusa a Gaza dal portavoce Fawzi Barhum nella quale si sostiene che in queste condizioni il dialogo interpalestinese «non ha senso». «Ciò che è accaduto oggi a Qalqilya dimostra che la missione principale delle forze di sicurezza dell'Anp è complementare a quella del nemico sionista e mira a colpire la resistenza palestinese», afferma Barhum nella nota. «Vendicheremo i nostri martiri», minacciano le Brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas. «Romperemo il silenzio ogni volta che si verificheranno violazioni» allo status quo, replica al Fatah, ribaltando su Hamas l’accusa d'aver innescato un nuovo ciclo di violenze e di voler «sabotare il dialogo» interpalestinese promosso in questi mesi tra continui intoppi dall'Egitto.

Israele gela Barack Obama. La colonizzazione in Cisgiordania non si fermerà. Almeno non negli insediamenti «legali». In Cisgiordania è guerra tra al Fatah e Hamas: sei morti in uno scontro a fuoco a Qalqilya.