domenica 18 dicembre 2011

13 Bankers: The Wall Street Takeover and the Next Financial Meltdown

13 Bankers: The Wall Street Takeover and the Next Financial Meltdown

Simon Johnson, James Kwak

Anche dopo la rovinosa crisi finanziaria del 2008, l'America continua ad essere dominata dai saccheggi di una oligarchia che è ora più grande, più redditizia e più resistente alla regolamentazione che mai. Ancorato da sei megabanche-Bank of America, JPMorgan Chase, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley, che insieme controllano asset pari, sorprendentemente, a più del 60 per cento del prodotto interno lordo del paese, queste istituzioni finanziarie (ora più enfaticamente "troppo grandi per fallire") continuano a tenere in ostaggio l'economia globale, minacciando l'ennesima crisi finanziaria con i loro rischi eccessivi e tossici. Come si è arrivati ​​ad essere così, e cosa si deve fare? Questa è la preoccupazione centrale di 13 Bankers, un brillante, resoconto storicamente informato della nostra travagliata economia politica.

In 13 dei banchieri, Simon Johnson, uno degli economisti più importanti e frequentemente citata in America (ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, professore di imprenditoria presso il MIT, James Kwak ci danno un resoconto di ampio respiro, meticoloso, e tonificante della recente storia finanziaria degli Stati Uniti nel contesto dei crolli precedenti tra la democrazia americana e la grande finanza: da Thomas Jefferson ad Andrew Jackson, da Theodore Roosevelt a Franklin Delano Roosevelt. Essi mostrano in maniera convincente perché il nostro futuro è in pericolo dall'ideologia della finanza (la finanza è buona, la finanza non regolamentata è meglio, eseguire finanza senza restrizioni è la cosa migliore) e dal controllo politico di Wall Street della politica del governo riguardo ad essa.

Come gli autori insistono, la scelta che l'America deve affrontare è dura: se Washington entreranno a far parte interessi di un settore finanziario che corre sfrenata nel realizzare profitti in anni buoni e scarica le sue perdite per i contribuenti in anni di magra, o la riforma attraverso la regolamentazione rigorosa del settore bancario sistema prima di tutto un motore di crescita economica. Per ripristinare la salute e l'equilibrio per la nostra economia, Johnson e Kwak fannoe una proposta radicale ma fattibile e concentrati: ". Sufficientemente piccolo per fallire" riconfigurare le megabanche.






sabato 17 dicembre 2011

Dare medicine ai sani. Le case farmaceutiche fanno affari

Il Fatto 29.11.11
Dare medicine ai sani. Le case farmaceutiche fanno affari
Il mensile “E” di Emergency spiega la tattica miliardaria
Chiara Paolin

Il settore del farmaco scoppia di salute, e il mensile E, edito da Emergency, mette in fila i numeri per scoprire quanto vale “Il business dei sani”, come titola la copertina del numero oggi in edicola.
Un business da primato, che nemmeno la crisi planetaria ha scalfito. “Il giro d’affari delle aziende farmaceutiche nel mondo ha superato nel 2010 i 610 miliardi di euro, fatturato a cui quelle italiane contribuiscono con una quota di circa 25 miliardi spiega l’inchiesta di Roberta Villa -. La spesa media pro capite di ogni italiano per le medicine è di oltre 300 euro l’anno, ma non è tutto qui, perché il settore dei farmaci concorre per meno del 15 per cento all’intero comparto economico che ruota attorno alla salute. E questo mercato del benessere, dai confini sempre più sfumati, rappresenta ormai il 10 per cento dei consumi in Europa e il 15 per cento negli Stati Uniti”.
Insomma, meno male, un settore che tira e non licenzia. Peccato per le conseguenze collaterali, che hanno nomi difficilotti ma spiegazioni assai semplici. Il “disease mongering” non è un morbo contagioso ma la prassi di marketing che negli ultimi anni ha consentito al comparto di far volare utili e nuovi brand: come spiega Gianfranco Domenighetti, docente di Comunicazione ed economia sanitaria presso l’Università della Svizzera italiana, l’importante non è riuscire a vendere più medicine ai soliti malati, ma sensibilizzare la gente a nuovi consumi nel nome di una presunta attenzione alla salute. Come?
SEMPLICE, basta “gonfiare l’importanza di una malattia o, se occorre, inventarsela di sana pianta” dice Domenighetti invitando l’utente medio a meditare sull’utilità di screening massivi e campagne di prevenzione sempre più frequenti.
Perché, a dire il vero, le malattie restano più o meno le stesse e “solo il 2,4 per cento dei farmaci immessi sul mercato dal 1981 al 2008 rappresenta un vero importante progresso terapeutico, mentre l’80 per cento non sono che copie dell’esistente, a eccezione del prezzo, che di regola è triplicato”
chiosa l’economista svizzero. Ma davvero l’industria riesce a condizionare la domanda di farmaci fino al punto di danneggiare il reale interesse del consumatore/paziente? Risponde Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano: “Questa idea di curare i sani è solo l’ultimo atto di una strategia che inizialmente è partita allargando artificialmente la platea dei malati. Non è un caso che i valori-soglia considerati un tempo normali per la glicemia, il colesterolo o la pressione arteriosa siano stati progressivamente abbassati: per ognuno di questi aggiustamenti, è cresciuto a dismisura il numero di persone cui prescrivere medicinali”. E se la prossima volta che leggerete sul giornale un mega inserto sulla salute dove si parla di doloretti alla schiena, tenete a mente questa battuta rapida ma efficace: “La fibromialgia, per esempio, è una ‘nuova’ malattia che sembra fatta apposta allo scopo di vendere analgesici”. Parola di Garattini.
Oltretutto, c’è da ragionare sulla relatività del concetto salute e sulla forza dei modelli culturali capaci di espandersi a suon di investimenti miliardari. Gli Stati Uniti, si sa, sono la patria dell’extra large e anche in ambito farmaceutico stanno facendo scuola alla vecchia Europa. Negli Usa una persona su quattro prende ogni giorno la pillola per tenere a bada la pressione e i medicinali contro gli stati ansiosi sono ormai alla portata dei bambini di quattro anni. Donne isteriche? Uomini disoccupati? Adolescenti inquieti? Tutti in fila per la terapia, magari venduta via internet con sconti favolosi, giusto per invogliare il cliente.
IN ITALIA, storicamente, la classe medica ha posto un freno all’invadenza del business, ma i tempi magri e l’inesorabile tendenza al supporto fast meglio buttar giù un antidolorifico al volo piuttosto che impegnare tempo e denaro in cure tradizionali cui la sanità pubblica non può più far fronte fanno pensare a un futuro ancor più florido per i commercianti del benessere. “Per questo abbiamo deciso di occuparcene spiega Maso Notarianni, vicedirettore di E -. Noi siamo la testata di Emergency, e tutti si aspettano notizie sulle attività nei vari luoghi del mondo dove opera l’organizzazione. In realtà il mondo è un affare complicato, dove tutto si correla. I soldi, la ricchezza, la democrazia, i diritti umani. Anche in Italia, nella sanità privata o in quella pubblica, c’è chi pensa solo al profitto. Secondo noi la salute è un’altra cosa, il rispetto per l’essere umano è la priorità: in un ospedale sperduto tra la guerra o nella clinica degli orrori a Milano cambia poco”.

mercoledì 7 dicembre 2011

La mistica del capitalismo. Dalle monete ai brand i nuovi oggetti di culto

«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione»
La Repubblica 6.12.11
La mistica del capitalismo. Dalle monete ai brand i nuovi oggetti di culto
Roberto Esposito

Adesso gli studiosi discutono di come sia possibile uscire dal paradigma liturgico
Il discorso economico e finanziario, nel corso del tempo, ha assunto toni quasi religiosi
L´analogia funziona anche per i paesi dell´Oriente dove l´accostamento è con il taoismo
Il punto è come togliere questa impronta teologica tornando alle pratiche reali

«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni». Queste fulminanti parole di Walter Benjamin – tratte da un frammento del 1921, pubblicato adesso nei suoi Scritti politici, a cura di M. Palma e G. Pedullà per gli Editori Internazionali Riuniti – esprimono la situazione spirituale del nostro tempo meglio di interi trattati di macroeconomia. Il passaggio decisivo che esso segna, rispetto alle note analisi di Weber sull´etica protestante e lo spirito del capitalismo, è che questo non deriva semplicemente da una religione, ma è esso stesso una forma di religione. Con un solo colpo Benjamin sembra lasciarsi alle spalle sia la classica tesi di Marx che l´economia è sempre politica sia quella, negli stessi anni teorizzata da Carl Schmitt, che la politica è la vera erede moderna della teologia.
Del resto quel che chiamiamo "credito" non viene dal latino "credo"? Il che spiega il doppio significato, di "creditore" e "fedele", del termine tedesco Gläubiger. E la "conversione" non riguarda insieme l´ambito della fede e quello della moneta? Ma Benjamin non si ferma qui. Il capitalismo non è una religione come le altre, nel senso che risulta caratterizzato da tre tratti specifici: il primo è che non produce una dogmatica, ma un culto; il secondo che tale culto è permanente, non prevede giorni festivi; e il terzo che, lungi dal salvare o redimere, condanna coloro che lo venerano a una colpa infinita. Se si tiene d´occhio il nesso semantico tra colpa e debito, l´attualità delle parole di Benjamin appare addirittura inquietante. Non soltanto il capitalismo è divenuto la nostra religione secolare, ma, imponendoci il suo culto, ci destina ad un indebitamento senza tregua che finisce per distruggere la nostra vita quotidiana.
Già Lacan aveva identificato in questa potenza autodistruttiva la cifra peculiare del discorso del Capitalista. Ma lo sguardo di Benjamin penetra talmente a fondo nel nostro presente da suscitare una domanda cui la riflessione filosofica contemporanea non può sottrarsi. Se il capitalismo è la religione del nostro tempo, vuol dire che oltre di esso non è possibile sporgersi? Che qualsiasi alternativa gli si possa contrapporre rientra inevitabilmente nei suoi confini – al punto che il mondo stesso è "dentro il capitale", come suona il titolo di un libro di Peter Sloterdijk (Il mondo dentro il capitale, Meltemi 2006)? Oppure, al di là di esso, si può pensare qualcosa di diverso – come si sforzano di fare i numerosi teorici del postcapitalismo? Intorno a questo plesso di questioni ruota un intrigante libro, originato da un dibattito tra filosofi tedeschi, ora tradotto a cura di Stefano Franchini e Paolo Perticari, da Mimesis, col titolo Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione.
Da un lato esso spinge l´analisi di Benjamin più avanti, per esempio in merito all´inesorabilità del nuovo culto del brand. Tale è la sua forza di attrazione che, anche se vi è scritto in caratteri cubitali che il fumo fa morire, compriamo lo stesso il pacchetto di sigarette. Come in ogni religione, la fede è più forte dell´evidenza. Dior, Prada o Lufthansa garantiscono per noi più di ogni nostra valutazione. Le azioni cultuali sono provvedimenti generatori di fiducia cui non è possibile sfuggire. Non a caso anche i partiti politici dichiarano "Fiducia nella Germania" a prescindere, non diversamente da come sul dollaro è scritto "In God we trust". Ma, allora, se il destino non è, come credeva Napoleone, la politica, ma piuttosto l´economia; se il capitale, come tutte le fedi, ha il suo luoghi di culto, i suoi sacerdoti, la sua liturgia – oltre che i suoi eretici, apostati e martiri – quale futuro ci attende?
Su questo punto i filosofi cominciano a dividersi. Secondo Sloterdijk, con l´ingresso in campo del modello orientale – nato a Singapore e di lì dilagato in Cina e in India – si va rompendo la triade occidentale di capitalismo, razionalismo e liberaldemocrazia in nome di un nuovo capitalismo autoritario. In effetti oggi si assiste a un curioso scambio di consegne tra Europa e Asia. Nel momento stesso in cui, a livello strutturale, la tecnologia europea, e poi americana, trionfa su scala planetaria, su quello culturale il buddismo e i diversi "tao" invadono l´Occidente. La tesi di Zizek è che tra i due versanti si sia determinato un perfetto (e perverso) gioco delle parti. In un saggio intitolato Guerre stellari III. Sull´etica taoista e lo spirito del capitalismo virtuale (ora incluso nello stesso volume), egli individua nel buddismo in salsa occidentale l´ideologia paradigmatica del tardo capitalismo. Nulla più di esso corrisponde al carattere virtuale dei flussi finanziari globali, privi di contatto con la realtà oggettiva, eppure capaci di influenzarla pesantemente. Da questo parallelismo si può trarre una conseguenza apologetica o anche una più critica, se riusciamo a non identificarci interiormente col giuoco di specchi, o di ombre cinesi, in cui pure ci muoviamo. Ma in ciascuno dei casi restiamo prigionieri di esso.
È questa l´ultima parola della filosofia? Diverremo tutti, prima o poi, officianti devoti del culto capitalistico, in qualsiasi versione, liberale o autoritaria, esso si presenti? Personalmente non tirerei questa desolata conclusione. Senza necessariamente accedere all´utopia avveniristica del Movimento Zeitgeist o del Venus Project – entrambi orientati a sostituire l´attuale economia finanziaria con un´organizzazione sociale basata sulle risorse naturali –, credo che l´unico grimaldello capace di forzare la nuova religione del capitale finanziario sia costituito dalla politica. A patto che anch´essa si liberi della sua, mai del tutto dismessa, maschera teologica. Prima ancora che sul terreno pratico, la battaglia si gioca sul piano della comprensione della realtà. Nel suo ultimo libro, Alla mia sinistra (Mondadori, 2011), Federico Rampini percorre lo stesso itinerario – da Occidente a Oriente e ritorno – ma traendone una diversa lezione. All´idea di "mondo dentro il capitale" di Sloterdijk è possibile opporre una prospettiva rovesciata, che situi il capitale dentro il mondo, vale a dire che lo cali dentro le differenze della storia e della politica. Solo quest´ultima può sottrarre l´economia alla deriva autodissolutiva cui appare avviata, governandone i processi ed invertendone la direzione.