mercoledì 31 dicembre 2008

La guerra dell'acqua. Quando l'oro azzurro diventa un nemico

La guerra dell'acqua. Quando l'oro azzurro diventa un nemico

di Guglielmo Ragozzino

Il Manifesto del 12/11/2008

Viaggio nelle comunità contadine indigene che hanno visto la propria ricchezza secolare, l'acqua, diventare nera e velenosa per l'azione dell'industria e delle colture industriali, senza che le autorità facessero qualcosa per salvarle

I cittadini del Nicaragua sono convinti che il loro paese sia benedetto da dio quanto alla ricchezza e allo splendore dell'acqua. Sono però disperati perché non hanno saputo conservare per sé e per i figli la loro ricchezza lasciando che qualcuno la rubasse, per venderla, usarla, sporcarla in vario modo. Così l'acqua, da fantastica risorsa, si è trasformata nel suo opposto, un pericolo mortale.
Il viaggio della Carovana comincia in un mondo difficile. Le prime due tappe, sono esperienze di passione e di miseria sofferte da popolazioni povere; due tappe successive riguardano comunità che lottano contro le conseguenze: le malattie e le morti dovute all'acqua malsana, l'acqua nemica. Si comincia da Mateare, pochi chilometri a sud della capitale.
Mateare è un grande comune di trenta o quarantamila abitanti, dispersi in otto o dieci comunità minori. Per esempio una di queste, Brasiles che ci accoglie, ha la fortuna di essere sul bellissimo lago di Managua. I brasilesi ne parlano però, con qualche motivo, come del lago più inquinato del mondo. C'è l'acqua nera che oggi ammorba i pozzi dai quali da tempo immemorabile la popolazione tira la sua acqua, per le necessità domestiche e per l'orto e i campi; c'è l'acqua di scarico delle fabbriche che finisce nella falda, dove confluiscono anche i veleni dell'agricoltura industriale. Sulla strada si vede una fabbrica, moderna di aspetto, «Holcim tessile». Forse è quella di cui parla un documento che la cooperativa locale ci fa leggere. «All'altezza del chilometro 15 e 500 della 'carretera nueva' per Leon, presso l'entrata del cimitero vecchio, a 500 metri dalla carretera, è sorto uno stabilimento a capitali asiatici da parte di imprese locali. E con questo tutte le acque nere della città di Sandino sono sfociate nei terreni comunitari». Il danno maggiore deriva dal fatto che le acque nere non sono trattate; ne consegue un odore fetido, che impedisce alla popolazione dei barrios Sayda Gonzales e los Castros perfino di mangiare in pace.
La comunità ha fatto ricorso al ministero della salute, familiarmente Minsa, e a quello delle risorse naturali e dell'ambiente, Marena. Ma inutilmente: a Mateare «le istituzioni pubbliche non applicano le proprie stesse leggi in difesa del liquido vitale». Così le acque di superficie e profonde si contaminano senza rimedio con tutti i veleni possibili e poi scendono al lago, sotto forma di fango putrido. Le ultime immagini sono una donna che cammina con una gran cesta di bellissimi pesci invitanti, tratti dal lago e più in là, lungo uno scivolo che spezza la fitta vegetazione tra la strada e il lago, un potente fuoristrada che traina fino in acqua un motoscafo da diporto, pilotato da una giovane donna.
La bomba
Il saper fare in tema di acqua spetta sempre più spesso alle donne, anche da queste parti. Una donna di Abangasca, parlando dal palco, elencherà tutte le buone cose che le donne, le mujeres, sanno fare con l'acqua pulita. Nell'elenco al quarto o quinto posto, dopo lavare i panni e i bambini e tenere pulita la casa, c'è un «lavare gli uomini», los barones, che rinvia a saperi comuni e antichi.
La ricerca che la Carovana compie per raggiungere la comunità indigena di Abangasca non è semplice, ma alla fine ha successo, anche con la mediazione di Luigi Partenza del Cospe, e si conclude quando ci viene incontro una donna gigantesca e sorridente, alta almeno tre metri, accompagnata da un altro personaggio, piccolissimo, con imponente giacca da cerimonia che sfiora la terra e una testa di cartone pressato larga almeno un metro. Li accompagna una musica di tamburi, pestati con tutta la forza dei giovani dagli orchestrali dodicenni. Anche la gigantessa e il testone sono, come qualcuno ha già intuìto, mossi e interpretati da due ragazzetti che saltano e ballano a tutta forza, ammirati da una caterva di bambini e bambine che sono seduti, composti e pieni di dignità, sulle sedie dei grandi e degli ospiti attesi. Siamo arrivati al Centro social Ma. Elena Reyes, un edificio senza pareti in un bosco assai ricco, costruito con «l'appoggio solidale» di Cgil-Cisl-Uil di Brescia e del Mlal (Movimientos laicos para America latina). Più in là un campo di calcio dalle porte piccolissime e in discreta pendenza. Le discese vi riusciranno alla grande.
Ci spiegano che quella è la loro terra, dalla notte dei tempi. In seguito l'hanno addirittura ricomprata dalla Corona di Spagna. La contaminazione delle acque per questa comunità passabilmente felice arriva dopo il 1998, l'anno dell'uragano Mitch che sconvolge alla fine di ottobre i paesi del Centroamerica. Gli anni successivi, dal 2000 al 2004, sono anni secchi, tanto che nel 2002 con l'approvazione generale la società S. Antonio applica una bomba, in italiano una pompa, di grandi dimensioni per avere acqua nelle sue coltivazioni, soprattutto la canna. Ma a fianco della bomba grande dell'industria multinazionale c'è anche la bomba piccola, dei poveri, di cui si parla nella scheda. Già nel 2004 cominciano i problemi: La contaminazione dei campi in cui gli indigeni coltivano fagioli e riso e frutta in modo naturale, diventa insopportabile: la coltivazione della canna per produrre zucchero, etanolo, metanolo, liquori (flor de cana: vi dice niente?), cioè l'agricoltura industriale del latifondo, funziona solo con una quantità di prodotti chimici che inquinano acqua, terreni, aria, mare. Ettari ed ettari di mangrovie non ci sono più. Il disastro è poi ancora più intenso quando si brucia quel che resta dopo il taglio della canna e il villaggio indigeno è investito dai fumi. Anche il lavoro promesso non vale. L'inserimento di una sola macchina tagliatrice ha recentemente eliminato 400 lavoratori che però restano in loco e respirano gli stessi fumi di prima. Così parte la prima di molte iniziative legali contro la S.Antonio, con una raccolta pubblica per le spese di 3.000 dollari.
S. Antonio naturalmente fa parte del gruppo di Pellas, il grande proprietario locale. Siccome il progenitore di casa Pellas arrivava da Genova, almeno nella leggenda, proprio come Cristoforo Colombo, gli italiani, i genovesi soprattutto sono visti con sospetto. Sospetto confermato dopo che il capo di casa Pellas è stato nominato, venti giorni fa, console onorario d'Italia a Granada, storica capitale del Nicaragua.

Silwan, re David non abita più qui

Silwan, re David non abita più qui

di Michele Giorgio

Il Manifesto del 21/11/2008

Un'impresa immobiliare finanziata da un milionario americano sponsorizza il parco archeologico di re David. Per fargli spazio vengono abbattute le case palestinesi «illegali», mentre altre sono acquistate dai coloni. E il nuovo sindaco Barkat ha già promesso una raffica di demolizioni

È stata una ruspa a mettere a tacere le proteste dei coniugi al Kurd, espulsi il 10 novembre dalla casa dove la famiglia aveva vissuto per 50 anni. Sotto lo sguardo stanco ma non rassegnato di Fawziya al Kurd, sorda agli slogan di decine di palestinesi e pacifisti internazionali e israeliani e protetta da schiere di agenti di polizia, l'altro ieri una gigantesca pala meccanica ha strappato le tende dal giardino dell'abitazione dove negli ultimi giorni si erano concentrate le manifestazioni contro il blitz dei coloni israeliani nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah.
Poi la macchina ha cominciato a spianare il terreno, per renderlo edificabile. La Corte Suprema israeliana ha sentenziato che prima della nascita d'Israele l'area, compreso l'appartamento degli al Kurd, era appartenuta a ebrei e ha accertato che ora è regolarmente registrata a nome di un'associazione religiosa ebraica. «Piena legalità» assicurano i giudici, che però non verificano la proprietà originaria di centinaia di case nella zona ebraica di Gerusalemme, ora abitate da israeliani, ma che prima del 1948 appartenevano a palestinesi espulsi o costretti a fuggire.
Sheikh Jarrah, che ospita la tomba del rabbino santo Shimon, è solo uno dei capitoli dell'offensiva lanciata nel settore palestinese della Città santa dai settler israeliani, che la scorsa settimana hanno festeggiato l'elezione del sindaco Nir Barkat, un «indipendente» di destra che in campagna elettorale aveva promesso demolizioni a raffica di case arabe «illegali» e la costruzione di una nuova colonia alla periferia della Gerusalemme palestinese. L'obiettivo principale delle organizzazioni di destra rimane Silwan, ai piedi della città vecchia, sotto il Muro del Pianto e la Spianata delle moschee. È questo il terreno preferito dai coloni impegnati nella lenta «riconquista» della zona araba.
«Benvenuti nella città di David», recita una scritta sull'edificio costruito alla fine della strada che gira intorno alle mura antiche e porta all'ingresso di Silwan. Qui un tempo sorgeva una casa palestinese, occupata dai coloni all'inizio degli anni '90: ai proprietari, si disse, un palestinese offrì una somma enorme per poche decine di metri quadrati e, una volta entrato in possesso dell'abitazione, la girò subito ai coloni israeliani. Oggi è il punto di partenza del cosiddetto «Parco archeologico di re David».
L'inizio è stato lento ma, grazie a un'astuta operazione pubblicitaria svolta in particolare negli Stati Uniti, il «parco archeologico di re David» lo scorso anno è stato visitato da oltre 300mila turisti. Pochi mesi fa i coloni hanno organizzato a Silwan persino un concento, con il cantante Shlomo Gronich, ex pacifista passato a destra.
A finanziare il progetto «archeologico» è la Elad, misteriosa quanto ben sponsorizzata (dal milionario americano Irwin Moskowitz) «impresa immobiliare» che dal 1980 percorre tutte le strade possibili per prendere possesso, attraverso atti ufficiali ma anche acquisizioni dalla dubbia legalità, del maggior numero di abitazioni in un quartiere palestinese densamente popolato (oltre 40mila abitanti). Lo scopo è quello di «riprendere» il controllo - dopo 3mila anni - di un'area che, secondo la tradizione biblica, ospitò re David. A dare una mano ci sono l'Autorità per le antichità e, soprattutto, il Comune di Gerusalemme che, proprio di recente, ha riavviato le demolizioni di abitazioni abusive - le ultime due appena qualche giorno fa - nel rione di al Bustan, seguendo un programma approvato nel 2005 che prevede la distruzione di 88 case palestinesi.
«Il comune parla di case illegali, ma non risponde all'accusa di non concedere permessi edilizi ai palestinesi che, per questa ragione, sono costretti a costruire abusivamente», spiega Meir Margalit, consigliere comunale del Meretz ma più conosciuto come attivista di Icahd, il comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi.
«A Silwan si corre il pericolo di vedere quelle 88 case effettivamente tutte demolite, poco alla volta, non tutte insieme, per non fare clamore ed evitare possibili proteste internazionali - aggiunge Margalit -. La Elad e i coloni ormai sono decisi ad andare sino in fondo e godono di finanziamenti ingenti e forti appoggi politici. Potrebbero causare la più ampia demolizione di case arabe dal 1967, quando il Comune fece abbattere il quartiere palestinese di Mugrabi (nella città vecchia, ndr) per allargare la spianata del Muro del Pianto».
Silwan offre un terreno fertile per i programmi dei coloni, perché è una zona d'indubbio valore storico, archeologico e religioso. In quest'area, ad esempio, si trovano la Piscina di Siloam, la Sorgente di Gihon, il Tunnel di Hezekiah e il famoso condotto di Warren che, a voler dar credito alla tradizione religiosa, venne usato da Joab, emissario di re David, per penetrare all'interno di Gerusalemme.
Luoghi suggestivi e che vengono citati a ripetizione dalle guide della Elad per giustificare, agli occhi dei turisti, la «riconquista» di Silwan a danno dei palestinesi descritti come degli intrusi. A dare ulteriore validità all'impresa dei coloni ci pensa l'archeologa Eilat Mazar, al lavoro da anni in quell'area, secondo la quale i reperti confermano, senza ombra di dubbio, che re David aveva realmente il suo palazzo a Silwan.
Una tesi che lascia freddi altri esperti israeliani come il professor Rafi Greenberg, dell'Università di Tel Aviv, che negli anni '70 aveva scavato nell'area del parco archeologico. Nel 1998, peraltro, la stessa Università Ebraica di Gerusalemme si era rivolta alla Corte Suprema per impedire alla Elad di continuare le sue iniziative a Silwan. «Vogliono usare l'archeologia biblica per conquistare consensi e giustificare l'espulsione dei palestinesi», protesta Yonatan Mizrachi, un archeologo israeliano che ha abbandonato l'Autorità delle antichità e ora organizza tour alternativi a quelli della Elad.
«I coloni operano da anni contro le regole della nostra professione, si limitano a portare alla luce i reperti che ritengono utili per la loro agenda politica e minimizzano tutto il resto», spiega Mizrachi che poi aggiunge: «a Silwan non è mai stata trovata la prova definitiva della presenza di re David e se un giorno verrà alla luce la scritta «Benvenuti al palazzo di re David» ciò comunque non potrà giustificare l'espulsione di migliaia di palestinesi da Silwan».
I coloni tuttavia proseguono per la loro strada, consapevoli degli importanti appoggi di cui godono a ogni livello, soprattutto quando i loro progetti riguardano Gerusalemme. In questi ultimi anni hanno acquistato o occupato varie abitazioni arabe e la bandiera israeliana sventola ora su non pochi tetti di Silwan. E le strette misure di sicurezza che seguono inevitabilmente all'arrivo di coloni in aree densamente popolate da palestinesi, complica non poco la vita dell'interno quartiere, costretto anche a fare i conti con immensi ingorghi di auto causati il più delle volte dai movimenti e dai controlli delle guardie di sicurezza.
«Abbiamo telecamere ovunque, che ci osservano giorno e notte - racconta Jawad Siyam, un abitante palestinese - in qualsiasi momento possiamo trovare una guardia dei coloni sull'uscio di casa. Una volta a Silwan c'erano campi e giardini dove da bambino andavo a giocare con i miei amici, ora sono quasi tutte aree proibite». In nome della riconquista della città di re David.

Ritorna lo scempio dello Stretto. Sono 12,7 i miliardi in attesa del Cipe

Ritorna lo scempio dello Stretto. Sono 12,7 i miliardi in attesa del Cipe

di Gemma Contin

Liberazione del 22/11/2008

In tempo di crisi il centrodestra si inventa un new deal all'italiana. «Si tratta di utilizzare decine di miliardi che per opere pubbliche e Mezzogiorno sono stanziati ma non erogati - sostiene il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri - che possono rappresentare una spinta positiva per fronteggiare i rischi della recessione».
Quando la notte è fonda tutti i gatti sono grigi. Anche quel gran pezzo di gatto mammone addormentato che è il Ponte sullo Stretto. Ecco allora ricicciare fuori il rifinanziamento delle infrastrutture (utili, futili, dannose, non importa) tutte ritornate in auge in attesa che il Comitato interministeriale per la programmazione economica decida di sbloccare 16 miliardi di euro, di cui 12,7 di Fas (fondi per le aree sottoutilizzate) da destinare alle "grandi opere".
Il Cipe avrebbe dovuto decidere ieri ma all'ultimo minuto ha fatto slittare la seduta di una settimana, a venerdì 28 novembre, dopo la riunione del Consiglio dei ministri di mercoledì 26 in cui il governo dovrebbe "perfezionare" il pacchetto anticrisi comprensivo degli aiuti alle famiglie e alle imprese.
Di quei 12,7 miliardi, 7,3 andranno a strade e ferrovie, 5,4 nella disponibilità del Ministero dello Sviluppo economico, hanno chiarito Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi nel vertice di mercoledì scorso a Palazzo Chigi al quale hanno partecipato il ministro delle Attività produttive Claudio Scajola, delle Infrastrutture Altero Matteoli, dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo, degli Affari regionali Raffaele Fitto, e il sottosegratario con delega al Cipe Gianfranco Micciché.
Insomma, il piano per le "grandi opere" è pronto per un rilancio su vasta scala. E, guarda caso, sotto gli atti del Comitato per la programmazione economica ci sono proprie le firme di Micciché in veste di segretario e di Tremonti in veste di vicepresidente. Ad esempio sotto quella del 30 settembre recante il titolo "Programma Grandi Opere: Ponte sullo Stretto di Messina", in cui si legge che «il Comitato, su proposta del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha deliberato la reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio per le aree interessate alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina».
Ci risiamo. Il governo, adducendo misure anticrisi, è ripartito con i suoi programmi faraonici destinati a sventrare l'Italia, "non prioritari" per la stessa Unione europea, il cui solo scopo è quello di spartire denaro pubblico ai grandi costruttori, alle società general contractor, ai soliti noti rimasti attaccati alla mammella pubblica.
Assieme al Ponte (2,200 miliardi, 700 milioni solo per gli espropri) il ministro Matteoli ha annunciato nove grandi opere «di serie A»: l'eterna Salerno-Reggio Calabria (2,700 miliardi per «60 chilometri da ammodernare»); la BreBeMi (1,580); la Pedemontana Lombarda (4,115); la Brescia-Padova (1,650); la Parma-La Spezia (1,800); due miliardi per «il recupero di siti industriali inquinati»; il resto per telecomunicazioni ed energia, per promuovere il risparmio energetico ma anche i consorzi di sviluppo degli impianti nucleari.
Tutto concordato al tavolo di confronto con Confindustria, Confcommercio, Confartigianato e con l'Abi, l'associazione italiana banche e banchieri che, assieme alla Cassa depositi e prestiti (presidente appena nominato Franco Bassanini), dovrebbe garantire l'erogazione dei fondi e i flussi di finanziamento, passando dalle vecchie modalità di trasferimento agli Enti locali al ricorso a nuovi strumenti finanziari come i private equity , benché non godano per ora di buona salute.
E siamo sempre fermi al filone autostradale: primaria "vena aurifera" degli appalti pubblici italiani. Non si parla ancora invece di quello ferroviario, Tav o corridoi europei che siano. Per il ministro Matteoli con ogni evidenza non «di serie A».

Disertori a stelle e strisce. I renitenti Usa cercano asilo nel Canada

Disertori a stelle e strisce. I renitenti Usa cercano asilo nel Canada

di Lorenzo Tondo
Il Manifesto del 22/11/2008

Fuggono dalla guerra in Iraq. Centinaia di riservisti passano il confine per non combattere. Ma Ottawa non concede loro l'asilo, per paura di tensioni diplomatiche con il potente vicino. E loro rischiano l'espulsione e la pena di morte

Li chiamano Absent Without OfficialLeave, «assenti senza permesso ufficiale», e dall'inizio della guerra in Iraq sono diventati un vero e proprio grattacapo per il Ministero della Difesa statunitense. Sono i disertori che, a quarant'anni di distanza dalla guerra del Vietnam, hanno ripreso a marciare in massa verso il Canada, storica terra d'asilo dove tra gli anni '60 e '70 migliaia di giovani americani trovarono rifugio e una via di fuga dall'obbligo della leva.
Fra loro c'è l'ormai ex sergente Phil McDowell che qui arrivò nel marzo 2005 con la moglie e un bagagliaio pieno di vestiti per l'inverno. Le autorità gli danno la caccia da allora, quando Phil, in missione in Iraq con la Prima cavalleria, decise di strapparsi di dosso stellette e uniforme di un'America in cui non si riconosceva più. Per l'esercito del suo paese il soldato McDowell è un traditore della patria e come tutti i traditori il suo destino è appeso al giudizio della corte marziale.
«Decisi di arruolarmi nell'esercito subito dopo l'11settembre - racconta Phil - e a febbraio del 2004 fui spedito a Baghdad. Ci avevano convinto che Saddam nascondeva da qualche parte armi di distruzione di massa». Il suo compito era quello di guidare i convogli che trasportavano i soldati di città in città. «Un giorno mi ordinarono di speronare con il mio veicolo ogni mezzo civile che mi trovavo davanti - ricorda Phil - Disobbedii e mi spedirono in un villaggio sperduto dove vidi con i miei occhi prigionieri iracheni, colpevoli di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, trattati come animali, chiusi al freddo senza acqua né cibo e con un sacco nero in testa».
Tornato negli Stati uniti e costretto - due anni dopo, nell'ottobre 2006 - a ripartire per un'altra missione in Iraq, il sergente McDowell decise di disertare, commettendo un reato ancora oggi punibile con la pena di morte.
Incontriamo Phil in un'ex acciaieria nel quartiere di China Town, dove ogni settimana due generazioni di disertori si confrontano attorno a un grande tavolo. La sala è gremita. Ci sono vecchi veterani del Vietnam, con lunghi capelli bianchi e cappellini da baseball, che sbraitano per la mancanza di fondi per loro, donne sulla sessantina che discutono animatamente con alcuni legali e poi tanti, tantissimi giovani. Tra di loro una decina di esuli di guerra. È il quartier generale dei War Resisters, un'associazione progressista che da 20 anni si batte per difendere i diritti dei disertori.
Lee Zalosfky, coordinatore dell'associazione e disertore della guerra in Vietnam, è visibilmente preoccupato: le spese legali hanno prosciugato le casse e quasi tutte le nuove richieste d'asilo sono state rigettate dall'Ufficio Immigrazione. Lee, un omone sulla cinquantina con un grosso baffone biondastro e un paio di bretelle nere, spiega che nonostante il 64% dei canadesi sia favorevole alla concessione dell'asilo per i disertori di guerra (Angus Reid poll), una parte della popolazione comincia a chiedersi se sia giusto accogliere le richieste d'asilo dei soldati americani che vestono volontariamente l'uniforme. Attirati da assistenza sanitaria gratuita e 1600 dollari al mese, oggi i giovani americani scelgono in massa di entrare volontariamente nell'esercito. Una decisione, però, dalla quale è difficile tornare indietro. Tra il 1964 e il 1975 furono oltre 55mila i soldati che disertarono la guerra. E se durante il Vietnam rischiavano al massimo il carcere, oggi per chi diserta l'Iraq o l'Afghanistan il codice militare prevede la pena di morte.
In Canada è opinione diffusa e supportata dai media che dietro i rifiuti dell'Ufficio Immigrazione si nasconderebbero in realtà delle preoccupazioni diplomatiche. Se infatti le richieste di asilo politico di questi giovani saranno accolte, saranno in migliaia i disertori che passeranno il confine, forti del fatto che al di là dei Grandi Laghi c'è una terra pronta a dar loro rifugio. Un tradimento intollerabile da parte del più vicino degli alleati: uno scenario imbarazzante per Washington. Tra i falchi della Casa Bianca c'è già chi reclama sanzioni contro Ottawa, che negli ultimi 20 anni si è guadagnata l'appellativo di «Canadukistan sovietico», pronto a passare dalla parte del nemico nella lotta al terrorismo.
Sono lontani i tempi in cui Lyndon B. Johnson tentò di strozzare l'allora primo ministro canadese e Premio Nobel per la pace, Lester Pearson, che si rifiutava di prendere parte alla guerra in Vietnam.
Oggi il Primo ministro canadese Stephen Harper, rieletto lo scorso 14 ottobre alla guida di un ennesimo governo di minoranza, ha fortemente voluto la presenza militare canadese in Afghanistan ed è un dichiarato sostenitore del conflitto in Iraq. E non è un caso, secondo le organizzazioni pacifiste, che il numero delle richieste d'asilo rigettate dal governo canadese sia considerevolmente aumentato sotto la sua amministrazione, nonostante qualche mese fa il Parlamento abbia votato per concedere la residenza permanente a tutti i militari americani che fuggono dall'Iraq. «È molto semplice. - spiega Lee - Il governo Harper è un governo di destra, in sintonia con l'amministrazione Bush. Sono favorevoli alla guerra e meno inclini ad accogliere le richieste d'asilo dei disertori. Vogliono fare del Canada una nazione guerrafondaia. «Siamo amici degli Stati uniti e dobbiamo combattere al loro fianco. Ecco tutto».
Intanto, per far fronte all'ondata degli Absents, l'esercito americano è alle prese con la riorganizzazione delle strutture che si occupano di loro. Garrett Riotte, un disertore di 18 anni, racconta che nei Marines avevano creato una squadra denominata «The Chasers» (i cacciatori) con il compito di arrestare i soldati sospettati di diserzione. «Alla giustizia militare americana non si sfugge», aggiunge Lee. Questo i disertori lo sanno. Jerry Texiero fu uno dei primi soldati americani a lasciare il Vietnam. Si era dato disertore dalla base di Barstow in California nel lontano 1965. Lo acciuffarono nel 2005 a Tarpon Springs dove lavorava in una società nel settore navale sotto il falso nome di Jerome Conti. «Tutto questo è imbarazzante per Washington. Catturare un uomo per diserzione dopo 40anni è ridicolo! - dice Lee- Queste notizie non aiutano chi ci governa. Negli Stati uniti la gente ha perso la fiducia nella politica. Quando si parla di Iraq in tv, gli americani cambiano canale...non importa più a nessuno. Noi tutti speriamo che con Obama le cose cambieranno. Non ha una bacchetta magica, ma dovrà tenere conto della gente che l'ha votato per la sua opposizione alla guerra».
Aslan Lamarche, un ex marine di 18 anni, è residente in Florida. Aslan ci teneva a dare il suo voto ai democratici e qualche giorno prima del 4 novembre si era presentato al consolato di Toronto chiedendo informazioni sul voto dall'estero. «Dovevi vedere le loro facce. - racconta Aslan- Mi hanno chiesto: "Ma tu non dovresti essere in Iraq? Uno degli uomini della sicurezza ha urlato dicendo: 'Hai disertato la guerra, ti sei opposto al tuo governo e poi reclami il diritto di votare! Vai a fanculo!'. Fortuna che mi trovavo dall'altra parte del cancello, anche se due uomini della sicurezza mi avevano invitato ad entrare. Volevano portarmi dentro». E sono tanti i disertori che per sfuggire all'arresto sono stati costretti a rinunciare al diritto di voto.
«Prima di gettar via l'uniforme, molti dei disertori votavano repubblicano ed erano degli strenui sostenitori delle guerre in Medio Oriente » spiega J. V., 20 anni, che dice di avere il telefono e la posta elettronica sotto controllo. «Oggi - assicura- i 5mila disertori americani sparsi in tutto il mondo hanno votato in massa per Obama».

Da Spielberg al banco Santander una truffa da 50 miliardi di dollari

Da Spielberg al banco Santander una truffa da 50 miliardi di dollari

di Fr. Pi.

Il Manifesto del 16/12/2008

L'ex presidente del Nasdaq arrestato e rilasciato

Peggio di Lehmann Brothers, sia per modalità che per dimensioni. La mega-truffa organizzata da Bernard Madoff - prestigioso ex presidente del Nasdaq - ha creato un buco da 50 miliardi di dollari. Un valore che si moltiplica, a livello sistemico, perché molti istituti che avevano investito nei suoi fondi stanno entrando in difficoltà. Alcuni certamente dovranno scegliere tra la via del fallimento oppure la vendita di altri asset per provare a sopravvivere.
Considerato uno dei massimi esperti della finanza globale, Madoff ha costruito la sua piramide puntando sulla clientela scelta - il jet set internazionale, la comunità ebraica newyorkese (di cui è un esponente di primo piano). Ma anche scuole, università, fondi pensione, villaggi, fondi caritatevoli. Tra i nomi famosi che cominciano a circolare ci sono l'immobiliarista Mort Zuckerman, il proprietario dei New York Mets, Fred Wilpon, un fondo di beneficenza di Steven Spielberg; ma anche la Elie Wiesel Foundation. La fama sua e dei suoi clienti gli aveva procurato migliaia di «investitori istituzionali» - banche e hedge funds, soprattutto - attirati dalla sua leggendaria capacità di garantire un rendimento medio del 10% annuo, indipendentemente dagli andamenti del mercato; e dall'altrettanto favolosa capacità di far fronte immediatamente alle richieste di rimborso. Un paradiso in terra, insomma.
Ora si vanno contando le perdite. Il Fairfield Greenwich Group - il salvadanaio dell'alta società di New York - aveva 7,5 dei suoi 16 miliardi di patrimonio investiti da Madoff. Ha perso metà del capitale e probabilmente dovrà chiudere. L banca spagnola Santander ha annunciato perdite per 2,3 miliardi, mentre la connazionale Bbva si limita a 300, rendendo noto di non aver nessun investimento diretto in Madoff, ma con una clientela esposta per 30 miliardi. Situazione tragica in Svizzera, dove le banche principali (Ubs e Credit Suisse) si dichiarano «pulite», ma si calcola in 5 miliardi il buco complessivo degli istituti minori.
Anche in Francia non si ride. Bnp Paribas, Natixis, Casse d'Espargne, Banque Populaire mettono a rosso centinaia di milioni a testa. L'inglese Hsbc ha ammesso perdite per un miliardo di dollari, mentre la Royal Bank of Scotland, già pesantemente segnata dai mutui subprime e dal tracollo Lehmann, segna 400 milioni di sterline al passivo.
Non è immune l'Italia, dove Unicredit limita i danni a 75 milioni. Ma un brivido sta percorrendo le schiene di parecchi milionari di casa nostra. A Londra, infatti, il fondo King Gate ha scoperto di avere 2,8 miliardi investiti nel giro di Madoff; Federico Ceretti e Carlo Grosso avevano fin qui assicurato una numerosa clientela italiana. Pare addirittura maggioritaria.
In tutto il mondo è un fiorire di annunci. Molti istituti ci tengono a far sapere di essere «Madoff free», mentre altri si sono chiusi nel più rigoroso riserbo. A piangere sono soprattutto i fondi speculativi. Un primo calcolo ha stimato che gli hedge funds potrebbero veder svanire il 5% dei propri asset. Al punto che l'Aima - l'associazione internazionale del settore che raccoglie 1.280 membri - ha cominciato a chiedere «aiuti per gli investitori», dichiarandosi disponibile «ad apprendere la lezione».
Cosa implica per i normali clienti di banca un botto simile, che va peraltro ad aggiungersi alle altre ragioni di instabilità creditizia? Alcune delle più grandi banche italiana hanno già deciso che da marzo i direttori di filiale potranno autorizzare ai clienti uno «sconfino» fino a 500 euro. Per le piccole imprese e le partite Iva significa il blocco del credito. Di fatto. Per chi ha sottoscritto un mutuo e ha un reddito fisso, l'allarme scatterà quando «il rosso» raggiungerà l'astronomica cifra di 50 euro. Una cena, forse l'ultima.

Gaza insanguinata. Olmert promette: la guerra continua

Gaza insanguinata. Olmert promette: la guerra continua

di Francesca Marretta

Liberazione del 31/12/2008

Gaza spera nello spiraglio di quarantotto ore tregua. Il governo Israeliano discuterà oggi se prendere in considerazione la proposta del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner per un «cessate il fuoco umanitario». Tuttavia Olmert ha fatto sapere che i raid aerei rappresentano solo una prima fase della guerra, che proseguirà con le operazioni di terra. Intanto i morti a Gaza sono oltre trecentottanta. I feriti almeno millesettecentocinquanta. Tra le vittime civili vi sono quaranta bambini e una ventina di donne. E i raid aerei israeliani proseguono. Sono stati senza tregua durante la notte di martedì. Ieri mattina due sorelle di 4 e 11 anni, che viaggiavano a bordo di un carretto trainato da un asino sono state falciate dall'ennesima bomba israeliana, in una strada di Khan Yunes, a sud della Striscia.
Non sorprende che la gente di Gaza abbia paura di uscire anche per cercare cibo. Uffici e scuole sono chiusi. I pochi che, spinti dalla necessità hanno il coraggio di andare in strada, sono costretti a mettersi in fila, una volta trovato un panettiere aperto. La maggior parte dei forni di Gaza, non è in funzione, non solo per la paura, ma per mancanza di corrente elettrica, che occorrerebbe costante per tutta la notte. Intanto la scarsitá di rifornimenti alimentari spinge i prezzi alle stelle. Le uova sono rincarate del 50 per cento, la carne di manzo, già introvabile, invece che a peso va a caratura e il pollo, che normalmente si vende ovunque a Gaza, costa il doppio del normale.
Nella serata di ieri l'esercito israeliano ha lanciato un pesantissimo attacco tra la zona di Rafah, all'estremo sud di Gaza, bombardando all'interno del territorio palestinese fino all'aerea della Philadelphi Road. Obiettivo dell'attacco, a ripetizione, l'annientamento della capacitá di movimento e rifornimento di Hamas attraverso i tunnel sotterranei che sbucano in Egitto. Canali da cui passano armi e munizioni per Hamas, ma anche forniture di vario tipo, di sigarette, pezzi di ricambio, addirittura capre da sgozzare per l'Aid, la festa più importante dell'anno per i musulmani. Per distruggere i tunnel, gli F-16 dell'aviazione isrealiana hanno utilizzato bombe "all'avanguardia" che hanno la capacità di distruggere fino a 15 metri di profondità dal suolo. Diverse ore prima dell'attacco nella zona di Rafah, il personale di frontiera egiziano ha ordinato la sospensione delle attivitá per timore dell'attacco israeliano, che sarebbe arrivato dopo poco. Stessa cosa ha fatto la Croce rossa. Durante la giornata vi era stato un flusso, sebbene lento, di malati gravi verso l'ospedale egiziano di Al Arish, il più vicino a Rafah. Centoventi tonnellate di generi di soccorso, viveri e aiuti sanitari, sono arrivati a Gaza dal confine sud, scaricati da aerei atterrati in Egitto da Libia e Qatar. Israele ha autorizzato il passaggio dal valico di Kerem Shalom di un convoglio di aiuti aiuti umanitari organizzati da Croce rossa internazionale, Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) e Unicef.
La marina militare israeliana ha invece impedito l'arrivo a Gaza di un'imbarcazione dell'organizzazione "Free Gaza" che aveva a bordo aiuti umanitari destinati alla popolazione palestinese. La nave è stata speronata in alto mare, a novanta miglia da Gaza. Dall'imbarcazione danneggiata, gli attivisti internazionali hanno lanciato un S.o.s. A bordo della Dignity, questo il nome della nave, viaggiavano tre medici specialistici, un britannico, un tedesco e una cipriota. Costretta a cambiare rotta, la Dignity è attraccata ieri sera al porto libanese di Tiro.
Nonostante l'aviazione israeliana abbia colpito gli obiettivi simbolo del potere di Hamas, uffici governativi, della sicurezza, l'Università islamica, le moschee frequentate dai leader del movimento islamico, le case dei capi delle milizie, ieri sera, il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum ha dichiarato che questa guerra non servirá a rovesciare Hamas: «Quelli che credono che questi attacchi porteranno alla fine di Hamas devono paragonare quello che è successo a Gaza con quanto accaduto in Libano. Una guerra di 33 giorni che ha distrutto tutto in Libano, non è riuscita a distruggere la resistenza libanese. Sarà Israele a cadere, noi ci affidiamo ad Allah». La leadership di Hamas è ora sottoterra. Nel senso che si nasconde tra i cunicoli che si diramano in ogni direzione nel sottosuolo di Gaza.
Ieri almeno quarata razzi lanciati dalla Striscia hanno raggiunto Israele, spingendosi sempre più all'interno del territorio, sia nella traiettoria a est della Striscia che a nord. Sono state colpite Rahat e l'area di Beersheva nel Negev, Sderot, la zona di Kiryat Malaki a diciassette chilometri a nord est di Ashdod, secondo porto del paese. L'esercito israeliano ha distrutto decine e decine di basi di lancio per i qassam. Ma i Grad si possono sparare dai camion. Questo è esattamente quello che faceva Hezbollah due anni e mezzo fa con i Katiusha dal Libano. Ieri sera, dagli schermi di Canale 10, un telegiornale israeliano ha informato la popolazione che i bombardieri israeliani hanno distrutto finora un terzo dei razzi di cui dispone Hamas. Ma per paralizzare il sud di Israele, dove le scuole sono chiuse, le persone restano a pochi metri dai rifugi o vanno in macchina, anche col freddo di questi giorni, a finestrino aperto per sentire le sirene, basta anche un razzo al giorno. Perchè non si sa mai dove cadrá, ne se è proprio quello che ti ammazza. Da sabato scorso, giorno di inizo dell'operazione militare israeliana a Gaza, sono morti colpiti da razzi palestinesi cinque israeliani, quattro civili e un soldato.
Mentre in tutta Europa si organizzano manifestazioni contro i bombardamenti a Gaza, i paesi della Regione spegono le luci dei festeggiamenti di fine anno.
Concerti ed eventi mondani sono stati cancellati in Tunisia, Kuwait, Egitto e Giordania. A Betlemme, le luci delle festività natalizie sono spente da sabato scorso. Anche le consuete celebraziono del primo dell'anno che nel mondo arabo ricordano le prime operazioni armate condotte dai fedaiyyn palestinesi contro Israele, potrebbero essere annullate in segno di lutto. Secondo alcuni analisti di Ramallah i palestinesi non avrebbero apprezzato l'atteggiamento tenuto durante dal presidente Abbas nei confronti di Hamas nel corso di questa crisi. «Durante le guerre i palestinesi vogliono ascoltare appelli all'unitá nazionale, non scambi di accuse tra partiti rivali». Ieri sera il governo israeliano ha approvato il richiamo di altri duemilacinquecento riservisti. Nei giorni scorsi ne erano stati richiamati seimilacinquecento.

Ecomostro alle porte di Roma - "Acilia, il trionfo di cemento selvaggio"

Ecomostro alle porte di Roma - "Acilia, il trionfo di cemento selvaggio"
PAOLO G. BRERA
Mercoledì, 31 Dicembre 2008 la Repubblica - ROMA

Una storia tutta italiana. Il comitato di quartiere: da anni denunciavamo le irregolarità. E Alemanno nomina una commissione

Dietro il sequestro di 1.300 alloggi 18 anni di trucchi ai limiti della legge
Furbizia, malaffare e inefficienza della pubblica amministrazione: è il cocktail che ha consentito la cementificazione selvaggia lungo via di Acilia, con la nascita di un ecomostro da 1.300 alloggi su cui ora indaga la magistratura che ieri ha sequestrato il complesso delle Terrazze del Presidente. Diciotto anni di trucchetti ai danni della cosa pubblica raccontati dal verde Angelo Bonelli, ex assessore regionale all´Ambiente ed ex presidente del XIII municipio: «È una delle pagine più buie dell´urbanistica romana». E mentre il sindaco Gianni Alemanno auspica chiarezza mettendosi «a disposizione della magistratura», l´assessore Corsini punta il dito verso «il porto delle nebbie» dell´Ufficio condono. Intanto, i comitati raccontano la lotta infinita per le infrastrutture, promesse e mai realizzate: «Mancano scuole, fogne e strade».



I residenti: le Terrazze del Presidente, uno scempio urbanistico

Il sindaco Alemanno "Subito un´indagine interna"



«Finalmente una vittoria, anche se sono dispiaciuta per chi ha comprato un appartamento in costruzione e se lo ritrova sotto sequestro. E ora speriamo che si cominci davvero a fare luce su tutto lo scempio urbanistico che è avvenuto in questa zona di entroterra». Dopo anni di battaglie contro la speculazione edilizia delle Terrazze del Presidente, con l´intervento della magistratura che ha sequestrato l´area si apre uno spiraglio e Adriana Fornaro, presidente del comitato Amici della Madonnetta, non vede l´ora di cambiare pagina: «Speriamo solo che non finisca in una bolla di sapone».
«Infernetto, Madonnetta, Acilia, Malafede, Mezzocamino... Nel XIII municipio c´è stata un´urbanizzazione selvaggia - racconta - mentre veniva promesso e non mantenuto che ci sarebbero stati servizi. Sono nati solo palazzi fatti con condoni edilizi, con ricorsi al Tar e permessi della Regione attraverso il commissario ad acta. All´Infernetto sono arrivati 30mila abitanti: uscendo di casa alle 7 ci vogliono un´ora e mezzo o due per arrivare all´Eur. La Colombo e la Via del mare sono le uniche strade di collegamento, e nonostante le promesse non hanno fatto nulla: nessuna ferrovia, metro su gomma o sottopasso. È rimasto tutto come era trent´anni fa».
Aree abusive risanate fatte «di stradine, di una viabilità insostenibile. Sappiamo bene di non poter combattere il costruttore, siamo perdenti, ma chiediamo che prima arrivino i servizi e le infrastrutture, e poi il costruito». Così prevede la legge, d´altronde. E invece la solfa è un´altra: arriva cemento a tonnellate, e le infrastrutture restano sulla carta. «Non ci sono scuole, siamo al collasso. Tutte le infrastrutture che ci avevano promesso - dice Fornaro - non esistono. Le Terrazze del Presidente sono l´esempio classico: il costruttore Pulcini in cambio della sanatoria doveva creare il sottopasso di Acilia e l´allargamento per soli duecento metri della via di Acilia. Era persino irrisorio, ma nel frattempo hanno costruito altri palazzi e la strada non si può più allargare».
Non è solo l´area delle Terrazze del Presidente a soffrire: «A casa mia, alla Madonnetta, siamo senza luce da 5 giorni: non è stata potenziata neanche la rete dell´illuminazione - racconta - un giorno resta al buio la mia strada e un giorno un´altra. Qui hanno pensato solo allo sfruttamento edilizio. Nelle pubblicità vendono zone residenziali a 10 minuti dall´Eur e a 5 dal mare, ma è una truffa, non è vero: spendiamo la maggior parte del tempo in auto, il quartiere sta scoppiando. Dalla viabilità alle fogne, e alle scuole che non ci sono».
Intanto il sindaco Gianni Alemanno annuncia l´apertura di un´indagine interna. «Siamo a disposizione della magistratura - promette il sindaco - per fare il massimo della chiarezza sulla lottizzazione di Acilia». E Marco Corsini, assessorato all´Urbanistica, annuncia verifiche anche sull´Ufficio condono edilizio: «L´inchiesta della Procura è la conferma di una gestione a dir poco opaca».

Così nasce un ecomostro 18 anni di storia italiana

Così nasce un ecomostro 18 anni di storia italiana
GIOVANNA VITALE
Mercoledì, 31 Dicembre 2008 la Repubblica - ROMA

Dai trucchi degli sbardelliani ai condoni di Berlusconi ai cambi d´uso

È una storia fatta di furbizie, malaffare e inefficienza della pubblica amministrazione, quella che ha consentito la cementificazione selvaggia lungo via di Acilia. A raccontarla è Angelo Bonelli, ex consigliere regionale e deputato dei Verdi, che ne ha seguito e contrastato l´iter sin dagli esordi, quando a capo della XIII circoscrizione c´era proprio lui. «Le 12 palazzine sequestrate dalla Procura sono il simbolo di una delle pagine più brutte e buie dell´Urbanistica romana la cui vicenda inizia il 30 maggio 1990» dice. Fino a quel giorno, infatti, l´area dove sarebbero sorte le Terrazze del Presidente, nome suggestivo mutuato dalla vicinissima tenuta quirinalizia di Castel Porziano, era destinata a verde e servizi pubblici. Un terreno di proprietà degli immobiliaristi Salvatore Ligresti e Antonio Pulcini, sul quale volevano costruire un centro produttivo e perciò avevano chiesto l´autorizzazione al Comune di Roma. Ma poiché il Comune tardava a rispondere «l´allora assessore regionale all´Urbanistica Paolo Tuffi» (democristiano di fede sbardelliana) «si avvalse dei poteri sostituivi e rilasciò la concessione edilizia all´Eur Servizi terziari di Ligresti per ben 360mila metri cubi», prosegue Bonelli.
Non passano neppure 15 giorni dal rilascio della concessione edilizia che «l´allora assessore all´Urbanistica del Campidoglio, Antonio Gerace» (altro dc fedelissimo di Sbardella) «con un tempismo quanto meno sospetto riappone i vincoli, facendo tornare la destinazione dell´area a verde pubblico e servizi». Purtroppo, però, i lavori erano iniziati e gli scheletri degli immobili per uso ufficio e negozi ormai eretti. Partono perciò i ricorsi di varie associazioni ambientaliste e dei Verdi, che assegnano una doppia vittoria: prima il Tar del Lazio e poi il Consiglio di Stato annullano la concessione edilizia del 30 maggio ´90. L´ecomostro è abusivo: per legge deve essere abbattuto. Ma è una vittoria di Pirro. In soccorso della Eur Servizi Terziari arriva il governo Berlusconi. Durante la discussione in Parlamento del secondo condono edilizio, l´ex ministro ai Lavori Pubblici Radice dà parere favorevole a un emendamento di An che consentirà la maxi-sanatoria. L´art.39 del ddl 724/94 prevedeva infatti che potessero essere condonati solo immobili con un volume non superiore a 750 metri cubi. Grazie alla modifica viene aggiunto un comma: "Il limite di cui sopra non si applica per le concessioni annullate in sede giurisdizionale". Se non è una norma ad hoc per le Terrazze del Presidente, poco ci manca: «Un grande favore a uno dei più potenti costruttori e finanzieri d´Italia», taglia corto Bonelli.
Siamo alla fine degli anni ´90, nel frattempo la proprietà passa interamente a Pulcini, la giunta Rutelli approva una delibera che impone ai proprietari di immobili sanati il pagamento di una serie di oneri concessori e la costruzione di alcune opere pubbliche. Nel caso specifico, il raddoppio di via Acilia, il sottopasso tra questa e la Colombo, la risistemazione di un parco. Quando, tra il 2003 e il 2004, dopo una lunghissima istruttoria, la pratica di condono viene completata, il Campidoglio concede il cambio di destinazione d´uso delle Terrazze da uffici a residenziale. Ma, a distanza di anni, delle infrastrutture da realizzare a carico del costruttore non c´è ancora traccia.

lunedì 22 dicembre 2008

Dal Molin, si affronta il tema "paesaggio".

Dal Molin, si affronta il tema "paesaggio".
Edizione del 19/12/2008, IL GAZZETTINO ONLINE

Dal Molin, si affronta il tema "paesaggio". Le porte dell'aeroporto si apriranno infatti domani per la conferenza dei servizi. L'appuntamento è fissato per le 10 quando, davanti ai cancelli dell'area destinata ad ospitare la nuova base americana, si presenteranno per un sopralluogo sul campo i rappresentanti della conferenza chiamata ad esprimersi sulla relazione paesaggistica elaborata dalla ditta vincitrice dell'appalto della base Usa bis. La richiesta dell'ispezione è stata avanzata dal sindaco Achille Variati ad inizio mese proprio nell'ambito della conferenza dei servizi e ufficializzata dal primo cittadino berico al rientro della prima riunione veneziana della commissione. Con queste parole: «Ho invitato la conferenza a venire a Vicenza per un sopralluogo: una cosa è osservare le carte, altra cosa è vedere di persona l'area di cui stiamo parlando». Un'area che per palazzo Trissino, per tutta una serie di motivi ambientali, non è adatta ad ospitare la Ederle 2 e che domani passerà sotto la lente d'ingrandimento dei rappresentanti della conferenza: Comune, Regione e Soprintendenza. Per l'amministrazione comunale ci saranno il sindaco, l'assessore alla progettazione e innovazione del territorio Francesca Lazzari, il dirigente dell'urbanistica Antonio Bortoli e l'avvocato del Comune Loretta Checchinato: la stessa squadra cioè, fatta eccezione per la Lazzari, che ha partecipato al primo incontro della conferenza. Segnato dalla richiesta di Regione, Comune e Soprintendenza di avere a disposizione del materiale aggiuntivo per approfondire la questione e dalla decisione di darsi novanta giorni di tempo per esprimersi sull'impatto paesaggistico della Ederle 2. La parola finale poi spetterà alla Regione e prima di quel momento, dentro il Dal Molin, non potranno essere autorizzati i lavori di demolizione. Lavori sui quali però pesa un dubbio, quello avanzato tra gli altri dal consigliere comunale Claudio Cicero: che le demolizioni siano già in corso. E il sopralluogo di domani servirà anche per chiarire, una volta per tutte, questo punto.

Intanto si apre oggi la WinterFest No Dal Molin al Presidio Permanente: dodici giorni di iniziative, dibattiti, spettacoli e concerti per sostenere la campagna "Mettiamo radici al Dal Molin".

Ad aprire il ciclo di eventi sarà Gigi Sullo, direttore di Carta, che presenterà il suo ultimo libro, Postfuturo. A discuterne con lui Ezio Bertok, del movimento No Tav, e Francesco Pavin, Presidio No Dal Molin. Tema della serata i nuovi spazi della partecipazione, l'appuntamento è per le 18; al termine del dibattito, cena a sostegno di Emergency e musica dei Protocollo Rev. Abbot.
Roberta Labruna

«Dal Molin, le demolizioni? Autorizzate e già iniziate»

«Dal Molin, le demolizioni? Autorizzate e già iniziate»
21 DICEMBRE 2008, IL GAZZETTINO ONLINE

Il commissario di governo ha partecipato ieri al sopralluogo all’area aeroportuale, ha respinto le accuse del sindaco e ha fatto il punto su Camp Ederle 2

Costa: «Variati prima di parlare si informi. Il progetto sarà chiuso dopo le osservazioni della conferenza dei servizi»
«Le demolizioni al Dal Molin, seppur in maniera leggera, sono già iniziate». Le voci circolate nell'ultimo periodo sull'avvio delle demolizioni hanno trovato conferma, ieri mattina, direttamente per bocca del commissario Paolo Costa. Parole, quelle di Costa, che contrastano con quelle pronunciate dal sindaco Achille Variati ad inizio mese: quando, di ritorno dalla riunione della conferenza dei servizi chiamata a esprimersi sull'impatto paesaggistico della Ederle 2, annunciava che la commissione si era data novanta giorni tempo per esprimersi e che fino a quel momento «le demolizioni avrebbero dovuto attendere». Questa la replica di Costa: «Le demolizioni, che riguardano hangar e infissi e magazzini, sono iniziate ben prima dell'inizio dicembre e se Variati prima di parlare si informasse non sarebbe male». Poi chiarisce: «Le autorizzazioni sinora concesse prevedono questo limite: che ci si debba fermare prima dell'avvio delle costruzioni. Tutto ciò che viene prima, demolizioni comprese, è dunque autorizzato». Chiarito questo aspetto Costa, che ieri a partecipato al sopralluogo della conferenza dei servizi dentro l'area aeroportuale, risponde alle accuse lanciategli pochi minuti prima da Variati. Il sindaco, infatti, lo ha chiamato in causa imputandogli la responsabilità di aver fatto escludere dalla delegazione comunale l'ingegnere Guglielmo Verneau. Ma Costa non ci sta e spiega: «Mai fatta una cosa simile, non ne avrei avuto nemmeno l'autorità: Variati, infatti, dovrebbe sapere che la conferenza dei servizi dipende esclusivamente dalla Regione. Io sono stato semplicemente invitato al sopralluogo». E aggiunge: «Il mio intervento si è limitato a una risposta al presidente del consiglio comunale di Vicenza che mi ha espresso la volontà dei consiglieri comunali di effettuare una visita al Dal Molin. A lui ho risposto ricordandogli che il Comune è già rappresentato nell'ambito della conferenza dei servizi e che una volta che questa procedura si sarà conclusa potremmo parlare del sopralluogo dei consiglieri». Costa, dunque, rimanda con decisione ogni accusa al mittente: «Se il sindaco non ha partecipato al sopralluogo avrà i suoi motivi ed evidentemente avrà ritenuto di impiegare diversamente il suo tempo, nonostante la richiesta fosse partita da lui, per quanto mi riguarda posso solo dire che non ho avuto nessun ruolo nella procedura del sopralluogo». Costa spiega anche che il progetto definitivo della base Usa bis verrà «ultimato dopo che la conferenza dei servizi si sarà espressa, e ritoccato con eventuali modifiche che emergeranno in quella sede». E sulla reiterata richiesta di Variati di effettuare la valutazione di impatto ambientale, ribadisce che «non è giuridicamente dovuta».

Roberta Labruna

venerdì 12 dicembre 2008

Il business perfetto: maiali e mucche diventano riciclatori di rifiuti industriali

Il business perfetto: maiali e mucche diventano riciclatori di rifiuti industriali

Liberazione del 11 dicembre 2008, pag. 15

di Enrico Moriconi
E' di nuovo tempo di allarmi alimentari legati alla filiera di prodotti animali: qualche giorno fa sono stati comunicati gli esiti di una ricerca svedese che accusa gli hamburger di essere tra gli agenti scatenanti dell'Alzheimer, quasi contemporaneamente in Italia si è avuta la segnalazione di bambini colpiti da escherichia coli presente nel latte crudo contaminato, in questi giorni verranno abbattute le 1600 pecore vicino a Taranto colpevoli di aver pascolato in prati alla diossina e l'Europa si trova di nuovo alle prese con la diossina rilevata nelle carni di maiale e di bovino allevati in Irlanda.
Di nuovo, perchè già nel 1999 si era avuto un episodio di contaminazione di moltissimi allevamenti a causa di mangimi contenenti diossina prodotti in Belgio. Le carni ed i mangimi si erano diffusi in tutto il continente. Adesso la vicenda si ripropone e, mentre nel '99 erano interessati polli e suini, questa volta insieme ai maiali sono stati colpiti i bovini.
In verità dopo quel primo episodio arrivato alle cronache la diossina è stata compagna sgradita delle attività zootecniche in tutti questi anni: nel gennaio del 2006 prosciutti e carne di maiale proveniente dal Belgio avevano presentato la stessa problematica in modo grave, dal 2003 è iniziata la trafila di ritrovamenti nel latte di bovini e bufali soprattutto a sud, con una continuità inarrestabile, dall'inizio del 2008 sono iniziate le plurime segnalazioni di contaminazione nel Tarantino e di nuovo in Campania.
La presenza di diossina è in costante e preoccupante aumento. La diossina che esce da impianti industriali, da inceneritori o che è causata dal traffico automobilistico si deposita sui terreni e da qui passa nei vegetali e poi nel latte, nelle uova, nelle carni di animali che hanno mangiato questi vegetali, passa cioè nella catena alimentare animale e poi umana.
La presenza della diossina è comune a tutta la penisola, dal sud al nord: in Valtellina è stata trovata nei polli, a Vercelli nelle uova e nel latte dell'unica azienda controllata.
I casi più gravi, come quello dei polli del Belgio e dei maiali e bovini dell' Irlanda, indicano però un altro meccanismo: la molecola non arriva "dal cielo" ma viene direttamente immessa nei mangimi. La causa è sempre una sola e cioè il desiderio di guadagno da parte di imprenditori senza scrupoli che, non contenti di lucrare su sostanze di basso costo vendute a caro prezzo, approfittano della capacità degli animali di riciclare sostanze di scarto per introdurre nei mangimi rifiuti veri e propri, anche pericolosi. Da sempre agli animali allevati sono stati dati degli scarti come cibo, in particolare il maiale era allevato con gli scarti di cucina. Nelle fattorie, con gli animali, da un punto di vista ecologico, si chiudeva il cerchio. Si trattava di pochi animali e di rifiuti organici. Ora invece nell'allevamento industriale si riciclano … rifiuti industriali.
La diossina è un prodotto di scarto che invece di essere smaltito come rifiuto tossico viene somministrato agli animali. Il guadagno è enorme: si incassa il costo dello smaltimento e in più si ricavano i soldi dalla vendita del mangime così addizionato. Un bell'affare non c'è che dire anche se nel caso dell'Irlanda la causa ufficiale si dice sia un problema tecnico dovuto al guasto di una apparecchiatura.
Ora c'è la corsa a rassicurare i consumatori per non danneggiare la filiera e gli operatori del comparto, che però invece di dimostrare coscienza sociale ed etica imprenditoriale non smettono di speculare sulla salute dei consumatori e di trattare gli animali come pattumiere.
Infine due considerazioni. In Italia si fanno circa 200 campioni di routine ogni anno in tutto il paese per la ricerca della diossina, e solo in caso di riscontri positivi o di segnalazioni la ricerca si infittisce, ed è facilmente immaginabile che le positività non sono che una piccola punta di un iceberg enorme, perché se bastano pochi campioni a individuare la molecola vuol dire che il problema è diffusissimo.
Inoltre abbiamo qualche difficoltà a credere alle raccomandazioni sulla sicurezza per i consumatori se è stato ammesso, solo dopo cinque anni, che il primo famoso scandalo (quello del 1999) ha causato la morte di almeno 250 persone per colpa della diossina.

lunedì 8 dicembre 2008

Decrescita. Un’occasione che non si deve perdere

L’Unità 7.12.08
Decrescita. Un’occasione che non si deve perdere
di Loretta Napoleoni

Il movimento della decrescita è entrato in rotta di collisione con il verbo economico tradizionale, che incita gli abitanti del villaggio globale a consumare per uscire dalla crisi. Eppure la decrescita sembra essere la risposta istintiva di un'economia al collasso, che si riassesta attraverso i meccanismi classici della domanda e dell'offerta. A conferma i dati della disoccupazione, in netto aumento dovunque. Il Financial Times ha addirittura iniziato una prassi nuova: ogni sabato elenca i posti di lavoro «svaniti» durante la settimana. Nella City di Londra siamo ormai a quota 100 mila. La decrescita non è però circoscritta al settore finanziario - che ha perso negli ultimi due mesi 1.300 miliardi di dollari - ma coinvolge tutti, anche i settori più disparati: questa settimana a New York l'editoria ha tagliato il 25% dei posti di lavoro e Honda ha annunciato il ritiro dalla Formula Uno. Queste notizie apocalittiche ci devono far riflettere sul fallimento delle politiche anti-congiunturali dei governi: non è servito a nulla pompare più di 2 mila miliardi di dollari nel settore bancario internazionale.
E se la contrazione dell'economia fosse semplicemente un processo di assestamento necessario, che riporta l'economia ai valori reali, quelli veri, non più inflazionati dalla zavorra dei derivati e dalla bolla finanziaria? Più che di decrescita bisognerebbe parlare di economia sostenibile, senza sprechi. Latouche, il suo inventore, ce lo accenna quando scrive che il capitalismo non può convivere con una contrazione permanente dell'economia. Ma questo è vero per qualsiasi sistema economico, incluso quello marxista. La crisi del credito è dunque un'occasione da non perdere per rilanciare attraverso la decrescita una visione dell'economia sostenibile, che sfrutti e consumi le risorse ad un ritmo inferiore al loro rinnovamento. Un principio applicabile anche alle banche, poiché l'eccessivo indebitamento distrugge più denaro di quanto viene creato. Ed ecco un esempio illuminante: la simbiosi tra credito cooperativo e settore agricolo sostenibile. Il primo raccoglie il denaro tra i consumatori e lo investe nel secondo, che produce per la comunità in base ai bisogni di questa. Niente sprechi quindi; banca, produttore e consumatore sono a tutti gli effetti soci in affari. Peccato che la cooperazione economica piaccia poco ai nostri politici.

sabato 6 dicembre 2008

L’orrore economico

Viviane Forrester
L’orrore economico
Ponte alle Grazie, Firenze 1997, pagg. 186

Molto spesso accade che il battage massmediale che accompagna l’uscita di un libro e ne decreta il successo sia dovuto allo slogan contenuto nel titolo che veicola il messaggio del testo. E probabilmente il caso del saggio di Viviane Forrester, che è stato un autentico best seller in Francia e ha suscitato echi di vario genere in molti paesi. La Forrester, che è scrittrice di romanzi e critica letteraria di Le Monde «, si è cimentata in un saggio economico con la volontà di scrivere un pamphlet contro la prospettiva di disoccupazione strutturale e di massa che colpisce le liberaldemocrazie occidentali. L’ambizione era chiara:
denunciare con vigore l’illusione, creata dall’industrializzazione, di una società opulenta e al contempo equa in cui lo sradicamento, la povertà e l’esclusione dovrebbero essere fenomeni in via di progressiva sparizione, e sottolineare il fatto che le dinamiche sociali in atto mostrano esattamente una tendenza contraria. Leggendo il titolo, accompagnato per di più da un sottotitolo provocatorio (“Lavoro, economia, disoccupazione: la grande truffa del nostro tempo ») si potrebbe pensare che il libro possa essere accomunato, per la radicalità delle tesi espresse, al graffiante La ragione aveva torto, scritto negli anni Ottanta da Massimo Fini; ma in realtà, al lavoro della scrittrice francese mancano la lucidità e l’ironia di cui è dotato il vivace polemista milanese.
Le cifre sulla disoccupazione non lasciano spazio a dubbi: l’avvento dell’automazione, la globalizzazione dell’economia e la conseguente crescita della produttività per addetto riducono il lavoro meramente esecutivo, specialmente in una fase, come è quella attuale, caratterizzata da debole crescita economica, in cui la produttività aumenta non solo nell’industria, ma anche nei servizi. Alla disoccupazione la Forrester correla in modo lineare l’accentuarsi dei processi di sfaldamento sociale e di destrutturazione del legame sociale che porta vaste fasce di popolazione verso l’esclusione, senza tuttavia proporre osservazioni propositive che, almeno a grandi linee, indichino un progetto alternativo di società. Viene comunque evidenziato con chiarezza l’emergere di una nuova fase del conflitto tra capitale e lavoro: la remunerazione dei fattori della produzione diversi dal lavoro, in particolare del capitale, è progredita molto più velocemente rispetto a quella del lavoro, divenuta addirittura minoritaria nella società. Si tratta di un’evoluzione in senso regressivo, accentuata dalla rottura della correlazione negativa che univa gli aumenti di produttività alla riduzione delle ore lavorative. Il problema è l’unità del mondo del lavoro: l’autrice stigmatizza gli sforzi da lungo tempo intrapresi per montare una parte del paese contro l’altra, dichiarata vergognosamente privilegiata (statali, funzionari di base) senza mai prendere in considerazione quelli che privilegiati lo sono davvro ‘~, ma trascura il fatto che l’allinearsi degli schieramenti politici su due sponde alternative rispetto ai problemi socioeconomici è il modo che i veri privilegiati utilizzano per impedire l’unità dei lavoratori. E naturalmente nessuna delle due fazioni liberali — socialdemocratica o liberista — oggi dominanti ha mai affrontato organicamente le contraddizioni interne al mondo produttivo: i lavoratori dipendenti dei settori esposti alla concorrenza internazionale fronteggiano il doppio pericolo di una remunerazione non allineata all’inflazione a causa dei margini di profitto decrescenti e dei rischi di licenziamento in caso di crisi aziendale. Gli addetti del settore pubblico, coperti da questi rischi e favoriti da un maggiore potere contrattuale, godono indubbiamente di una posizione di privilegio relativo; tuttavia nessuno ha mai proposto di ancorare le retribuzioni di questo personale anche a requisiti oggettivamente meritocratici e di utilizzare il risparmio di risorse così ottenuto per finanziare un fondo a tutela dei rischi sopportati dai dipendenti del settore privato, in specie quelli delle piccole e medie imprese.
Nel libro sono posti in evidenza due dati molto importanti: il peso massmediale e politico assunto dai mercati finanziari e la moda dilagante del modello anglosassone di capitalismo. Sul primo punto la Forrester associa all’impotenza del potere politico, ripiegatosi su un ruolo meramente demagogico e incapace di incidere in modo sostanziale, la potenza dei mercati borsistici erroneamente concepiti come « alveare delle forze vive, sulle quali si appoggiano, in mancanza delle nazioni, i loro governi ». L’illusione e la contraddizione creata dal fulgore dei mercati finanziari, che in molti paesi hanno raggiunto il vertice delle quotazioni proprio in coincidenza con l’avvento al potere di una sinistra liberal molto legata agli interessi del capitale finanziario, sono sotto gli occhi di tutti: euforia dei mercati non significa miglioramento dell’economia reale; anzi. spesso all’espansione dei corsi di mercato, dovuti in gran parte a un calo strutturale dei tassi di interesse. si accompagnano una diminuzione generalizzata dei livelli di consumo (deflazione) e un aumento della sperequazione sociale. E proprio il minimo timore di ripresa dell’inflazione causa forti turbolenze sui mercati finanziari: l’annuncio di aumento dei salari o di una diminuzione del tasso di disoccupazione sono, per l’analista finanziario, fattori potenzialmente pericolosi, da monitorare attentamente. La moda del modello anglosassone è invece dovuta alla (presunta) capacità di creare nuova occupazione grazie al maggior dinamismo economico che la flessibilità del lavoro sarebbe in grado di produrre. Se da un lato è arcinoto che questo modello porta a uno sconcertante ampliamento dell’ineguaglianza dei redditi e di conseguenza ad un incremento del grado di allarme e di insicurezza sociale — e qui si ferma l’analisi della Forrester —, dall’altra si comincia a discutere se questo modello sia anche efficiente nel lungo periodo dal punto di vista economico. Basti pensare al costo che comporta tenere in prigione più del 3% della popolazione (Usa) in una società dove il 24% dei giovani vive al di sotto della soglia di povertà.
La Forrester è fermamente convinta che le nuove tecnologie abbiano ridotto la soglia-limite di impiego disponibile, ma non si esprime in merito alla propota, ormai ampiamente dibattuta in tutta Europa, di retribuzione dell’ammontare di lavoro esistente. Una politica del lavoro solidaristica dovrebbe basarsi sull’idea che il lavoro crea lavoro: per esempio, sappiamo che la necessità di servizi personali e sociali aumenta notevolmente quando le famiglie mancano di tempo; il lavoro aggiuntivo della moglie può avere effetti molto significativi sulla domanda di servizi, tenendo conto del fatto che l’impiego nei servizi ad alta intensità di lavoro coinvolge i meno qualificati, più esposti al rischio di disoccupazione: in Italia, solo il 44% delle mogli è occupato. Ma, al di là degli effetti moltiplicativi che può avere l’entrata di alcune fasce della popolazione nel mondo del lavoro, la questione va posta in termini diversi: come è possibile far fronte all’attuale situazione?
L’unica soluzione concreta e capace di un reale impatto nel lungo periodo sembra consistere nel rimettere in discussione il ruolo del lavoro nella vita, e nel domandarsi come interpretare i fenomeni che stiamo vivendo. L’aumento della produttività e del tenore di vita può spingere sempre più lavoratori dipendenti a scegliere di lavorare meno: il dipendente che accetta una riduzione del salario (contenuta entro il 20%) e si impiega a tempo parziale consente al sistema di orientarsi verso la flessibilità interna del lavoro (che richiede continue trattative) e di opporsi alla flessibilità esterna, vale a dire al licenziamento e alla precarizzazione, che rappresentano una soluzione inaccettabile, che riduce gli esseri umani allo stato di semplice merce. Un’evoluzione in tal senso rappresenta un salto culturale di notevole portata, che, dopo due secoli di enfasi produttivistica, consentirebbe di collocare il lavoro in una dimensione più accettabile e di ovviare alla tragedia della sua mancanza. Una prospettiva non colta dalla Forrester, ma ben presente nelle Trenta tesi per la sinistra proposte da Alain Caillé in un testo che, in buona parte, può rappresentare un manifesto per chi aspira a nuove sintesi capaci di dare una risposta alle troppe inaccettabili insufficienze del liberalismo reale.

Livio Dalle


Da “Diorama Letterario”, marzo 1998, pagine 36-37

venerdì 5 dicembre 2008

"I nuovi palazzi? L´Expo?" Tutti regali agli speculatori"

"I nuovi palazzi? L´Expo?" Tutti regali agli speculatori"
RODOLFO SALA
VENERDÌ, 05 DICEMBRE 2008 LA REPUBBLICA - Milano

L´economista Marco Vitale boccia la politica della giunta: l´idea di una dimensione centralizzata non funziona più

C´è un chiaro patto, oltretutto privo di pensiero e strategia se non quella di fare soldi L´Esposizione? Sia uno stimolo
Riportare in città 700mila persone senza pensare ai servizi comuni e ai trasporti sarebbe uno sconquasso

«Vogliono solo dare mano libera agli speculatori. Con questa idea pazza di portare i residenti a Milano a due milioni in pochi anni. E anche con l´Expo, che viene vissuto come un mito, come se le grandi città abbiano bisogno di un evento straordinario per rilanciarsi». Giudizio durissimo, quello dell´economista Marco Vitale, sul nuovo corso imboccato dalla giunta in materia di urbanistica.
Che cosa c´è che non va nel piano dell´assessore Masseroli?
«Il vizio di fondo è la pretesa di disegnare un nuovo profilo di città basato su una dimensione centralizzata che ormai non funziona più. Milano, la Grande Milano, deve essere riprogettata come un´area vasta, con servizi comuni, a partire dai trasporti».
Invece?
«Si pensa semplicemente di riportare entro i confini daziari 700mila persone che negli ultimi decenni sono andate a vivere nell´hinterland. È un´idea sbagliata, se dovesse essere realizzata sarebbe uno sconquasso: per Milano e per i Comuni limitrofi. E lo sa perché?».
Lo dica.
«I signori che amministrano Milano non si sono neppure posti il problema di aprire un confronto con i sindaci di questi Comuni, dove abitano coloro che si pretende di trasferire. È una logica di autosufficienza fuori dal tempo. Ma al di là delle chiacchiere, i propositi della giunta sono chiarissimi: aumentare in modo generalizzato gli indici di edificabilità, mandando un segnale preciso ai costruttori».
Quale messaggio?
«Mano libera, si può fare quello che si vuole. Lo so anch´io che ci sono casi in cui un´alta edificabilità è non solo ammissibile, ma anche auspicabile. Per esempio: di fronte a un progetto serio finalizzato ad attrarre in città giovani e studenti, non ci sarebbe nulla da eccepire. Ma qui si parla di aumentare gli indici in modo discriminato, e in totale assenza di progetti. Questi mi ricordano Ceausescu».
Che cosa c´entra il dittatore comunista romeno?
«Anche lui voleva trasferire per decreto i suoi concittadini da un posto all´altro. Con le buone, ma soprattutto con le cattive».
Che cosa ne deduce?
«Che tra chi amministra Milano e gli speculatori è stato stretto un patto. Oltretutto privo di pensiero e di strategia, se non quella di fare soldi».
L´altra notte il consiglio comunale ha approvato un emendamento di Forza Italia che porta da 0,30 a 1 l´indice di edificabilità per le aree con vincolo decaduto fino a 10mila metri quadri, e che prescrive di riservare il 50 per cento dei nuovi insediamenti a edilizia convenzionata. Che ne pensa?
«È giusto alzare gli indici per costruire case riservate ai meno abbienti. Ma per perseguire questo obiettivo ci vuole un progetto serio e complessivo, che allo stato manca. Ho l´impressione che questa cosa serva solo per dare completa mano libera su tutto il resto».
Si sostiene che la Milano con due milioni di abitanti è pensata nella prospettiva dell´Expo.
«Un serio piano urbanistico va sganciato dall´Expo. Certo, bisogna tenerne conto, ma così è un grande imbroglio».
Perché?
«Bisogna dotarsi di un piano urbanistico perché la città ha un sacco di problemi e non perché ci sarà l´Expo. È un segno di debolezza pensare che il rilancio possa essere perseguito e garantito solo grazie a eventi straordinari. Su questo bisognerebbe aprire un ampio dibattito, ma è impossibile, perché questi fanno solo intimidazioni».
Il 2015 come pretesto per favorire l´assalto del partito del mattone?
«L´Expo non è più una manifestazione di grande rilievo, com´era fino a metà del Novecento. Ora interessa fondamentalmente i costruttori, gli speculatori immobiliari e poco altro».
Una cosa inutile e dannosa?
«No. Resta comunque un evento significativo, che può funzionare come stimolo e collante di cose comunque giuste da fare. Ma ciò si verifica solo se l´evento straordinario si inserisce in una strategia preesistente, alla quale dà consistenza e prospettiva. Non se Milano si siede in attesa di Godot».
Non è questo il caso?
«L´assenza di progettualità, il deplorevole livello della nostra amministrazione comunale, il predominio assunto da specifici centri di potere economico fanno correre il rischio che l´Expo si traduca addirittura in un danno per la città».

martedì 2 dicembre 2008

TOSCANA - Vino e ciminiere: a chi piace la nuova faccia del Chianti?

TOSCANA - Vino e ciminiere: a chi piace la nuova faccia del Chianti?
S.CAS.
L'Unità 02/12/2008

Un polo industriale completo di inceneritore, gassificatore, centrale elettrica e cementificio sorgerà nella valle della Greve. Chi fatica a immaginarsi le ciminiere nel mezzo del Chianti, concorderà con la portavoce del Coordinamento delle associazioni ambientaliste Lucia Carlesi, che definisce tale industrializzazione «incompatibile con le caratteristiche ambientali, paesistiche ed economiche del territorio». Opinione, denuncia Carlesi, non condivisa dalle amministrazioni locali, che lo scorso 29 settembre hanno votato la variante del Regolamento urbanistico, che spiana la strada al progetto di Sacci spa, titolare del già esistente cementificio e promotore della nuova centrale elettrica. Il coordinamento chiede l’azzeramento di tale procedura e l’avvio di indagini ambientali e sanitarie. Allo stesso tempo si fa promotore di due proposte per la riqualificazione dell’area: il parco fluviale di fondovalle e l’avvio della raccolta differenziata «porta a porta», misura contro l’emergenza rifiuti «più efficiente, sicura e conveniente dell’incenerimento». Sul fronte politico, il Coordinamento ha ricevuto l’appoggio di Luca Ragazzo, capogruppo dei Verdi in Provincia, che ha presentato un’interrogazione in materia e del senatore Francesco Pardi(Idv), che si è impegnato a portare la questione in Senato. «Ma se non arrivassero risposte esaurienti - annuncia Carlesi - siamo pronti a ricorrere alla Magistratura».

TOSCANA - I PADRONI DEL TERRITORIO

TOSCANA - I PADRONI DEL TERRITORIO
Alessandro Antichi*
Il Tirreno 02/12/2008

La Toscana ha bisogno di guardare oltre scempi come Monticchiello, saccheggi di territorio stile CampiBisenzio, inchieste giudiziarie come questa ultima su Castello. C'è la necessità di una svolta, di fronte al fallimento storico del governo del territorio in Toscana. Icittadin i hanno la grande opportunità, nella primavera del 2009, di porre fine, con il voto, con la benedizione dell'alternanza, a quella che ho già avuto più volte l'occasione di chiamare la distruzione politicamente pianificata della Toscana.
La bellezza secolare del nostro territorio è minacciata in ogni angolo della Toscana. La "colpa" non è di singoli `privati" ingordi e speculatori, o di qualche singolo amministratore "infedele". Tutto questo è invece il frutto coerente di una cattiva politica, di un sistema di malgoverno, del "regime " della vecchia sinistra toscana.
Gli scempi sono avvenuti, e continueranno ad avvenire se non interviene una discontinuità, sotto la dettatura di una asfissiante pianificazione. Un sistema regolatorio apparentemente ferreo, concepito per fermare ogni iniziativa privata, vista, nella crisi spirituale e culturale dei postcomunisti, come intrinsecamente cattiva. In realtà, proprio perché le sue maglie strette impedivano ogni libera iniziativa privata, questa stessa pianificazione ha costretto proprietari, costruttori, portatori di legittimi interessi, a presentarsi con il cappello in mano davanti ai mandarini della burocrazia degli uffici tecnici e ai loro padrini politici, quei pubblici amministratori diventati assolutamente arbitri del futuro del destino di individui, imprese, proprietà.
Come ho avuto occasione di dire nel Parlamento toscano, il 4 aprile 2007: "Si è realizzata una devastante interposizionefra la società, i cittadini, l'economia, da una parte, e i poteri locali, una oligarchia padrona del territorio, unica autorizzata a venderlo o a svenderlo".
E' stato un tempo oscuro, in cui gli unici autorizzati a costruire, sempre troppo e sempre male, sono stati solo gli "amici degli amici", gli ammanicati" gli appartenenti a un sistema di potere.
All'opinione pubblica toscana che cerca una alternativa, non ci presentiamo solo con degli auspici, ma forti difatti ed esperienze. Abbiamo alle spalle anni di opposizione costruttiva e assertiva nel Parlamento regionale, ormai, ma soprattutto vantiamo delle esperienze di buona amministrazione. Fra le quali mi sia consentito ricordare quella da me guidata, sotto la quale ha visto la luce il Piano strutturale di Grosseto, che ha trovato qualche riconoscimento al di là dei confini locali (è stato pubblicato sulla rivista Urbanistica, n. 133).
La sfida che abbiamo di fronte è il ritorno di una sana competizione, in un quadro di normative più chiare, più leggibili, più accessibili a tutta l'opinione pubblica e non solo agli addetti ai lavori. Non deve più essere la decisione politica a dare valore al terreno o al fabbricato. La ricchezza deve essere creata dalla competizionefra progetti. Ci deve essere concreta perequazione urbanistica, principio purtroppo ancora sconosciuto alla molto supponente ma piuttosto ignorante nomenklatura toscana. Ogni singola opera, ben costruita e armonicamente inserita nel suo contesto, può e deve aumentare anche il valore delle vicine proprietà. Unprincipio semplice, ma purtroppo sconosciuto alla vecchia sinistra toscana, che infatti ha lasciato che interi borghi e quartieri si riempissero di mostruosità edilizie, si ingolfassero, diventassero invivibili, conducendo tanti immobili alla perdita di valore sul mercato e alla rovina tante famiglie.

* Consigliere regionale e responsabile regionale Enti Locali di Forza Italia Toscana, verso il PdL

venerdì 28 novembre 2008

Inaccettabile un ex mister MCDonald's alla cultura

Inaccettabile un ex mister MCDonald's alla cultura
Viviana Devoto
E-Polis Milano 27/11/2008

Un ex manager McDonald`s alla guida dei musei italiani nominato dal ministro della Cultura allo scopo di «salvaguardare il patrimonio artistico».
«Non conosco Mario Resca e non so chi abbia spinto per questa nomina. Dico solo che certe competenze non siano interscambiabili. Se domani mi offrissero la poltrona da governatore della Banca d`Italia la rifiuterei, nonostante un cospicuo stipendio sotto gli occhi. Sono un storico dell`arte».
Salvatore Settis, presidente del consiglio nazionale dei beni
culturali e direttore della Normale di Pisa, non ama i guizzi mediatici, ma le sue parole contro il futuro super-manager nominato da Bondi nella bozza di una proposta di legge che mira a rivoluzionare il sistema museale hanno acceso lo scontro prima che sulle poltrone, sulle competenze («come può uno che si è occupato di cheeseburger gestire l`intero patrimonio museale italiano?»). A Milano per presentare il libro (edito in Italia da Skira) La crisi dei musei di Jean Clair, ex direttore del Musée Picasso e della Biennale di Venezia del Centenario, ha aperto una discussione sul ruolo dell`arte in Europa e in Italia.
II ministro Bondi definisce Mario Resca «uno dei più affermati manageritaliani».
Sul tavolo c`era anche il nome del direttore dei Musei vaticani Antonio Paolucci. Non credo che debba essere un manager a gestire il patrimonio artistico italiano.
Quello che si contesta non è solo la scelta del nome ma l`intera proposta di legge: quali sono le competenze del manager? E le funzioni del ministro? Si parla di prestiti. Con quali criteri verranno fatte delle concessioni? Ma la mia domanda è: potrebbe mai un ex direttore dei musei vaticani occuparsi di McDonald`s?
Considera "allarmante" il fatto che nemmeno uno dei musei italiani figuri nella lista dei dieci più visitati al mondo?
Se concepiamo l`istituzione museo come una qualunque altra azienda potremo pensare di chiudere anche le scuole, è una mia proposta, anche se a quello già ci stiamo arrivando. Il punto è che un museo non deve essere "redditizio". Il numero non è ciò che dà spessore alla cultura.
Un team di sovrintendenze e di tecnici del ministero dovrebbe affiancare Resca.
Questa è stata una delle assicurazioni del ministro, soltanto verbali. Non sono contenute nel decreto legge: per questa ragione in rappresentanza del consiglio nazionale dei beni culturali abbiamo rifiutato labozza. La figura del super-manager è delineata in un ruolo così ambiguo da non lasciare margini di ragionamento. Che Bondi ripensi all`intero decreto.
Quale dovrebbeessere il ruolo dei musei in Italia?
Io credo che i musei, i luoghi d`arte debbano dialogare con la città. Dovremmo pensare aquesti spazi come a nodi urbani, l`Italia non è un museo: è un luogo vivo. Non pensare all`arte solo per la "tutela": i musei non devono essere trasformati in cimiteri delle opere né come miniere di petrolio, assoggettati a una continua rincorsa al denaro. Bisognerebbe che si investisse in modo da trasformare i luoghi dell`arte come luoghi di coscienza del cittadini, altrimenti tutto è perduto.
Prospettive? La priorità dovrebbe essere quella di investire sull`interesse, quindi sui servizi, come ad esempio nei tanti piccoli musei diffusi sul territorio, autentica ricchezza culturale del nostro Paese. Francia e Italia hanno entrambe una responsabilità perché entrambe hanno contribuito a costruire il concetto di patrimonio culturale.
Questa legge ritorna a un vecchio concetto di tutela che non aveva alcuna normativa: lo ripeto non trasformiamo i nostri musei in un luogo di morti dell`arte, mettendo tutto sotto una teca.
Ha pensato di dimettersi?
Non è tra le mie intenzioni. A luglio avevo presentato sulle colonne del Sole 24 ore i dati sulla crisi museale. Ci fu una bufera, adesso non oso fare previsioni. Resca ha detto che il Louvre ad Abu Dhabi è un suo modello. I musei americani
a volte già vendono le loro opere chiamandola de-accessione. È unafase in cui tende acadere quel principio di dicotomia tra opere in venditae opere museali.

martedì 25 novembre 2008

Emergenza Gaza Nella Striscia civili allo stremo. La denuncia delle organizzazioni umanitarie

l’Unità 25.11.08
Emergenza Gaza Nella Striscia civili allo stremo. La denuncia delle organizzazioni umanitarie
Cisgiordania murata. La regione ridotta in tanti ghetti. Il mondo assiste impotente
Il dramma dei palestinesi assediati, divisi e senza Stato
di Unberto De Giovannangeli

Il 29 novembre l’Onu ha indetto la Giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. L’Unità dà voce a un popolo senza diritti, raccontandone speranze e tragedie. Partendo dall’assedio di Gaza.
Una nazione senza Stato. Un popolo tradito dalle sue leadership, abbandonato dai «fratelli» arabi, assediato (a Gaza) e costretto a vivere nei tanti ghetti a cui è stata ridotta la Cisgiordania. È la Palestina oggi. Il dramma di un popolo si consuma nell’impotenza manifesta della comunità internazionale e in uno scontro di potere interno che rischia di trasformarsi in una devastante guerra civile. Il 29 novembre l’Onu celebra la giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. Solidarietà è anche mantenere viva l’attenzione su un dramma in atto. Il dramma degli «ingabbiati» di Gaza e dei «murati» della Cisgiordania.
LA GABBIA DI GAZA
È l’emergenza tra le emergenze. I pressanti inviti delle Nazioni Unite hanno spinto Israele a riaprire parzialmente la frontiera con la zona controllata da Hamas per permettere il passaggio dei beni di prima necessità. Di fronte all’aggravarsi della crisi umanitaria, il governo di Gerusalemme ha concordato il lasciapassare per un numero limitato di convogli. Dal 4 novembre, quando un’incursione di Tsahal nel territorio aveva provocato una ripresa degli attacchi di Hamas, è la seconda volta che le autorità israeliane hanno permesso la revoca del blocco. Una misura, però, giudicata troppo timida e quasi inutile dagli organismi che operano nella zona. Una quarantina di camion di alimenti, «non sono sufficienti», lamenta Christofer Gunness, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati della Palestina (Unrwa).
«Come animali in gabbia». Così si descrivono gli abitanti della Striscia di Gaza: senza corrente elettrica, senza scorte alimentari, senza latte per i propri figli. Voci da Gaza. Racconti disperati. Richieste di aiuto che non devono cadere nel vuoto. «Non ne possiamo più, mi sembra di essere un animale in gabbia», afferma Khalil Barakat, 50 anni, che vive nella colonia di Al Shati. «Ho paura per la vita di mio figlio, ha solo 11 mesi», riferisce Intizar, una giovane mamma, «siamo senza corrente elettrica e giro tutto il giorno per trovare del cibo per il mio bambino. Sono stata in alcuni negozi e non ho trovato nulla, tutto deserto». La donna racconta che è diventato impossibile trovare alcuni prodotti «come il latte, la carne, i pannolini...».
LA TESTIMONIANZA DI AMIRA
A Gaza è tornata anche Amira Hass, corrispondente del quotidiano israeliano «Haaretz» nei Territori. Amira aveva vissuto a Gaza negli anni Novanta. «In primo luogo mi ha colpito la miseria», dice la reporter. «Rispetto al passato - annota Amira Hass - la povertà mi fa impressione». «Le misure che aggravano le sofferenze della popolazione civile della Striscia di Gaza sono inaccettabili e devono cessare immediatamente», dichiara sottosegretario generale dell’Onu John Holmes.
GAZA O HAMASLAND?
Assediati da Israele, il milione e mezzo di palestinesi della Striscia fanno i conti con le conseguenze, disastrose, della resa dei conti armata tra Hamas e Al Fatah. È l’altra faccia della tragedia palestinese: quella di uno scontro politico-militare che non ha fine. Da Ramallah, parla il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Il rais insiste sulla necessità di difendere la unità del popolo palestinese di fronte ai «golpisti di Gaza», cioè Hamas. Se costoro pensano di poter decidere per il popolo intero, esclama con foga, «si illudono,si illudono, si illudono». Dopo aver espugnato con la forza (nel giugno 2007) comandi centrali, commissariati e campi profughi essi vorrebbero ora «creare un regime separatista nella nostra amata Gaza» lamenta Abu Mazen.
«È lui il golpista, succube di Israele», ribatte Mahmud al Zahar, leader dei «duri» di Hamas.

lunedì 17 novembre 2008

Scontro Londra-Israele sui prodotti dei coloni. Gli inglesi vogliono etichettarli come «illegali»

Corriere della Sera 16.11.08
Scontro Londra-Israele sui prodotti dei coloni. Gli inglesi vogliono etichettarli come «illegali»
E' già pronta una campagna pubblicitaria simile a quella contro l'apartheid del Sudafrica bianco
di Francesco Battistini

GERUSALEMME — Barzelletta del mercato: «Le olive più economiche le trovi il venerdì pomeriggio a Mahane Yehuda, alle bancarelle degli ebrei; le più buone, il sabato mattina alla Porta di Damasco, alle bancarelle degli arabi; le più ammaccate, tutto l'anno nei supermarket di mezza Europa». Ammaccate. Perché sono le olive dei Territori. Raccolte a suon di botte fra coloni israeliani e contadini palestinesi. I primi impegnati da settimane, e senza complimenti, a impedire il lavoro dei secondi. Queste olive, come gran parte della frutta e della verdura della Cisgiordania, sono fra le poche fonti di guadagno dei palestinesi. Da anni, finiscono sui banconi inglesi, tedeschi, francesi con l'etichetta «prodotto nella West Bank» e l'indicazione della località. Ora qualcuno, nello specifico il governo di Londra, pensa che l'etichetta non basti più. E quelle ammaccature vadano spiegate meglio, distinguendo i «veri » prodotti palestinesi da quelli degl'insediamenti israeliani. E in quest'ultimo caso, informare i consumatori con scritte politicamente più corrette. Tipo: «Attenzione, il prodotto viene da territori occupati illegalmente da Israele ».
C'è poco da ridere. La guerra delle olive e delle etichette sta inacidendo i rapporti fra governi. Qualche giorno fa Tzipi Livni, la ministra degli Esteri, ha chiesto chiarimenti, perché l'idea di marcare l'ortofrutta degli insediamenti avrebbe incontrato il favore del premier in persona, Gordon Brown, e a Londra si sta studiando una legge con le ong, le associazioni dei commercianti e dei consumatori, tutti d'accordo nel boicottare i prodotti «made in the settlements». E' già pronta una campagna pubblicitaria, simile a quella contro l'apartheid, quando l'opinione pubblica inglese veniva diffidata dall'acquistare esportazioni del Sudafrica bianco. «L'iniziativa è un serio e concreto problema nelle relazioni fra i due Paesi — dice un diplomatico israeliano a Haaretz — e può determinare anche una crisi».
Ron Prosor, ambasciatore negli Stati Uniti, ha approfittato d'un incontro col ministro degli Esteri inglese, David Miliband, per protestare: etichettare in quel modo la produzione agricola dei coloni equivale a un boicottaggio contro Israele e un tentativo d'influenzarne la politica. «Per ora siamo solo a una proposta della sinistra inglese — si giustifica una fonte diplomatica britannica — ed è comunque una misura di maggiore trasparenza che può tornare utile anche al governo israeliano». La posizione di Downing Street è precisa: l'Onu e la Ue hanno stabilito che gli insediamenti sono illegali, le importazioni da Israele godono dal 2000 di dazii privilegiati, ergo i nostri consumatori non possono accettare che i loro soldi vadano a legittimare l'occupazione dei Territori.
L'etichetta sarebbe qualcosa di più d'un regime fiscale differenziato. «E perché non hanno mai messo quella scritta sulle importazioni da tutti i Paesi che non rispettano le risoluzioni Onu?», protestano i diplomatici israeliani: «E' stato Ehud Olmert, nel 2005 ministro del Commercio, a introdurre sui prodotti dalla Cisgiordania l'obbligo d'indicare città, villaggio, zona industriale».
Non basta, replicano gli inglesi: la semplice scritta «prodotto a Masua» o a Netiv Hagdid non spiega con esattezza che quella verdura, quel frutto vengono da un insediamento illegale. E Londra, come gran parte della comunità internazionale, è convinta che non si stia facendo più nulla per smantellare le colonie, nonostante Shimon Peres abbia condannato la settimana scorsa le aggressioni ai palestinesi nella raccolta delle olive e il governo israeliano, due settimane fa, abbia minacciato la mano pesante coi coloni. «Abbiamo sopportato la guerra delle rose, non ci spaventa quella degli ortaggi », è l'ironia british.
Anche perché le olive sono solo l'antipasto. Altre, le questioni aperte fra i due Paesi: dalle pesanti accuse di crimini di guerra al ministro Shaul Mofaz, rimbalzate qualche mese fa, al discusso ruolo di Tony Blair inviato nel Medio Oriente. Pochi giorni, e Miliband arriva a Gerusalemme. Tzipi l'aspetta. Spremi spremi, qualcosa uscirà.

venerdì 14 novembre 2008

Usa, ne uccide più l’overdose di farmaci che di droghe

l’Unità 13.11.08
Usa, ne uccide più l’overdose di farmaci che di droghe
di Roberto Rezzo

Ne uccide più la ricetta dello spacciatore di strada. Uno studio appena pubblicato rivela che le morti per abuso di medicinali venduti in farmacia hanno superato alla grande quelle dovute a droghe illegali.
Secondo uno studio della Medical Examiner Commission della Florida dall'analisi di 168.900 autopsie risulta che le specialità che agiscono sul sistema nervoso centrale - regolarmente registrate a prontuario - hanno provocato tre volte il numero dei decessi causati da cocaina, eroina e anfetamine messe insieme. «L'abuso ha raggiunto proporzioni epidemiche - assicura Lisa McElhaney, sergente di polizia specializzata nel settore - È come un'esplosione».
Nel 2007, l'abuso di cocaina ha provocato 843 decessi, quello di eroina 121, anfetamine 25, zero per marijuana, per un totale di 989 morti. Nello stesso periodo 2.328 persone sono state uccise da antidolorifici come Vicodin e Oxycontin e 743 da ansiolitici come Valium e Xanax, per un totale di 3.071 morti. L'alcol risulta essere stata la causa di morte in 466 casi, ma la sua presenza è stata identificata in 4.179 cadaveri. E mentre rispetto al 2006 le morti per eroina sono aumentate del 14%, quelle per antidolorifici venduti in farmacia hanno registrato un balzo del 36 per cento.
La Florida è considerata all'avanguardia nelle statistiche sulle morti per droga. Il boom edilizio di Miami all'inizio degli anni '80 è stato finanziato dal narcotraffico. Facendo guadagnare alla città il soprannome di Regina della coca. Dal suo porto transita la maggior parte delle 300 tonnellate di coca che - secondo le ultime stime Onu - vengono utilizzate ogni anno negli Usa. Circa la metà dell'intero consumo mondiale. Questo studio conferma i dati pubblicati in un precedente rapporto della Drug Enforcement Agency (Dea) a Washington. Negli ultimi sei anni il numero di persone che abusa di ansiolitici e antidolorifici è aumentato dell'80% raggiungendo i 7 milioni. Sono molti più di quelli che abusano di coca, eroina e anfetamine di contrabbando messi insieme. E secondo i dati pubblicati da Drug Abuse Warning Network, il numero di ricoveri per overdose da oppiacei semi sintetici come l'Oxycontin sono aumentati negli ultimi 10 anni del 153%, mentre quelli in seguito da assunzione eccessiva di metadone del 390%.
La tendenza dei medici a prescrivere liberamente farmaci che dovrebbero essere usati in casi eccezionali e per un periodo limitato di tempo si spiega almeno in parte con le pressioni esercitate dall'industria farmaceutica. Negli Stati Uniti tutte le sostanze prescrivibili possono essere pubblicizzate. La spesa promozionale per una singola specialità come l'Oxycontin è triplicata dal 1996 e il 2001, per stabilizzarsi attorno ai 30 milioni di dollari l'anno. Eddie Howard, farmacista di Sonora in California, senza bisogno di leggere nessun rapporto, si era accorto da un pezzo dell'aumento di questo tipo di ricette. E ammette di provare un certo disagio: «A volte ho l'impressione di essere diventato uno spacciatore a norma di legge».
Quanto all'idea che una sostanza acquistata in farmacia sia per forza più sicura - anche per sballare - si tratta di un mito da sfatare. Gli esperti spiegano che il problema sta proprio nella forma con cui viene commercializzato il principio attivo. In genere queste sostanze sono micro incapsulate in un involucro gastroresistente o miscelate ad altri ingredienti con un procedimento industriale per ritardarne l'assorbimento nell'organismo. E assicurare un'attività prolungata nel tempo che consente di ridurre il numero di pastiglie da inghiottire. Ma chi di queste sostanze fa un uso ricreativo, per ottenere subito l'effetto desiderato, deve assumere una dose eccessiva che finisce per rimanere in concentrazione stabile per un periodo sino a 24 ore. Rimanendo così vittima di una specie di overdose a catena.

martedì 11 novembre 2008

Casale, soldi per dimenticare i morti dell'amianto

Casale, soldi per dimenticare i morti dell'amianto

Liberazione del 11 novembre 2008, pag. 4

di Claudio Jampaglia
«Ce n'è di gente, eh...». Tanti come sempre. Stipati in una sala senza più ossigeno per parlare di un fantasma. Della morte. Dell'amianto. Di 1600 vittime accertate dal 1965 per asbestosi, tumore polmonare, mesotelioma pleurico. 1600 morti certe, moltissime ancora da catalogare e tanta gente che si ammala ogni anno, che ha paura. Oggi questa gente segnata da 50 anni di relazione con la fibra killer che dava lavoro, veniva regalata per isolare i tetti, per farsi i vialetti del giardino, deve decidere. Sulla bilancia c'è il processo più importante della storia delle vittime della fibra killer in Europa, da un lato, e il denaro, poco e dannato, che uno degli uomini sul banco degli accusati ha proposto per i lavoratori della sua ex-fabbrica l'Eternit, dall'altro.
Valeria ha 22 anni, la settimana scorsa si è laureata. Era contenta ma non ha potuto condividere con chi avrebbe più voluto la sua gioia. Suo padre. Di cui non ha ricordi. Solo una gigantografia in camera. Papà è morto a 33 anni. Di mesotelioma, quando ancora quella parola non era nelle teste di tutti. Quando Valeria è nata l'Eternit chiudeva. E oggi la polvere della fabbrica non riempie più l'aria. E' stata abbattuta. Ma Casale è costretta a confrontarsi tutti i giorni col suo fantasma. Perché l'amianto è un killer a tempo. Implacabile e casuale. Incubazione: 20-40 anni. Decorso: sei-otto mesi. Esito unico: morte. Un tumore maledetto. Non si è ancora salvato nessuno. Cure non ce ne sono. "Malattia professionale", si ammala solo chi ha respirato la fibra killer, riguardava troppe poche persone per investirci. Ma da anni un malato su quattro è un cittadino e basta. E'chi ha vissuto in mezzo all'aria, alla polvere. Le stime di Medicina Democratica parlano di 4mila morti all'anno per malattie legate all'esposizione. E la curva epidemiologica raggiungerà il suo apice nel 2025.
Il salone ribolle come una pentola di fagioli. Si discute. Scettici. Non c'è una famiglia a Casale che non abbia una vittima. «Non cediamo all'illusione, è una fregatura. Dobbiamo avere ancora poca pazienza», dice un altro. «E poi io che ho l'asbestosi - dice un signore sulla sessantina - se adesso prendo i soldi e domani mi ammalo di mesotelioma non posso più rivendicare nulla». Ha ragione. Purtroppo. Ma l'offerta del signor amianto, Stephan Schmidheiny (miliardario, vive in Costa Rica ed è un noto esperto di sostenibilità ambientale e non è un'ironia), è fatta così. «Un'offerta unilaterale che loro definiscono "filantropica"», spiega Bruno Pesce, il capostipite di questa gente testarda. Già segretario della Cgil locale e animatore da 26 anni con Nicola Pondarno e Romana Blasotti dell'Associazione famiglie esposti amianto. «All'inizio ci aveva proposto una transazione collettiva», ricorda Pesce. Ma nel gennaio scorso, dopo aver messo sul tavolo 75 milioni di euro è arrivato il conto ai casalesi: rinunciare collettivamente a qualsiasi pretesa legale in ogni grado e luogo. L'assemblea cittadina la definì «una provocazione». Anche perché loro con le cause sono riusciti in 25 anni a portare il tema alla ribalta. A riconoscere l'esposizione, la morte, a risarcire 1711 ex lavoratori e loro familiari (con pene dai 6 mesi ai tre anni per i vertici aziendali e un risarcimento di 7 miliardi di lire). E adesso in ballo c'è molto di più.
Dal 2001 la procura di Torino si interessa alle vittime Eternit grazie a oltre 2mila richieste di risarcimento. Il procuratore si chiama Raffaele Guariniello e ha chiesto il rinvio a giudizio per Schmidheiny e il precedente azionista di controllo (un barone belga da sempre socio della famiglia) per disastro doloso e inosservanza volontaria delle misure di sicurezza, con l'aggravante della morte. Profondo penale. Al rinvio a processo manca ancora un po'. Il giudice deve avvisare le quasi 3mila parti lese. E allora la difesa passa all'attacco. Via comunicato stampa. Fino a 60mila euro ai lavoratori Eternit (e solo a loro) in fabbrica dal 1973 (anno dal quale Schmidheiny si assume evidentemente la responsabilità della direzione aziendale). Il massimo per un morto, in proporzione per la "sola" malattia, la metà se lavorava anche prima del 1973 nell'azienda, il 20% se la vittima di tumore polmonare era un fumatore. Tutta la documentazione a carico di chi ci accetta i soldi. Radiografie, pirometrie, esami istologici compresi. Anche se molti morti del passato non potranno esibirli (non si facevano). In cambio cosa vuole Schmidheiny? Sempre lo stesso. Niente causa. Niente parte civile. Chiusa la vicenda.
E' il modo per separare le vittime. Poi che il signor Schmidheiny paghi davvero lo deciderà lui. E qui arriva l'ultima e più subdola polpetta avvelenata della storia. Perché Schmidheiny chiede che sia l'Associazione delle vittime a gestire con lui le pratiche di chi chiederebbe i soldi. Uno smacco. Che ha fatto sudare sangue freddo a Pesce, Pondrano, Blasotti e a tutta l'associazione. Di questo si è discusso ieri. Con tantissimi saluti e interventi istituzionali di sostegno, con la testimonianza dell'Associazione francese vittime amianto, i rappresentanti di altre vertenze italiane (Reggio Emilia, Bagnoli) e un lungo applauso con tutta la sala in piedi per lo striscione delle Rsu della Thyssenkrupp di Torino.
Parla il figlio di Niels Liedholm, trasferito qua 30 anni orsono col padre. Terra e vigne. Ha appena perso la moglie di mesotelioma. Non era una lavoratrice Eternit e dice: «Non accettate che dividano i lavoratori dai cittadini. Non cedete. Non è giusto». Le voci sono più o meno queste. Ma chi ha bisogno?
«Se qualcuno vuole aderire daremo la copertura legale», spiega Pesce. Sindacati e Associazioni si caricheramnno pure questa. E chi firma con lo svizzero, sarà chiamato a costituirsi almeno parte civile con il barone belga. La tutela per l'associazione è di tutti. Comunque. Sergio Bonetto, da vent'anni avvocato dell'associazione lo dice calorosamente «non intendiamo fermarci finché ci sarà la possibilità di fare qualcosa, per la giustizia e per i risarcimenti». E adesso ci siamo quasi. «Siete liberi di decidere ciò che meglio sentite. Ma siamo arrivati qua solo grazie al lavoro dell'associazione. Facciamo in modo di non disunirci, di lavorare con l'associazione». La proposta crea confusione. Divide. Ma se qualcuno vuole accettarla individualmente avvocati e associazione sono lì. Ora è il momento delle scelte collettive. Si vota per alzata di mano: non aderiamo alla loro richiesta di cogestire le domande di risarcimento. Unanimità. Impegno a mantenere rapporto con sindacati e associazioni nelle decisioni.Unanimità.
Si accendono le fiaccole. Ci si incolonna, i bambini, i nonni, in un fiume di gente. Un marcia silenziosa, con gli striscioni che dicono "Eternit, fermiamo la strage" e "Giustizia, ricerca, bonifica". Sono i tre obiettivi della lotta. Uniti si è vinta la bonifica, Casale è un esempio internazionale. Si è vinta l'apertura di un centro ricerca sul mesotelioma legato all'esperienza ventennale dell'ospedale locale. Da poco c'è anche una legge regionale - fortemente seguita e voluta da Alberto D'Ambrogio, consigliere Prc, casalese e vittima a sua volta (il padre) - che impone prevenzione, bonifica, registro degli esposti anche civili, finanziamenti per la ricerca. E per la giustizia? Si deve camminare ancora. Uniti.