sabato 31 maggio 2008

Ponte sullo Stretto, fermiamo un progetto inutile

SICILIA - Ponte sullo Stretto, fermiamo un progetto inutile
Anna Donati *
30 maggio 2008, il manifesto

Tutti i principali quotidiani hanno riportato la notizia che il Ministro per le infrastrutture e i trasporti Altiero Matteoli ha scritto una lettera alla società Stretto di Messina per invitarla a far ripartire il progetto per realizzare il ponte sospeso nell'area dello Stretto. Riavvio scontato perché il governo Berlusconi ha fatto da sempre del Ponte di Messina l'opera simbolo delle proprie politiche infrastrutturali e in campagna elettorale ha promesso a ogni comizio che se fosse tornato al governo avrebbe realizzato subito l'opera sospesa dal governo Prodi. Detto fatto, l'opera riparte.
Ma deve anche ripartire il coordinamento degli ambientalisti, degli esperti, delle forze politiche, dei movimenti sul territorio, delle istituzioni locali per una battaglia rigorosa e di civiltà contro un progetto inutile e devastante che costerà oltre sei miliardi di soldi dei cittadini italiani.
Non riusciamo a trovare in Italia le risorse per comprare i mille treni per i pendolari e è quindi ancora più scandaloso che qualcuno voglia buttare sei miliardi di risorse pubbliche. Dal 2001 al 2006 abbiamo costituito una rete di azioni insieme alle associazioni ambientaliste Wwf Italia, Legambiente, Italia Nostra, al movimento «No Ponte» e tra «Scilla e Cariddi», ai movimenti sociali, sindacali e no global presenti sul territorio, a una rete di esperti autorevoli. Si era creato anche un forte coordinamento con le forze politiche che hanno sempre contrastato un progetto sbagliato sia in Italia che in Europa, a partire dai Verdi che hanno dedicato a questa battaglia tante energie, e alle istituzioni locali come il comune di Messina, Villa S. Giovanni e la regione Calabria.
Siamo riusciti dalle poche centinaia di persone delle prime assemblee a far crescere un movimento popolare e critico arrivando nel gennaio 2006 a portare in piazza a Messina 20.000 persone.
Da questa energia popolare dobbiamo ripartire. So bene che sono passati due anni, che la nostra sconfitta politica è stata bruciante, ma dobbiamo reagire perché abbiamo argomenti, alternative, buone ragioni e ci sono cittadini e cittadine che hanno voglia di impegnarsi a difesa del loro territorio.
Dobbiamo sottolineare che la priorità è dare l'acqua ai cittadini, riqualificare il territorio e le periferie, rilanciare il turismo e l'agricoltura di qualità, puntare sul trasporto via mare e quello ferroviario per il mezzogiorno d'Italia, dare servizi migliori di traghettamento ai pendolari dello Stretto.
Dovremo anche incalzare il Partito democratico perché sostenga la nostra battaglia coerentemente con la scelta del governo Prodi di sospendere il progetto e con le analoghe promesse della campagna elettorale per la regione siciliana.
Voglio ricordare che il progetto è allo stadio preliminare e era stato approvato con numerose e irrisolte prescrizioni ambientali; il progetto definitivo dovrà essere elaborato dalla società Impregilo e soci e dovrà superare la verifica di ottemperanza ambientale del Ministero per l'ambiente.
E' nota l'opinione del nuovo ministro per l'Ambiente Stefania Prestigiacomo favorevole al Ponte di Messina, ma dipenderà anche dalla qualità della nostra opposizione nel merito dei problemi tecnici e ambientali, dalla vigilanza sul lavoro commissione Via che dovrà dare l'autorizzazione all'opera, la possibilità di far prevalere interessi generali, tutela ambientale e uso intelligente delle risorse pubbliche.Voglio ricordare che in sede europea è aperta una procedura d'infrazione sul progetto per la violazione di alcune direttive in materia di tutela ambientale e biodiversità.
Completamente irrisolto è il piano finanziario: tutti da reperire i sei miliardi di euro che servono per realizzare le opere, un costo destinato a crescere e che è già lievitato a causa dell'incremento del prezzo dell'acciaio di questi anni. E non a caso si parla, e anche il governo chiede, un aggiornamento del piano finanziario, anche perché il progetto non avrà alcun contributo europeo nell'ambito delle reti Ten.
Il governo Prodi aveva destinato 1,4 miliardi di risorse di Fintecna destinate al Ponte per opere utili di Sicilia e Calabria: risorse che oggi Tremonti ha deciso di usare per coprire il costo della cancellazione completa dell'Ici. Come dire che restano senza risorse non solo opere utili già decise in Sicilia e Calabria (ferrovie, metropolitane, difesa del suolo) ma anche il Ponte sullo Stretto.
* resp. Mobilità e infrastutture dei Verdi

venerdì 30 maggio 2008

Chi sta rubando il diritto al cibo

Chi sta rubando il diritto al cibo

Il Manifesto del 30 maggio 2008, pag. 1

di Jean Ziegler

Le cause che hanno scatenato l’attuale crisi della produzione alimentare hanno, per molti versi, generato una violazione del diritto alla nutrizione.



Lo scorso anno, dal febbraio 2007 al febbraio 2008, il prezzo del frumento sul mercato internazionale è cresciuto del 130%, quello del riso del 74%, quello della soia dell’87%, quello del granoturco del 31%. In media, in questo periodo, il prezzo dei prodotti di prima necessità è cresciuto di oltre il 40%. Ci sono tre importanti aspetti preliminari da considerare. Innanzitutto, paesi forti come l’India, la Cina, l’Egitto e altri sono attualmente in grado di fornire alla loro popolazione gli alimenti di primaria necessità, anche se questo non sarà un processo a lungo termine. Ma la maggior parte dei paesi più poveri non ha la stessa capacità. Haiti consuma in genere annualmente 200 mila tonnellate di farina e 320 mila di riso. I1100% della farina consumata è d’importazione, e così il 75% del riso. Tra il gennaio del 2007 e il gennaio del 2008 il prezzo della farina a Haiti è salito dell’83% e quello del riso del 69%. Sei dei nove milioni di haitiani vivono in condizioni di estrema povertà. Molti di loro sono ridotti a cibarsi di focacce impastate col fango.



In seconda analisi, gli accordi per l’esportazione prevedono che circa il 90% dei prodotti di prima necessità siano venduti «free on board» (Fob) - con costi di trasporto a spese dell’acquirente. Alcuni, ma solo una minoranza, vengono venduti «Cost, insurance and freight» (Cif) - con costi di trasporto a carico del venditore. Ciò significa che generalmente si deve aggiungere il costo del trasporto al già altissimo prezzo che i prodotti alimentari hanno raggiunto nel mondo, cosa che peggiora la situazione considerato il prezzo del petrolio. Ad esempio molti paesi dell’Africa occidentale come il Mali, il Senegal e altri, importano fino all’80% dei generi alimentari dall’estero, soprattutto il riso dalla Thailandia e dal Vietnam.



Terzo punto, la tragedia incombente dell’aumento dei prezzi acutizza una tragedia già in atto, quella della fame, che nel 2007 ha ucciso sei milioni di bambini al di sotto dei dieci anni. Mentre parliamo delle cause che determinano la nuova crisi dei prodotti alimentari, una crisi già consolidata continua il suo cammino. Le statistiche della World Bank (Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, o Birs) dicono che 2.200 miliardi di persone vivono in condizioni di estrema povertà e che i costi di nutrizione si prendono l’80-90% del reddito familiare. In Europa la proporzione cambia: solo il 10-15% del reddito viene utilizzato a scopo nutrizionale. La situazione dei poveri, molti dei quali vivono nei centri urbani, è dunque questa: per colpa dell’abnorme aumento dei prezzi, essi stanno via via scivolando nell’abisso della fame.



Quali sono le cause principali delle gravi violazioni dei diritti alla nutrizione conseguenti all’aumento dei prezzi? E qual’è la causa di tale aumento? Una delle principali è la speculazione, che avviene soprattutto alla Chicago commodity stock exchange (Borsa delle materie prime agricole di Chicago), dove vengono stabiliti i prezzi di quasi tutti i prodotti alimentari del mondo. Tra il novembre e il dicembre dello scorso anno il mercato finanziario mondiale è crollato e più di mille miliardi di dollari investiti sono andati in fumo. Di conseguenza la maggioranza dei grandi speculatori, come quelli che investivano in hedge funds, hanno finito per investire in options e futures sui prodotti agricoli grezzi e sui generi di prima necessità.



Nel 2000 il volume commerciale dei prodotti agricoli alle varie Borse ammontava approssimativamente a dieci miliardi di dollari. A maggio del 2008 ha raggiunto i 175 miliardi di dollari. Solo nel mese di gennaio 2008, quando è iniziata questa inversione di tendenza, 3 miliardi di nuovi dollari sono stati investiti alla Chicago commodity stock exchange. Tutti i generi di prima necessità sono per lo più controllati da almeno otto grandi multinazionali. La più grande società che commercia grano è la Cargifi, nel Minnesota, che l’anno scorso controllava il 25% di tutti i cereali prodotti nel mondo. I profitti della Cargill nel primo trimestre del 2007 hanno raggiunto i 553 milioni di dollari. Nel primo trimestre del 2008 sono arrivati a un miliardo e 300 milioni.



E’ difficile calcolare esattamente quanto la speculazione abbia influito sull’aumento dei prezzi. La World Bank fa una stima che si aggira intorno al 37%. Heiner Flassbeck, Direttore della Divisione strategie globalizzazione e sviluppo dell’Unctad (United nations conference on trade and development), sostiene che questa percentuale si possa tranquillamente raddoppiare. La seconda causa dell’esplosione dei prezzi è la massiccia distruzione di prodotti quali cereali e granoturco, finalizzata alla produzione di bioetanolo e biodiesel (agrocarburanti). Solo nello scorso anno gli Stati Uniti d’America hanno incenerito 138 milioni di tonnellate di granoturco, cioè un terzo della raccolta annuale, per trasformarlo in bioetanolo. E la Comunità europea si sta muovendo nella stessa direzione. John Lìpsky, il secondo al vertice del Fondo monetario internazionale, sostiene che l’utilizzo dei prodotti agricoli nella produzione del bioetanolo, in particolar modo il granoturco, sia responsabile dell’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari almeno al 40%.



Ma di questo nefasto aumento non sono certo meno responsabili i programmi di revisione del Fondo monetario mondiale e le politiche della Organizzazione mondiale del commercio. Per molti anni queste organizzazioni hanno dato priorità all’esportazione di prodotti quali cotone, zucchero di canna, caffè, tè, arachidi, e questo ha generato pericolose negligenze di fondo a scapito della «food security», la sicurezza alimentare. Lo scorso anno, ad esempio, il Mali esportava 380mila tonnellate di cotone e importava l’82% dei suoi prodotti alimentari. Questa politica agricola sbagliata imposta ai paesi in via di sviluppo è oggi per gran parte responsabile della, catastrofe, poiché le popolazioni interessate non sono in grado di permettersi gli altissimi costi dei generi alimentari.



Detto questo, è evidente che il Consiglio dei diritti umani dell’Onu può farsi avanti e giocare un ruolo essenziale nella soluzione di un problema tanto grave che negli anni a venire non potrà far altro che peggiorare.



Per risolvere la crisi alcuni suggeriscono le seguenti soluzioni:

1. La speculazione va regolata. L’Unctad sostiene che i prezzi dei prodotti di primaria necessità non debbono essere soggetti alle speculazioni di Borsa, ma che andrebbero stabiliti da accordi internazionali fra paesi produttori e paesi consumatori. Il metodo dell’Unctad di regolare tali accordi attraverso buffer stocks (scorte cuscinetto) e stabex (system for the stabilisation of export, fondo di stabilizzazione dei proventi alle esportazioni a favore dei paesi Africa-Caraibi-Pacifico) potrebbe essere una soluzione. La soluzione complementare è quella di riformare drasticamente le regole dei futures e delle options attraverso norme che permettano di controllare gli abusi più gravi.



2. Un’altra soluzione al problema sta nel vietare in modo assoluto la trasformazione dei prodotti agricoli in biocarburanti. La facilità di movimento concessa al Nord del mondo dall’uso di centinaia di milioni di automobili non si può far scontare alle popolazioni affamate e prive dei più basilare sostentamento solo perché abitano la parte più bassa dello stesso mondo.



3. Le istituzioni di Bretton Woods e l’Organizzazione mondiale per il commercio potrebbero cambiare i parametri della loro politica nell’agricoltura e dare assoluta priorità agli investimenti nei prodotti di prima necessità e nella produzione locale, compresi i sistemi di irrigazione, le infrastrutture, le semenze, i pesticidi eccetera. I lavoratori della terra e i suoi prodotti sono stati trascurati per troppo tempo. La situazione che ha visto gli agricoltori emarginati dai processi di sviluppo e discriminati nei diritti va cambiata al più presto. Le nazioni, le organizzazioni internazionali e le agenzie per lo sviluppo bilaterale devono dare assoluta priorità agli investimenti sui prodotti agricoli primari e sulla produzione locale.



4. C’è poi un problema di coerenza. Molti dei paesi che fanno parte della International covenant on economic, social and cultural rights (Convenzione internazionale dei diritti economici, sociali e culturali) sono anche membri delle istituzioni di Bretton Woods e dell’Organizzazione mondiale per il commercio. Quando i loro rappresentanti votano, nel Consiglio esecutivo del Fondo monetario internazionale e nel Consiglio, governativo della Banca mondiale, dovrebbero dare priorità assoluta ai diritti dell’alimentazione e tenere conto dei predetti suggerimenti. E allo scopo di esaminarli a fondo, sarebbe anche utile che il Consiglio stabilisse di dare un mandato al Consultivo della Commissione.

NOTE

Jean Ziegler è membro della commissione del consiglio consultivo Onu per i diritti umani
Traduzione di Silvana Pedrini

martedì 27 maggio 2008

Aids: Nobel Baltimore, un vaccino efficace? Potrebbe non arrivare mai

Aids: Nobel Baltimore, un vaccino efficace? Potrebbe non arrivare mai
Roma, 15 feb. (Adnkronos Salute) - Potrebbero passare ancora molti anni prima di riuscire a trovare un vaccino efficace e risolutivo contro l'Aids e, forse, non lo si troverà mai. A lanciare l'allarme ieri a Boston, riferisce il quotidiano Guardian, il premio Nobel David Baltimore, uno degli esperti mondiali della malattia.

La complessità della malattia, ha dichiarato lo scienziato all'apertura del convegno annuale dell'American Association for the Advancement of Science di cui è presidente, ci fa pensare che non siamo così vicini ad un vaccino, che sia risolutivo, più di quanto lo fossimo al momento della scoperta del virus, un quarto di secolo fa. Baltimore, biologo del California Institute of Technology, è stato insignito del premio Nobel per la medicina nel 1975 per la scoperta di un enzima, che si è rivelato successivamente essere la chiave per la replicazione del virus Hiv.

Quando l'agente infettivo fu scoperto nei primi anni '80, il mondo scientifico era convinto che la scoperta del vaccino fosse imminente. "In realtà non siamo più vicini di quanto non lo fossimo 25 anni fa". Nel 1986 un team di esperti aveva concluso che data la complessità della patologia, la scoperta di un prodotto efficace richiedeva almeno 10 anni, e aggiunge ora Baltimore, "sono passati venti anni e continuo a pensarlo". L'ultimo dato sconfortante è arrivato l'anno scorso, durante il trial di un prodotto promettente dalla Merck, poi ritirato dal mercato: aumentava, anzichè ostacolarla, l'infezione del virus. Attualmente Baltimore usa una combinazione di terapia genica, cellule staminali e immunologia.

E lo scienziato non risparmia neanche il presidente uscente George Bush. "C'è stato un tentativo di far tacere gli scienziati e un controllo sui contenuti delle relazioni ai convegni medici. Non era mai successo prima. Spero che il tentativo di controllare l'informazione scientifica finisca con l'amministrazione Bush".
15 febbraio 2008

Carter: Israele ha 150 atomiche

l’Unità 27.5.08
Carter: Israele ha 150 atomiche
L’ex presidente Usa ha rotto un tabù fra i vip della politica americana

LONDRA L’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter ha affermato che Israele possiede 150 teste nucleari. La dichiarazione è stata fatta ieri al «Times» di Londra durante una visita al festival letterario di Hay-on-Wye nel Galles.
Sono in molti a ritenere che Israele possieda un arsenale mìnucleare, alcuni esperti ritengono che abbia tra le cento e le ducento testate atomiche, ma Israele non ha mai confermato. Dalle frasi riportate dal giornale non è chiaro se Carter abbia citato l’opinione di uno di questi esperti, o un rapporto dell’intelligence Usa o se fosse una sua affermazione. Certo Carter ha così rotto una specie di tabù: negli Usa nessun Vip della politica ha mai riconosciuto il fatto che lo Stato ebraico - abbottonatissimo al riguardo - è a tutti gli effetti una potenza nucleare.
Ma, non molto tempo fa, solo il Segretario della Difesa Usa, Robert Gates ha affermato al Senato che Israele è una potenza nucleare.
Sempre al festival letterario, in un’intervista al Guardian, Carter ha affermato che i governi europei dovrebbero giungere a un punto di rottura con gli Stati Uniti sull’embargo internazionale a Gaza, mettendo fine al loro atteggiamento di sottomissione. Il blocco imposto dal Quartetto (Usa, Ue, Onu e Russia) su Gaza, secondo Carter, è stato «uno dei più grandi crimini umani commessi sulla terra» avendo comportato «la prigionia per 1,6 milioni di persone, un milione dei quali rifugiati». Un mese fa, durante la sua visita in Medio Oriente, il premio Nobel per la Pace aveva fatto infuriare Israele annunciando di voler incontrare a Damasco la guida suprema di Hamas, Mashaal.

domenica 25 maggio 2008

MILANO - È scontro sulle strade per l´Expo

MILANO - È scontro sulle strade per l´Expo
DOMENICA, 25 MAGGIO 2008 LA REPUBBLICA - Milano

Letta: sì a Brebemi e Pedemontana. I Verdi: meglio le ferrovie

La protesta degli ambientalisti "Bisogna cambiare logica: miglioriamo il trasporto su rotaia"

TERESA MONESTIROLI

In vista dell´Expo, che Milano ha vinto «grazie a un forte senso di collaborazione», «bisogna lavorare in maniera coordinata affinché vengano realizzate tre importanti infrastrutture: Pedemontana, Brebemi e Tem. Le risorse ci sono e il via libera anche, ora è fondamentale che vengano portate a termine». Enrico Letta, ministro del Lavoro del governo ombra di centrosinistra, intervenendo al convegno nazionale di Federalberghi in Triennale, detta l´agenda dei prossimi sette anni per realizzare «quelle infrastrutture degne di una regione locomotiva per il paese come la Lombardia». «Il 2015 è vicino, siamo obbligati ad arrivare a dei risultati - dice - . E l´Expo è un´occasione importante per l´intera nazione, non solo per Milano, perché noi italiani abbiamo bisogno di avere obiettivi vincolanti».
Parlando di Expo, l´ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, spinge sulle autostrade del Nord sollevando l´immediata reazione dei Verdi. Con Enrico Fedrighini che risponde: «Anziché copiare le ricette del centrodestra, il centrosinistra dovrebbe lavorare su un´agenda propria sulla base di una rigorosa analisi del rapporto tra costi e benefici per il sistema territoriale e ambientale». Il consigliere comunale ricorda alcuni dati: «A Monaco di Baviera arrivano 12 linee ferroviarie che portano ogni giorno 700 mila persone. A Milano, con 14 linee, ne arrivano solo 250 mila. Invece di aumentare il trasporto su gomma, investiamo per migliorare il servizio ferroviario perché al Nord è stato dimostrato che l´88% della mobilità a ridosso delle aree urbane è pendolare. Quindi bisognerebbe concentrarsi sulla crescita del trasporto pubblico». Se sulla Pedemontana i Verdi aprono uno spiraglio, rispetto a Brebemi e Tem sono assolutamente contrari. «Formigoni e Letta dovrebbero preoccuparsi di tutti i tir che le ferrovie svizzere scaricheranno sul nostro territorio quando verrà riaperto il Gottardo. Mezzi pesanti che in Svizzera viaggiano su ferro e che in Italia intaseranno le autostrade. Senza fondamentalismi laddove le strade servono, ma non è possibile ragionare ancora come negli anni Cinquanta quando veniva contemplato solo il trasporto su gomma. Bisogna cambiare logica».
Al di là delle polemiche sulle infrastrutture, però, al convegno sul turismo in Triennale centrodestra e centrosinistra sono d´accordo nel porgere i complimenti alla città che ha vinto l´Expo e a considerare «il modello di sinergia - come lo chiama Letta - come vincente. Perché altre volte l´Italia si è candidata senza mai arrivare prima perché non c´era la dovuta collaborazione». Un argomento toccato anche da Sandro Bondi, neo ministro per i Beni culturali, che davanti a una platea di albergatori dice: «Ricordare la vittoria dell´Expo non è solo un modo di rendere omaggio agli amministratori locali, e soprattutto al sindaco Moratti, ma è un modo importante per parlare dell´Italia. La dimostrazione che fare squadra è importante. Non solo fra maggioranza e opposizione, fra diversi ministeri ma anche fra il governo centrale, le regioni e gli enti locali. Solo così riusciremo a risolvere i problemi del Paese».

venerdì 23 maggio 2008

Tra un mese il tracciato della Tav

PIEMONTE - Tra un mese il tracciato della Tav
23 MAGGIO 2008, LA REPUBBLICA - TORINO

L´Osservatorio chiude il 30 giugno: la trattativa si sposterà a Roma

Da martedì saranno ascoltati in due round gli amministratori della Valle

Un mese per il rush finale sulla Torino-Lione. Con le prossime due riunioni dell´Osservatorio tecnico si completerà il ciclo di audizioni dei sindaci dei comuni interessati al versante italiano. Martedì toccherà agli amministratori dell´Alta valle di Susa, il 3 giugno ai sindaci della Bassa valle. A quel punto l´organismo avrà in mano tutti gli elementi per avanzare un´ipotesi di scenario da sottoporre agli stessi sindaci e al tavolo politico di Palazzo Chigi che si riunirà, presumibilmente, a fine luglio. Un´ipotesi che sarà la sintesi dei problemi e dei suggerimenti emersi in quasi due anni di lavoro dell´Osservatorio secondo il principio enunciato fin dall´inizio da Mario Virano: «Dalle macerie delle diverse ipotesi finora avanzate potrebbe nascere la sintesi finale. Che non sarà l´adozione di questo o di quel tracciato ma una somma di parti di scenari diversi».
Il lavoro di sintesi è dunque alla fase finale. Difficilmente si arriverà al 30 giugno, data ultima per i lavori dell´Osservatorio, con un tracciato che mette d´accordo tutti. È possibile anzi che ci vorranno altri mesi perché nei comuni interessati vengano messi definitivamente a punto parti dei progetti. Più probabilmente tra un mese si dovrebbe invece arrivare a definire una serie di paletti, di cardini sui quali c´è un´intesa di massima tra tutti i soggetti interessati. E certamente, prima che si arrivi a fine giugno, i sindaci valsusini intendono incontrare separatamente i vertici del governo. Non una riunione del tavolo politico vero e proprio, dunque, ma un incontro tra i rappresentanti della val di Susa e Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Per capire se Berlusconi intende considerare validi gli impegni assunti finora dal precedente governo, per avere la conferma che gli annunci di Martinat sul ritorno della legge Obiettivo sono un punto di vista isolato, e, forse, per presentare ai vertici di palazzo Chigi quella proposta dei sindaci cui gli amministratori valsusini starebbero lavorando in queste settimane. «Una proposta - ha detto l´altra sera Antonio Ferrentino in un dibattito ad Almese - nella quale ci saranno molte condizioni ma non ci saranno dei no».
Il lavoro entra dunque nel momento decisivo. Quello in cui si capirà se i due anni di confronti e di studi commissionati dall´Osservatorio sono stati proficui o se invece si aprirà una nuova fase di stallo. In Francia l´attenzione è massima. probabilmente la riunione della Conferenza intergovernativa sulla Torino-Lione, che dovrebbe tenersi entro luglio, sarà convocata solo quando si capirà qual è la prospettiva sul versante italiano.
(p.g.)

giovedì 22 maggio 2008

«Il petro-euro scalza il petro-dollaro: è la vera ragione della crisi con l'Iran»

«Il petro-euro scalza il petro-dollaro: è la vera ragione della crisi con l'Iran»

di Sabina Morandi

Liberazione del 12/11/2005

L'analisi di William R. Clark autorevole ricercatore americano esperto di petrolio

Peccato che quasi tutti i giornalisti di questo paese si siano messi a lanciare strali invece di verificare notizie e informazioni, rendendo molto più facile il lavoro di quegli specialisti della guerra psicologica che, con classico stile anni Cinquanta, confezionano la "storia ufficiale". Sarebbe bastata un'occhiata alle notizie economiche del momento per dipanare il mistero dello scandalo suscitato dagli slogan del presidente iraniano, sostanzialmente gli stessi da venticinque anni, fatta eccezione per la breve pausa del riformista Khatami. Un mistero che non riguarda i contenuti della propaganda di Ahmadinejad, che utilizza la retorica anti-sionista come unico collante per una società sempre più inquieta, ma le reazioni scandalizzate dell'Occidente. Se i falchi di Teheran inneggiano ancora una volta alla distruzione del piccolo e del grande Satana, scrivevano i giornalisti arabi la scorsa settimana, perché stavolta gli occidentali strepitano? Alcuni commentatori accusavano Ahmadinejad di ingenuità politica ma quasi nessuno mostrava stupore per la ben nota abitudine dei regimi islamici di strumentalizzare la tragedia palestinese quando registrano una crisi di consenso.
Detto questo, quindi, manca qualcosa. Per trovare la notizia, il tassello che potrebbe rendere comprensibile un confuso puzzle di propagande contrapposte, bisogna risalire a qualche mese fa, quando un autorevole ricercatore esperto di petrolio - quel William R. Clark autore di Revisited - The Real Reason for the Upcoming War with Iraq: a Macroeconomic and Geostrategic Analysis of the Unspoken Truth (Le vere ragioni della prossima guerra contro l'Iraq: un'analisi macroeconomica e geostrategica della verità non detta) - puntava l'indice sul prossimo obiettivo. Attenzione, scriveva Clark il 5 agosto scorso, le tensioni geopolitiche fra Stati Uniti e Iran «vanno ben oltre le preoccupazioni per il programma nucleare iraniano, come pubblicamente affermato, ma riguardano molto più plausibilmente il tentativo di Teheran di proporre un sistema di scambio del petrolio basato sul petro-euro». Esattamente come per il conflitto con l'Iraq, scrive Clark, «le operazioni militari contro l'Iran sono strettamente collegate con la macroeconomia e con la sfida alla supremazia del dollaro costituita dall'euro come moneta alternativa per le transazioni petrolifere, una sfida non pubblicizzata ma molto, molto seria». Secondo Clark e numerosi analisti, infatti, più dell'accesso ai pozzi garantito dall'occupazione militare è stata proprio la salvaguardia della supremazia del dollaro all'origine dell'invasione dell'Iraq. Saddam insomma avrebbe firmato la sua condanna a morte non per le sue inesistenti armi di distruzione di massa né tanto meno per i massacri dei civili, quanto per avere deciso di farsi pagare in euro le esportazioni di petrolio. Secondo alcuni insider della Casa Bianca l'operazione Iraq freedom, oltre a stabilire una presenza militare e un governo filo-americano, aveva specificamente l'obiettivo di riconvertire in dollari gli scambi petroliferi iracheni e far passare ai paesi Opec ogni fantasia di transizione all'euro - ovviamente più conveniente in quanto meno svalutato del biglietto verde.

Nel caso dell'Iran, sostiene Clark, la minaccia sarebbe molto più concreta visto che Teheran ha annunciato, per il marzo prossimo, l'apertura di una vera e propria borsa petrolifera alternativa alle uniche due ufficialmente riconosciute, il Nymex di New York e l'Internatonal Petroleum Exchange di Londra, una borsa appunto basata su di un sistema di scambi interamente basato sull'euro e tacitamente appoggiata da altri paesi produttori. Perché sia così grave lo spiega a chiare lettere lo stesso Clark: «Se la borsa iraniana prendesse piede, l'euro potrebbe irrompere definitivamente negli scambi petroliferi. Considerando il livello del debito statunitense e il progetto di dominio globale portato avanti dai neocon, la mossa di Teheran costituisce una minaccia molto seria alla supremazia del dollaro nel mercato petrolifero internazionale».
Dal punto di vista esclusivamente economico e monetario, l'avvio di un sistema in petroeuro è uno sviluppo logico visto che l'Unione europea importa più petrolio dai paesi Opec di quanto non facciano gli Stati Uniti e, di fatto, gli europei pagano il petrolio iraniano in euro già dal 2003. Ma una vera e propria competizione fra le due monete, in una borsa indipendente dai desiderata di Washington ma lasciata in balia della proverbiale mano invisibile, è l'incubo della Federal Reserve perché, come scrive Clark «gli Stati Uniti non potrebbero più continuare a espandere facilmente il credito attraverso i buoni del tesoro e il valore del dollaro crollerebbe». La borsa iraniana sarebbe insomma una tappa fondamentale verso il passaggio dell'Opec dai petrodollari ai petroeuro, passaggio facilitato anche dal comportamento delle banche centrali di due giganti, Russia e Cina, che dal 2003 hanno cominciato ad accumulare la divisa europea.

Non la solita vecchia propaganda anti-sionista, quindi, né tanto meno un programma nucleare che forse, fra una decina d'anni, potrebbe condurre l'Iran alla bomba atomica - ma allora perché non nuclearizzare subito la Corea del Nord? Sono i petroeuro a spaventare gli americani. Ecco perché, dall'autunno del 2004 fino all'estate del 2005, i generali del Pentagono sono stati chiamati a sfornare ogni sorta di simulazioni d'attacco all'Iran; ed ecco perché si sono nel frattempo moltiplicati gli strali contro un regime che non è più antisemita o più brutale di quelli che governano il Pakistan o l'Arabia Saudita.

Il problema dei generali è che, forti dell'esperienza irachena, sono costretti a scartare a priori l'ipotesi soft - quella del cambio di regime - così come un'invasione su larga scala contro il ben più solido e numeroso esercito di Teheran. Ed ecco allora farsi strada svariate ipotesi, tutte abbastanza spaventose ma alcune decisamente agghiaccianti, come quella descritta dall'esperto di intelligence Philip Giraldi su The American Conservative, sotto l'illuminante titolo: "In caso di emergenza, nuclearizzate l'Iran".

Oltre a fornire notizie sulla ripresa dell'intensa attività di pianificazione da parte dei militari, Giraldi rivela che, in caso di un altro attacco terroristico sul suolo americano, l'ufficio del vice-presidente Dick Cheney vuole che il Pentagono sia pronto a lanciare un attacco nucleare contro Teheran, anche se il governo iraniano non risultasse coinvolto con l'attentato. Su istruzioni del vicepresidente il Pentagono ha quindi incaricato il Comando strategico statunitense (Stratcom) di stilare un piano che include appunto un attacco aereo su vasta scala contro obiettivi iraniani, sia con armi convenzionali che con le nucleari tattiche progettate per distruggere i bunker. La domanda è quindi una sola: l'operazione è già cominciata?

Il nucleare Usa lascia Ramstein. Destinazione, l'Europa del sud

Il nucleare Usa lascia Ramstein. Destinazione, l'Europa del sud

di Matteo Alviti

il Manifesto del 13/07/2007

Gli americani cancellano la base tedesca dalla lista dei siti sottoposti a controlli. Le armi nucleari non sono più in Renania-Palatinato

Le forze aeree statunitensi hanno cancellato la base tedesca di Ramstein dalla lista dei siti sottoposti a controlli periodici da parte degli ispettori dell'arsenale nucleare. In altre parole le armi un tempo dislocate nella base - la più grande al di fuori degli Stati uniti e quartier generale della United State Air Force in Europe (Usafe) - non si troverebbero più in Renania-Palatinato, nel sud della Germania.
La lista in questione, contenuta in un documento non riservato pubblicato lo scorso gennaio dall'Usafe, è al centro di un articolo di Hans Kristensen apparso sul blog per la sicurezza strategica della Federazione degli scienziati americani. Fino al 2005 la Germania è stata tra i paesi europei quello con più basi (tre) coinvolte nella gestione delle armi nucleari di Washington. Oggi i siti militari di Ramstein e Spangdahlem, collegato operativamente al primo, sono usciti dalla lista lasciando il primo posto della classifica all'Italia, con Aviano, in Friuli-Venezia Giulia, e Ghedi Torre, in Lombardia. In Germania rimarrebbero dunque 20 bombe nucleari nella base di Büchel, in Renania-Palatinato. Poche rispetto alle 2570 del 1980. Ma quelli erano altri tempi.
Si tratta di una riduzione significativa della presenza di armi nucleari statunitense sul territorio europeo: circa 100 testate in meno rispetto ai dati forniti dal rapporto del Natural Resources Defense Council nel febbraio del 2005. Le stime attuali, non confermate né smentite dai governi europei e statunitense, parlano di 350 testate B61 - per i caccia bombardieri -, una capacità d'offesa simile, o poco superiore, a quella della sola Francia. Secondo le informazioni riferite dal generale Franco Apicella, l'arsenale nucleare di Parigi comprende infatti tra le 250 e le 300 testate «distribuite tra quattro sottomarini a propulsione nucleare e una sessantina di velivoli dell'aeronautica imbarcati sulla portaerei Charles-de-Gaulle».
Si tratta del punto più basso nella storia della presenza di armi nucleari sul suolo europeo dal 1957. L'apice fu toccato nel 1971, in piena guerra fredda, con 7300 testate nucleari, scese a 480 bombe nel 1994, numero rimasto poi praticamente invariato fino al 2005. Nonostante si sia ridotto drasticamente dagli anni '70, il numero di armi nucleari statunitensi in Europa rimane però assolutamente sproporzionato al contesto geopolitico attuale: «è maggiore dell'arsenale nucleare cinese e di quello di Israele, India e Pakistan messe insieme», scrive Kristensen.
Sarebbe dunque un errore leggere la cancellazione di Ramstein dalla lista «nera» come un ritiro strategico degli Stati uniti: la presenza di bombe nucleari in Europa gioca ancora un ruolo decisivo per la Nato non fosse che per il legame che contribuisce a consolidare tra gli Stati uniti e i governi europei, pur nell'assenza di un nemico dichiarato. Legare infatti la presenza delle armi atomiche alla minaccia del terrorismo sarebbe poco plausibile anche per George W. Bush: parafrasando Pintor, sarebbe come pensare di poter sparare a una mosca con un cannone.
Più logico pensare dunque alla riorganizzazione strategica dell'arsenale nucleare statunitense secondo le nuove minacce mediterranee. Non a caso l'Italia rimane un giocatore fondamentale con il progetto Dal Molin, insieme alla Turchia. Oggi il 51% dell'arsenale è concentrato nel sud-est europeo. A «proteggere» il nord Europa dovrebbe rimanere, secondo i controversi piani del presidente statunitense, lo scudo missilistico che potrebbe essere costruito tra Polonia e Repubblica Ceca.
Probabilmente le armi nucleari non sono più a Ramstein già dal 2005, anno in cui iniziarono i lavori per l'allargamento della base Usafe. L'amministrazione Bush, secondo fonti militari tedesche citate allora dal settimanale der Spiegel, aveva deciso di far rientrare le testate in patria per il tempo della ristrutturazione del sito militare. Il governo rosso-verde di Gerhard Schröder e Joschka Fischer sembrava a quel tempo intenzionato a far capire agli alleati statunitensi, con i quali era ai ferri corti dall'invasione dell'Iraq nel 2003, di non gradire un tale dispiegamento sul proprio territorio. Ma il proposito rientrò per le dimissioni annunciate dal cancelliere socialdemocratico nel maggio del 2005.

ORTONA (CHIETI) - La scomparsa delle colline ora il cemento cancella i vigneti

ORTONA (CHIETI) - La scomparsa delle colline ora il cemento cancella i vigneti
JENNER MELETTI
MERCOLEDÌ, 21 MAGGIO 2008 LA REPUBBLICA - Cronaca

Ecco, il "Centro Oli" dell´Eni dovrebbe cominciare qui, dove partono i filari di vitigni chardonnay.
La campagna sembra un giardino, con il mare davanti e la Maiella alle spalle. Fra poco arriveranno le ruspe a abbatteranno tutto. Dodici ettari di viti preziose lasceranno lo spazio al Centro Oli, che non c´entra nulla con olive ed extravergine ma è solo la traduzione volutamente ingannevole di "Oil center", centro petrolio.
In pratica: un impianto di prima raffinazione del petrolio estratto da due piattaforme che sono in mare e da altri pozzi in allestimento in mezzo Abruzzo.

«Noi non vogliamo - dice Raffaele Cavallo, presidente Slow Food in questa regione - che anche qui appaiano i cartelli che sono stati affissi a Viggiano, in Basilicata, in un impianto simile a quello che si vuol costruire sulle nostre colline. «Idrogeno solforato: velenoso, infiammabile ed esplosivo. Non fidarsi dell´odorato per accertare la presenza di gas. L´idrogeno solforato paralizza il senso dell´odorato».

Siamo nella regione più verde d´Italia, con tre parchi nazionali. I vini doc Montepulciano e Trebbiano d´Abruzzo finalmente rendono la giusta mercede a migliaia di contadini che grazie ai vigneti non sono stati costretti all´emigrazione. Perché vogliamo rovinare tutto?».

Petrolio in mezzo ai vigneti del Moltepulciano, Alta velocità che spazza via il 20% del Lugana doc al lago di Garda, un cementificio che vuole «mangiare» altre colline proprio nel cuore dell´Amarone in Valpolicella.

Un tempo tutto questo sarebbe stato chiamato «progresso»: con le buste paga dell´industria i contadini poveri hanno cambiato la loro vita.

«Ma l´industria del petrolio - raccontano Giancarlo Di Ruscio e Carmine Rabottini, presidenti delle cantine sociali di Tollo - arriva a mettere radici da noi in ritardo di decenni. La povertà per fortuna è un ricordo. Le nostre cooperative, con 1.360 soci, hanno un fatturato di 40 milioni di euro. Nell´ortonese, dove sorgerà l´impianto Eni, il vino incassa 150 milioni. Noi non siamo i talebani dell´ambiente. Abbiamo accolto a braccia aperte industrie come la Savel del gruppo Fiat e la Honda che sono in fondovalle e distribuiscono migliaia di salari. Ma il petrolio oggi non porta nemmeno posti di lavoro. Per il Centro Oli sono previste 27 assunzioni, con un investimento di 120 milioni di euro. Il danno per noi sarebbe terribile. Sta andando forte il turismo colto, di chi viene a comprare il vino doc ma vuole vivere qualche ora in mezzo a una natura intatta».

Per ora i lavori sono bloccati, con una delibera regionale che impedisce ogni costruzione sulla costa, ma solo fino alla fine dell´anno.

Il presidente della Regione Ottaviano Del Turco è favorevole al Centro Oli, contrari gli assessori ad ambiente, sanità e turismo.

«Il fatto grave - dice Raffaele Cavallo di Slow Food - è che nessuno aveva parlato di una industria così pesante. Il centro veniva presentato come un deposito di petrolio e niente altro. Solo da pochi mesi abbiamo saputo che si tratta invece di un impianto con un pesantissimo impatto ambientale. Le spiagge di Francavilla sono quasi sotto la collina del Centro Oli, Pescara è a soli 13 chilometri. Non vogliano finire come a Viggiano, che 15 anni fa ha accolto il centro Eni come una benedizione perché tanti disoccupati speravano in un lavoro. Il lavoro è sempre scarso e un quarto della popolazione è fuggita perché non vuole convivere con l´idrogeno solforato che puzza di uovo marcio».

È passato più di un secolo da quando "sembrava il treno stesso un mito di progresso".

Oggi, a Peschiera del Garda, i produttori del Lugana doc sono invece arrabbiati perché la linea della Tav vuole cancellare il 20% dei loro vigneti.

«Il progetto per questa linea ferroviaria - dice Francesco Montresor, presidente del consorzio che tutela questo vino - è del 1991 e 17 anni oggi sono un secolo.
Chi immaginava, allora, il petrolio a 118 dollari al barile? Quando un ingegnere, nel suo studio milanese, ha tracciato una riga sulla carta geografica ed ha stabilito che la Tav doveva passare da Desenzano, Peschiera e Sirmione, si pensava che costruire, produrre e consumare fosse comunque positivo.

Adesso si ragiona in modo diverso: si è capito che il progresso è consumare meno, tutelare, conservare.
Vuol dire valorizzare la nostra storia e le nostre radici. Già Gaio Valerio Catullo esaltava la "Lucana silva", boscaglia con vitigni a bacca bianca. Ora il Lugana è richiesto anche in Giappone, da tre anni a questa parte ogni anno il prezzo dell´uva raddoppia: e noi dovremmo accettare di falcidiare la produzione del 20%?».

Anche fra i viticoltori del lago non ci sono pasdaran dell´ambiente.

«Noi chiediamo semplicemente che la Tav sia spostata tre chilometri a Sud. Passerebbe fra i campi di granoturco e non fra le viti. E lo Stato risparmierebbe una bella cifra. Un ettaro di vigneto qui costa 300.000 euro. Se il proprietario è un coltivatore diretto - e qui lo siamo quasi tutti - il prezzo del terreno viene triplicato: un ettaro verrebbe a costare 900.000 euro, senza contare poi il "lucro cessante", il rimborso dovuto per i mancati futuri guadagni. Le terre del granoturco costano due terzi in meno».

Anche le terre della Valpolicella costano care. Per un ettaro di vigneto servono 300.000 - 500.000 euro. Qui il "progresso" è arrivato nel 1962, con l´apertura di un cementificio. L´Amarone, allora, era conosciuto sì e no a Verona, dove veniva portato in damigiane. Solo chi emigrava poteva mettere assieme il pranzo con la cena. Il cementificio era la manna. Nessuno protestava, anche se le colline attorno sparivano una dopo l´altra e venivano trasformate in cemento. «Secondo me - dice Mirco Frapporti, sindaco di Fumane - anche negli anni ‘60 fu un errore accettare il cementificio, diventato poi CementiRossi, sulla nostra terra. Ma adesso c´è e se rispetta le leggi ha diritto di continuare a lavorare. Come Comune, non possiamo fare altro che tenergli il fiato sul collo. Certo, oggi potremmo farne a meno: la ricchezza è stata portata dal vino e non dal cemento».

Bisogna salire in alto, per cercare la collina che era sotto Purano e ora non c´è più. C´è solo un enorme buco. «Ma il mostro - dice Daniele Todesco dell´associazione Valpolicella 2000 - ha ancora fame. Ha presentato domanda per poter trasformare in cemento anche la collina di Marezzane, che fra l´altro è dentro al parco naturale della Lessinia dove ogni scavo sarebbe proibito. Ma è stata concessa una deroga perché la domanda era antecedente la nascita del parco. Ora bisognerà vedere se il progetto riceverà una Via - Valutazione di incidenza ambientale - positiva. Contro il cementificio occorre più coraggio, da parte del Comune e della Regione. Lavora e guadagna da più di quarant´anni. Ora che gli investimenti sono stati ampiamente ripagati può anche chiudere. Ci lavorano 100 operai ma la disoccupazione qui intorno è a zero. La Cementirossi ha detto invece che investirà 60 milioni di euro per rinnovare i macchinari obsoleti e per questo vuole altre colline da mangiare, fino al 2025».


La direzione del cementificio ha certezze granitiche. «I vigneti, e la qualità dei vini, non subiscono alcun danno dalla presenza della nostra industria». Meno sicuro uno dei vignaioli più importanti, Franco Allegrini. «Il cementificio è un peso che abbiamo sopportato troppo a lungo. Noi siamo così abituati alla sua presenza che quasi non lo vediamo più. Certo, chi arriva da fuori e si vede questo mostro… Non è certo un bel biglietto da visita». Se la "Via" sarà positiva, meglio affrettarsi verso il parco della Lessinia, subito dopo il cementificio. Anche la collina di Marezzane potrebbe trasformarsi in colonne di cemento armato.

sabato 17 maggio 2008

Software liberi? Macché: vincono le corporation

Liberazione, 17 maggio 2008
Software liberi? Macché: vincono le corporation
Monopolio dei brevetti
L'Europa come gli Usa

Stefano Bocconetti
Si sono riuniti in segreto, lontano dai riflettori. Si sono visti cinque, sei volte, neanche questo si sa con esattezza. Qualche volta al di qua, altre volte al di là del Pacifico. Si sono incontrati di nascosto. Né potevano fare altrimenti: stano decidendo che il futuro di questo pianeta sarà "a pagamento". Tutto a pagamento.
Un'esagerazione? L'ennesimo allarme di una cultura radicale ormai fuori dai giochi? Forse, comunque le cose stanno così: il futuro - frase all'ingrosso ma serve a capire - si gioca sulla tecnologia. Si gioca sull'uso che si farà delle innovazioni. Su quanto cresceranno, su chi le potrà usare. Sui limiti che saranno imposti al loro utilizzo. Bene, lì, in quelle riunioni segrete, s'è deciso che tutto ciò che è tecnologia dovrà soprattutto rendere. Rendere tanti soldi e tanto potere a pochi. Ai soliti pochi: alla Microsoft, alla Philips, e qualche altro. Hanno deciso che anche da noi, nel vecchio continente, potranno tassare il futuro, insomma. Un esempio, per capire: il telefono che risponde senza premere un bottone, senza click non è un oggetto avveniristico. Servirà, servirà alle persone diversamente abili, e anche se mancano soldi per affrettare le ricerche, tutto fa capire che fra poco ci si arriverà. Quando arriverà nei negozi, però, non avrà più nulla di sociale. Perché costerà tantissimo. Chi si prenderà la briga di produrlo, qui in Italia e in Europa infatti, dovrà pagare centinaia di migliaia di euro. Di royalties. Perché l'idea è stata già brevettata. Non è stato registrato un progetto dettagliato, coi disegni che spiegano come si fa quel telefono, che standard usare, eccetera. No, è stata brevettata l'idea. E brevettare costa tanto.
Così funziona negli Stati Uniti. Così non funzionava nella vecchia Europa. Ma ben presto le due legislature diventeranno uguali. Perché gli incontri segreti di cui si parlava si sono svolti col patrocinio del Tec, HYPERLINK http://www.eurunion.org/partner/euusrelations/TEC.htm"Transatlantic Economic Council . Un ente, chiamiamolo così, che ha solo il compiuto di facilitare il commercio fra Europa e Stati Uniti, armonizzando le due diverse legislature. E in queste riunioni, nelle ultime, è stata invitata un'altra associazione, dalla sigla altrettanto ostica: HYPERLINK http://www.tabd.com/TABD . L'acronimo di Trans Atlantic Business Dialogue, quel gruppo di potenti della terra che si arricchisce con le royalties: Bill Gates, Siemens, British Telecom. Questo gruppo di pressione ha lavorato per convincere la commissione europea a scrivere norme sui brevetti copiando quelle in vigore negli States.
Hanno lavorato e sembra siano stati convincenti. L'allarme è stato lanciato dalla Foundation for a Free Information Infrastructure, la FFII. Non è una delle tante associazioni che si battono per una rete, per un'informatica libera. E' molto di più: è l'organizzazione che due anni fa raccolse qualcosa come due milioni di firme per bloccare il primo tentativo di imporre una legge europea sui brevetti software, sul modello americano. Anzi, nel vecchio continente doveva essere addirittura più "feroce". Perché se fosse stata approvata così come l'avevamo immaginata - ed il primo ad immaginarla era stato un commissario laburista - chiunque avrebbe potuto alzarsi e brevettare anche una "stringa". Quella sequenza di caratteri e numeri alla base del linguaggio informatico. Con la conseguenza che chiunque lavorasse a progettare programmi avrebbe dovuto sottostare alle leggi dei brevetti. Cosa che, invece, era esplicitamente escluso dalla legislazione europea.
Allora, due anni fa, sovvertendo qualsiasi previsioni, la norma fu bloccata. Si era già in seconda lettura del provvedimento, ma la mobilitazione on line promossa dalla FFII fece in modo che qualche governo ci ripensasse. In due anni, però, tante cose sono cambiate. Ci sono più governi di destra, qualche esecutivo ha cambiato idea. Così il commissario Charlie McCreevy, una sorta di ministro delle Finanze Ue, in queste ore già si avventura a parlare di una "patente" bilaterale - americana ed europea - per i prodotti informatici. Sarà uguale fra le due sponde dell'Oceano, e sarà scritta sotto dettatura della Microsoft e della Philips. La FFII ci proverà a fermarli anche stavolta. Ma sarà più difficile. La libertà non sembra più in grado di mobilitare l'opinione pubblica. Le persone, di questi tempi, hanno altro da fare.


17/05/2008

lunedì 12 maggio 2008

L'oro nero vuol divorziare dal biglietto verde

La Repubblica 21.11.07
Sceicchi, modelle e grandi banche il mondo è in fuga dal dollaro
L'oro nero vuol divorziare dal biglietto verde. Cina, Angola & C. puntano sull'euro
di Ettore Livini

MILANO - Tradito da rapper e modelle, snobbato da Warren Buffett, sorpassato persino dal cugino "povero" – il suo omonimo canadese – il dollaro americano si prepara a riscrivere una nuova pagina dell´economia e della geopolitica mondiale. Questa volta, però, non nel ruolo di muscolare attore protagonista, come è successo finora, ma nei panni un po´ inconsueti di star (quasi) sul viale del tramonto. I segnali del declino – prezzi a parte – sono evidenti. La richiesta della supermodella Gisele Bundchen di essere pagata in euro e i videoclip di Jay-Z, il re dell´hi-pop a spasso per New York con valigie gonfie di banconote da 500 euro, sono solo la punta più colorata dell´iceberg. Sotto traccia, invece, si stanno mettendo le basi per una svolta finanziaria più epocale: l´addio al biglietto verde come unica stella polare dei mercati globali.
A dare l´allarme era stato qualche mese fa con la consueta lungimiranza Warren Buffett, annunciando di aver spostato i suoi investimenti a Wall Street verso aziende esposte su valute straniere. Nelle scorse settimane, però, dopo l´ennesimo crollo del dollaro, il fuggi-fuggi è diventato generale. La banca centrale cinese – nei cui forzieri ci sono riserve per 1.500 miliardi di dollari – ha già ventilato l´ipotesi di spostare parte di questo tesoro verso altre monete. Quella degli Emirati Arabi ha già deciso di "cambiare" il 10% delle sue ricchezze valutarie (43 miliardi di dollari) in euro. Progetti simili sono già stati messi in cantiere persino da Ucraina e Angola. Ma il colpo di grazia – una sorta di parricidio – è arrivato dall´Opec, dove gli sceicchi arricchiti dai petrodollari hanno per la prima volta parlato seriamente di slegare il prezzo del greggio dal giogo della moneta Usa. Qualcuno come Venezuela e Iran, l´ha fatto per pura propaganda politica («la fine del dollaro è la fine dell´impero americano», ha sintetizzato Hugo Chavez). Ma questa volta quasi tutti – salvo l´Arabia saudita – hanno ritenuto utile un approfondimento. E a inizio dicembre in un summit straordinario i paesi produttori discuteranno ufficialmente il possibile divorzio tra biglietto verde e oro nero.
L´impietosa legge dei mercati finanziari ha già tratto le sue conclusioni. In finanza le ipotesi attendibili sono spesso catalogate come "quasi certezze". E la sola idea che l´Opec dia l´addio al dollaro (sommata alle voci di nuovi tagli ai tassi Usa) ha messo ancor più sotto pressione la moneta a stelle e strisce in un circuito che si autoalimenta visto che pure i grandi fondi sovrani (quelli controllati dai Governi) potrebbero dirottare 500 miliardi di capitali nei prossimi tre anni dall´area dollaro ad altre valute.
Ma quali possono essere le conseguenze di questa massiccia migrazione valutaria? In America si tende a snobbare il problema. Il ruolo del dollaro – dicono gli economisti – non è in discussione – visto che nell´86% di tutte le transazioni valutarie a passare di mano è ancora il biglietto verde contro il 37% dell´euro e il 16% dello yen. Il mini-dollaro, anzi, per ora è quasi un toccasana: l´export delle aziende Usa è volato ad agosto al record di 138 milioni. E questo boom ha aggiunto al Pil – secondo la Fed – un bel 0,93%, pari quasi all´1,05% limato al prodotto interno dalla crisi dei subprime. Non solo. Il deficit commerciale e quello delle partite correnti – le due palle al piede del bilancio a stelle e strisce – hanno tutto da guadagnare dalla crisi del biglietto verde. E lo smacco del sorpasso da parte del dollaro canadese – salito oltre la parità – è stato compensato dal boom di visitatori da oltrefrontiera: i campioni di football americano dei Buffalo Bills ospitano ormai nel loro stadio oltre il 12% di tifosi canadesi per cui la trasferta di 100 km. da Toronto, grazie al cambio favorevole, è finanziariamente una passeggiata.
E l´Europa? La domanda di euro, la valuta rifugio per i delusi dal dollaro, rischia di far apprezzare ancora la moneta Ue. Mentre la ridenominazione del barile di petrolio rischia di scaricarci sulle spalle d´ora in poi tutti i rialzi del greggio, senza beneficiare – come successo finora – dell´ammortizzatore del biglietto verde. Qualche beneficio potrebbe invece arrivare sul fronte dei tassi. Buona parte delle riserve valutarie delle banche centrali sono investite in T-Bond americani. Solo gli Stati del Golfo, per dare un´idea, hanno in portafoglio 125 miliardi di titoli di stato a stelle e strisce. Fattore che – secondo McKinsey – abbassa di 21 centesimi i tassi di interesse Usa. Se solo un pezzo di questo tesoro traslocherà sul bond europei, i ruoli potrebbero invertirsi, abbassando i rendimenti nel Vecchio continente.

Scienza, troppo business abbassa la qualità della ricerca

Liberazione 30.11.07
Scienza, troppo business abbassa la qualità della ricerca
di Luca Tancredi Barone

"Etica, conoscenza scientifica, comunicazione", un convegno di due giorni che si conclude oggi a Roma, organizzato dalla Fondazione diritti genetici di Mario Capanna. Tra gli ospiti, Marcello Cini, Elena Gagliasso, Ermanno Bencivenga

L'intreccio fra mercato, scienza, informazione, etica si fa sempre più soffocante e la società della conoscenza a cui punta l'Europa più lungimirante per battere economicamente la crescita dei colossi asiatici dovrà farci i conti ogni giorno di più. L'era della scienza pura, disinteressata, di tutti e programmaticamente scettica è finita da un pezzo per lasciare spazio al business, ai diritti di proprietà intellettuale, agli uffici stampa più aggressivi e seducenti, alla ricerca commissionata dal finanziatore di turno. Soprattutto nel campo della ricerca biomedica, che costituisce la quasi totalità della ricerca scientifica che incontriamo ogni giorno.
Il tema "scienza e società" è caro alla Fondazione Diritti genetici che sta dedicando il suo quarto congresso a "etica, conoscenza scientifica, comunicazione" in una due giorni a Villa Piccolomini a Roma (dalle 9 alle 17, con reading finale sul mondo della sofisticazione alimentare).
Mario Capanna, che ieri ha aperto i lavori, si è scagliato contro quelli che lui ha definito gli scienziati "profittuali", quelli cioè che «millantano certezze incrollabili» per compiacere i loro finanziatori. E in particolare, in Italia, contro Umberto Veronesi per la sua propaganda non disinteressata a favore degli organismi geneticamente modificati. Perché - si è chiesto Capanna - se 3 europei su 4 sono contro gli ogm e in dieci anni l'ingegneria genetica è riuscita a modificare solo 4 varietà vegetali commerciabili, e quasi sempre solo con un gene per la tolleranza agli erbicidi, ci si ostina a volerli imporre in Europa?
E visto che la ricerca scientifica si è fatta merce come tutte le altre - niente scandalo, basta saperlo: sia gli scienziati, sia i cittadini - il problema, dice Capanna, non è solo di incrementare il finanziamento pubblico alla ricerca. Ma anche migliorare il controllo democratico sul suo impiego e rendere i ricercatori più consapevoli eticamente.
Il problema però non è solo quello, ormai noto, del conflitto di interessi dei ricercatori che si trovano invischiati, spesso anche in buona fede, in una rete di aspettative di chi paga la loro ricerca, i loro laboratori, le loro borse di studio e che li spingono a interpretare i risultati più benevolmente di quanto non dovrebbero. Spesso gli stessi ricercatori non ne sono consapevoli: benché il 70% delle ricerche mediche pubblicate siano finanziate dalle case farmaceutiche, e ben un terzo degli autori più importanti abbia degli interessi economici nella propria ricerca, solo poco più dell'1% dei ricercatori dichiara di esserne influenzato.
Ma il fatto più grave, come ha efficacemente sottolineato l'ex direttore del British Medical Journal (una di quelle che i giornalisti definiscono "prestigiose" riviste mediche) Richard Smith, è che è la qualità della ricerca a essere troppo spesso scadente. La stragrande maggioranza delle ricerche biomediche pubblicate ormai non risponde a criteri di validità scientifica e clinica. E quel che è peggio, è lo stesso meccanismo della peer review (il giudizio anonimo di altri ricercatori), su cui si basano il metodo scientifico e le riviste scientifiche, a non funzionare più efficacemente. Spesso, ha raccontato Smith, i revisori non si accorgono degli errori presenti nelle ricerche. In uno studio recente, a 300 revisori è stato sottoposto un testo di 600 parole contenente 8 errori: nessuno è stato in grado di individuarne più di cinque, e un quinto addirittura non ne ha riconosciuto nemmeno uno. Per non parlare del fatto che ormai le riviste scientifiche pubblicano soprattutto i risultati più sexy, come si dice, cioè quelli che quasi sicuramente andranno sui giornali a scapito di quelli scientificamente più robusti ma meno appealing.
La soluzione? Le riviste scientifiche open access, come Plos (Public Library of Science), accessibili e condivisibili on line gratuitamente per tutti (oggi Smith lavora per Plos). Ed è proprio Plos che sta sperimentando nuove forme di peer review: l'ultima nata, Plos One, lascia che la revisione degli articoli venga fatta dai lettori, altri scienziati, che si qualificano e commentano l'articolo scientifico in un vero e proprio blog pubblico, in pieno spirito web 2.0.
«È giusto sperimentare un po' queste forme alternative al copyright delle riviste, che ti chiedono di cedere loro i diritti e poi rivendono su web il tuo articolo a 40 dollari», ci spiega la filosofa e giurista Mariachiara Tallacchini, presente al congresso. «Ma il fatto è che gli autori esitano a usare l'open access: temono di mettere a repentaglio il requisito della novità per il brevetto, da cui ormai non si può più prescindere». E non basta: «bisogna imparare a integrare anche i saperi esperienziali nella scienza "accademica", come è stato sottolineato nel dibattito. Talvolta un contadino di Aleppo può conoscere meglio dello scienziato la modalità di coltivazione migliore di certi semi».
Il tema che ha toccato Tallacchini nel suo intervento è stato quello dell'etica, «che viene utilizzata - spiega - in maniera surrettizia per fare una specie di outsourcing dei valori: anziché basarsi sulle vere fonti del diritto - come le leggi, la costituzione, i trattati internazionali, i parlamenti - in Europa la tendenza è stata negli ultimi anni quella di delegare le decisioni eticamente sensibili a commissioni che dipendono dal potere esecutivo. In questo modo si evitano le presunte lungaggini del diritto, ma si legittimano delle etiche di stato, delle etiche su commissione dei governi e non dei cittadini». Ieri sono stati fatti esempi di cattiva scienza diventata norma a proposito degli ogm in Europa (ma basta pensare anche alla legge 40 in Italia). «Una volta che diventa norma, non si può più parlare in termini di "cattiva scienza": non se ne può più discutere, ma si maneggia come uno strumento giuridico. Ecco perché è fondamentale definire dei meccanismi di trasparenza per la scienza che entra nelle decisioni pubbliche: chi sono gli scienziati che siedono nelle commissioni, che interessi hanno, su quali ricerche si basano le decisioni che diventano poi leggi».

domenica 11 maggio 2008

Economia canaglia

Economia canaglia di Loretta Napoleoni

"Canaglia: una persona malvagia, spregevole, disonesta. Se invece il termine viene posto accanto a 'economia' sembra rinviare all'economia criminale, alla malavita in senso stretto. Mafia e dintorni, per intenderci. E invece il termine può essere usato per un'infinità di pratiche economiche oggi diffusissime e soprattutto 'quasi normali'. Un'economia canaglia oggi potente e ricchissima. Ovunque e in nessun luogo.
I mutui subprime americani (per banche e assicurazioni uno strumento finanziario virtuoso fino a pochi mesi fa), parte di quella 'industria del credito' che ha fatto indebitare (deliberatamente?) gli americani per oltre il triplo dell'intero pil del paese; il 'mercato del sesso', che vale oltre 50 miliardi di dollari nel mondo (e la E-55 che corre tra Germania e Repubblica Ceca, 'squallida striscia d'asfalto che ospita la più alta concentrazione di prostitute d'Europa'; e Israele, che sarebbe uno dei maggiori 'importatori' di prostitute slave, con una 'domanda' prticolarmente alta tra gli ebrei ortodossi). E gli oligarchi russi e la mafia cinese; l'Europa divenuta oggi la 'lavanderia' del denaro sporco globale; i milioni di schiavi e di bambini-lavoratori che producono cose che noi tranquillamente consumiamo, compreso l'oro dei nostri anelli luccicanti; e la pornografia via Internet (60 miliardi di dollari di incassi globali annuali). E ancora: le politiche fiscali dell'occidente, un tempo progressive per ridistribuire i redditi a favore dei meno abbienti, oggi diventate regressive: minore è il reddito, maggiori sono le tasse. 'Una follia sul piano politico e sociale' - accettata però da elettori affascinati da chi promette di ridurre le tasse, senza spiegare come. Dice Morpheus nel film Matrix: 'Hai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non ti dovessi più svegliare? Come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?'. Ecco, l'economia canaglia è anche questo: essere ormai incapaci di distinguere il reale dal sogno (o meglio: dall'incubo). Se invece cercassimo di guardare la realtà vera, non quella che viene fatta immaginare, scopriremmo - scrive Loretta Napoleoni, esperta di economia internazionale e di terrorismo in questo suo inquietante Economia canaglia (appunto), dettagliatissimo viaggio nel lato oscuro del nuovo ordine (o disordine) economico globale - che siamo invece 'in pieno marasma commerciale', ma anche etico e politico. Ma l'economia canaglia non è cosa di oggi, anzi ha sempre caratterizzato - ancora Napoleoni - la maggior parte delle grandi transizioni storiche, dalla quarta crociata finanziata da Venezia per avere il monopolio dei commerci con l'Oriente, alla scoperta dell'America; dalla prima rivoluzione industriale alla caduta del Muro di Berlino. L'economia canaglia farebbe dunque parte (inevitabile?) della storia umana, 'come lo yin e lo yang'. E allora vale il confronto con un'altra grande transizione, quella alla fine della II guerra mondiale. Allora, il sistema venne rifondato sulle regole e sul controllo politico (Bretton Woods, Piano Marshall). Dopo il 1989, invece, nessuna regola (è la deregolamentazione liberista), se non le regole dei più forti. Ovvero, 'dal controllo della politica sull'economia si è passati all'economia canaglia che tiene in scacco la politica'. Competizione esasperata, corruzione dlagante, valori morali scomparsi: è il nuovo 'senso comune'delle società attuali. E la democrazia sembra vacillare, debole e incerta. Ma sembra anche felice e contenta, perché mai come oggi l'economia del divertimento (un'altra economia canaglia?) è tanto diffusa e condivisa. Cercata. Invocata." (da Lelio Demichelis, Economia canaglia fin dalle crociate, "TuttoLibri", "La Stampa", 29/03/'08)

sabato 10 maggio 2008

No Mose e No Tav «Difendiamo il territorio, non l'orticello»

No Mose e No Tav «Difendiamo il territorio, non l'orticello»
Orsola Casagrande
24 gennaio 2007, Il Manifesto

La carica dei «no» contro la base Usa
No Mose e No Tav si preparano alla manifestazione del 17 febbraio: «Il movimento no global è entrato in una nuova fase. E riparte dal locale»

C'è un punto su cui tutti, da Vicenza a Venezia, dalla val Susa a Messina a Reggio Calabria, concordano: siamo di fronte a una nuova fase del movimento. Un «nuovo ciclo, - come lo chiama Tommaso Cacciari dell'assemblea permanente No Mose - che arriva dopo quello no global, della protesta contro le vetrine del potere e che ha come denominatore comune il territorio. Ma non in una logica di difesa del proprio orticello: i comitati sono consapevoli che quello che c'è in ballo non è soltanto un problema locale, perché rientra in un modello di sviluppo che viene imposto e che non ci piace». I comitati, i cittadini, da un capo all'altro dell'Italia hanno cominciato a riappropriarsi dei loro territori, nell'ottica di un bene comune, che va tutelato e per il quale vanno pensati modelli di sviluppo che sono altro da quelli che hanno in mente i governanti. In Inghilterra lo stesso processo di evoluzione del movimento è cominciato con l'efficace azione di lotta definita reclaim the streets, cioè «riprendiamoci le strade». Ed era un movimento nato contro la costruzione di autostrade e passanti che devastavano il territorio ma soprattutto presupponevano un modello di sviluppo fatto di più automobili e quindi più inquinamento. Ovviamente reclaim the streets, come i comitati che «pullulano in giro per l'Italia», sono molto più sofisticati nella loro elaborazione e nelle loro analisi. E continuano a dimostrarlo con assemblee puntuali e informate che permettono anche la proposta di soluzioni alternative. «Naturalmente a Vicenza - dice ancora Tommaso Cacciari - c'è un problema in più rispetto agli altri territori, perché lì si vuole portare un pezzo di guerra globale. A Vicenza infatti si vuole creare una base militare che sarà la più grande d'Europa, da dove partiranno le future missioni degli Usa e dei loro alleati contro il medioriente».
Ma come per Venezia che si è mobilitata contro il Mose o la val Susa contro il treno ad alta velocità, anche a Vicenza i comitati hanno rifiutato in primo luogo decisioni calate dall'alto e hanno cominciato a «dare voce ad una necessità - come dice Giorgio Airaudo, segretario della Fiom di Torino - che è quella di ricostruire partecipazione e democrazia dei cittadini». I metalmeccanici torinesi sono un pezzo importante della lotta in val Susa e hanno dato la loro adesione alla manifestazione vicentina del 17 febbraio. «Siamo al fianco - dice ancora Airaudo - di chiunque difenda in modo non violento e democratico un posto di lavoro come un territorio, perché per noi è importante ripensare al modello di sviluppo che vogliamo nelle nostre città. Ed è evidente che come nei posti di lavoro vogliamo che a contare tornino ad essere i lavoratori e non le merci, così nei territori vogliamo che a contare siano i cittadini che devono poter partecipare alle decisioni che riguardano il loro futuro».
In val Susa i comitati No Tav sono naturalmente solidali e al fianco dei vicentini. Saranno a Vicenza il 17, con le loro bandiere, la loro storia, la loro lotta. E saranno a Vicenza anche il 3 febbraio. Si sta infatti organizzando una grande giornata con tutti i comitati d'Italia. «Il patto di mutuo soccorso - dice Lele Rizzo dei comitati popolari - che abbiamo tenuto a battesimo proprio qui in val Susa si dimostra più necessario che mai. Dopo le parole, passiamo ora alla fase concreta, sperimentiamo sul campo quello che abbiamo detto essere indispensabile. Perché dopo l'inverno scorso in val Susa le cose non sono più le stesse. Quando una comunità diventa comunità, cioè si organizza, non si può più ignorare». La forma di organizzazione che hanno scelto i comitati dal nord al sud è quella dell'assemblea permanente. Dove ogni testa è un voto e non ci sono gerarchie. L'esperienza della val Susa in questo senso è emblematica perché mette insieme istituzioni, amministrazioni, cittadini, comitati, centri sociali, operai, studenti. Ma anche le assemblee No Mose e No Dal Molin stanno offrendo dinamiche interessanti su come un'altra forma di partecipazione e decisione è possibile. Il Veneto da questo punto di vista si riconferma un laboratorio vivace e, come lo ha definito il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari in un dibattito a Radio Sherwood, sempre in un «positivo subbuglio».

mercoledì 7 maggio 2008

Vicenza vista dall'alto

Vicenza vista dall'alto
Marta Ragozzino
il Manifesto 21/02/2007

Bastava salire di poche centinaia di metri sul Monte Berico che domina Vicenza, superare la Rotonda di Palladio e la villa Valmarana affrescata da Tiepolo, raggiungere il Santuario con la sua basilica barocca ed affacciarsi dalla terrazza panoramica di piazza della Vittoria a guardare la città dall'alto, per capire. Al santuario con terrazza di Monte Berico ci si può arrivare salendo per la strada carozzabile ma anche a piedi, seguendo il bel porticato settecentesco che, partendo dalle mura scaligere, si inerpica per settecento metri, raccordando la città «a forma di scorpione» al complesso in cima alla collina si narra che anche Goethe l'abbia percorso per guardare nella sua interezza la città palladiana e abbia apprezzato il semplice e lunghissimno porticato più dell'imponente basilica barocca. Basta vedere Vicenza dall'alto per capire, senza bisogno di altre spiegazioni, l'assoluto errore, «senza se e senza ma» come dicono i cittadini vicentini - e hanno ripetuto tutte le donne salite sul palco sabato scorso - del progetto della nuova base militare al Dal Molin.
Il colpo d'occhio è efficace lascia stupefatti e non concede alcun margine di incertezza: la città è tutta lì sotto, con i suoi monumenti splendidi e famosi, che l'unesco ha iscritto nella Lista dei beni che fanno parte del Patrimonio dell'Umanità, Monumenti tardo gotici e rinascimentali che, pur dall'alto, sembrano vicinissimi: la basilica palladiana, le belle chiese, il Teatro Olimpico, i palazzi dalle preziose facciate, il municipio, la Torre di Piazza, la Loggia; si intuisce persino il tracciato della città romana ora ridisegnato dal portici di quella medievale e moderna. In effetti Vicenza è una città piuttosto piccola, conta 150.000 abitanti, meno di quelli che si sono dati appuntamento sabato per difenderla dallo scempio approvato anche da Prodi (forse perché l'80% dei vicentini ha votato a destra e Vicenza è considerata terreno elettorale perduto, come sospettano i cittadini di «sinistra»). Decine di migliaia di persone, forse 200.000, che hanno manifestato pacificamente, camminando tutto attorno al tracciato delle mura scaligere che circondano il centro storico. Già, il centro storico. Guardando dalla balconata si vede, sulla sinistra, giusto al margine dell'abitato, la base che c'è già, quella di Ederle. Dall'altra parte, molto prossima al centro storico, proprio dove sono i monumenti cari a tutto il mondo, si vede invece una grande area verde guarnita da un bosco e confinata da un piccolo fiume, il Bacchiglione, che traversa la città. A ben vedere dall'alto della collina, si tratta dell'unica area non costruita di Vicenza, potrebbe essere, con gran vantaggio per tutti gli abitanti (ad esempio per tutti quei bambini che hanno sfilato in corteo tra passeggini, palloncini e maschere di carnevale), un parco, un giardino. Invece è il Dal Molin, l'aereoporto che si vorrebbe trasformare nella temuta nuova base militare americana. Proprio lì, dentro all'abitato, nel cuore della città fondata dal romani, a poche centinaia di metri da quel centro storico che per l'unesco è «patrimonio di tutto il mondo», a un tiro di schioppo dal monumenti di Andrea Palladio, uno dei più importanti architetti del Cinquecento, che è, con i suoi capolavori, il simbolo di Vicenza, a cui è dedicato un importante Centro internazionale di studi e rappresenta uno degli aghi della bilancia della vita culturale cittadina. Buttare lì una base militare rappresenta, basta guardare per capire, un vero e proprio insulto al patrimonio culturale (vicentino, nazionale e mondiale), un bene comune prezioso e «inalienabile», sul quale si fonda la nostra identità civile. In effetti, a guardar meglio l'affaire del Dal Molln, oltre ad essere un problema politico, e dei più gravi, è anche un problema culturale, urbanistico e ambientale, Progettare edifici e strutture militari, tra l'altro con funzioni offensive e per un paese straniero, nell'unica area verde di una città storica ricca di monumenti di tale riconosciuto «valore» non dovrebbe essere consentito dalle leggi che proteggono il nostro patrimonio culturale e ambientale. In effetti, la nostra legislazione di tutela, che era la più avanzata, rigorosa e imitata del mondo (prima di essere pasticciata dal precedente governo, interessato a far cassa con i beni culturali), è dotata di norme, dirette e indirette, che impediscono di violentare quel paesaggio culturale che caratterizza tanto peculiarmente il nostro bel paese. Stesso discorso vale, a maggior ragione, nelle città storiche: esistono, oltre alle norme dei piani regolatori e ai vincoli diretti (che riguardano edifici storici), addirittura vincoli di «rispetto» (ovvero indiretti) che limitano (nell'altezza, nel sedime, nel volume; nella tipologia) o addirittura vietano la costruzione di edifici in prossimità di monumenti o edifici storici. Ma lo strumento più importante che la legislazione di tutela statale ancora prevede (condividendola con la legislazione regionale concorrente) è la Valutazione dell'impatto ambientale (Via) a cui dovrebbero essere sottoposti i nuovi progetti, le nuove strutture di pertinenza dello stato, come sono le cosiddette «grandi opere». Il discorso dovrebbe valere anche per le strutture strategiche, militari, direzionali, soprattutto se queste sono progettate all'interno di un nucleo urbano dalle straordinarie caratteristiche storiche, culturali e architettoniche come Vicenza. Per questa ragione il Ministero che si occupa del patrimonio culturale e del paesaggio, attivato dal Ministero dell'ambiente, dovrebbe, ai sensi dell'art. 26 dell'attuale Codice, autorizzare per parte sua, previa istruttoria delle soprintedenze territoriali competenti, tali progeni in base alla Via. Quella della Via è dunque una buona strada da seguire, bene hanno fatto i Verdi a fare interpellanza. Ragionevole sarebbe scatenare un movimento internazionale d'opinione su questo delicato quanto trascurato aspetto. Vien fatto di chiedersi se Rutelli, che in qualità di vice prernier tanto frettolosainente si è espresso sull'ordine pubblico, ha trovato o troverà tempo per affacciarsi, come ministro dei beni culturali, dalla balconata del Monte Berico.

Vicenza vista dall'alto. La città palladiana è dell'umanità, non degli Usa

Vicenza vista dall'alto. La città palladiana è dell'umanità, non degli Usa
Marta Ragozzino
il manifesto del 21 Febbraio 2007

Una lotta globale Dalla terrazza panoramica si capisce un altro perché del rifiuto democratico alla nuova base

Bastava salire di poche centinaia di metri sul Monte Berico che domina Vicenza, superare la Rotonda di Palladio e la villa Valmarana affrescata da Tiepolo, raggiungere il Santuario con la sua basilica barocca ed affacciarsi dalla terrazza panoramica di piazza della Vittoria a guardare la città dall'alto, per capire. Al santuario con terrazza di Monte Berico ci si può arrivare salendo per la strada carozzabile ma anche a piedi, seguendo il bel porticato settecentesco che, partendo dalle mura scaligere, si inerpica per settecento metri, raccordando la città «a forma di scorpione» al complesso in cima alla collina: si narra che anche Goethe l'abbia percorso per guardare nella sua interezza la città palladiana e abbia apprezzato il semplice e lunghissimo porticato più dell'imponente basilica barocca.
Basta vedere Vicenza dall'alto per capire, senza bisogno di altre spiegazioni, l'assoluto errore, «senza se e senza ma» come dicono i cittadini vicentini - e hanno ripetuto tutte le donne salite sul palco sabato scorso - del progetto della nuova base militare al Dal Molin.
Il colpo d'occhio è efficace, lascia stupefatti e non concede alcun margine di incertezza: la città è tutta lì sotto, con i suoi monumenti splendidi e famosi, che l'Unesco ha iscritto nella Lista dei beni che fanno parte del Patrimonio dell'Umanità. Monumenti tardo gotici e rinascimentali che, pur dall'alto, sembrano vicinissimi: la basilica palladiana, le belle chiese, il Teatro Olimpico, i palazzi dalle preziose facciate, il municipio, la Torre di Piazza, la Loggia; si intuisce persino il tracciato della città romana ora ridisegnato dai portici di quella medievale e moderna.
In effetti Vicenza è una città piuttosto piccola, conta 150.000 abitanti, meno di quelli che si sono dati appuntamento sabato per difenderla dallo scempio approvato anche da Prodi (forse perché l'80% dei vicentini ha votato a destra e Vicenza è considerata terreno elettorale perduto, come sospettano i cittadini di «sinistra»). Decine di migliaia di persone, forse 200.000, che hanno manifestato pacificamente, camminando tutto attorno al tracciato delle mura scaligere che circondano il centro storico. Già, il centro storico. Guardando dalla balconata si vede, sulla sinistra, giusto al margine dell'abitato, la base che c'è già, quella di Ederle. Dall'altra parte, molto prossima al centro storico, proprio dove sono i monumenti cari a tutto il mondo, si vede invece una grande area verde guarnita da un bosco e confinata da un piccolo fiume, il Bacchiglione, che traversa la città. A ben vedere dall'alto della collina, si tratta dell'unica area non costruita di Vicenza, potrebbe essere, con gran vantaggio per tutti gli abitanti (ad esempio per tutti quei bambini che hanno sfilato in corteo tra passeggini, palloncini e maschere di carnevale), un parco, un giardino.
Invece è il Dal Molin, l'aereoporto che si vorrebbe trasformare nella temuta nuova base militare americana. Proprio lì, dentro all'abitato, nel cuore della città fondata dai romani, a poche centinaia di metri da quel centro storico che per l'Unesco è «patrimonio di tutto il mondo», a un tiro di schioppo dai monumenti di Andrea Palladio, uno dei più importanti architetti del Cinquecento, che è, con i suoi capolavori, il simbolo di Vicenza, a cui è dedicato un importante Centro internazionale di studi e rappresenta uno degli aghi della bilancia della vita culturale cittadina.
Buttare lì una base militare rappresenta, basta guardare per capire, un vero e proprio insulto al patrimonio culturale (vicentino, nazionale e mondiale), un bene comune prezioso e «inalienabile», sul quale si fonda la nostra identità civile. In effetti, a guardar meglio, l'affaire del Dal Molin, oltre ad essere un problema politico, e dei più gravi, è anche un problema culturale, urbanistico e ambientale. Progettare edifici e strutture militari, tra l'altro con funzioni offensive e per un paese straniero, nell'unica area verde di una città storica ricca di monumenti di tale riconosciuto «valore» non dovrebbe essere consentito dalle leggi che proteggono il nostro patrimonio culturale e ambientale. In effetti, la nostra legislazione di tutela, che era la più avanzata, rigorosa e imitata del mondo (prima di essere pasticciata dal precedente governo, interessato a far cassa con i beni culturali), è dotata di norme, dirette e indirette, che impediscono di violentare quel paesaggio culturale che caratterizza tanto peculiarmente il nostro bel paese.
Stesso discorso vale, a maggior ragione, nelle città storiche: esistono, oltre alle norme dei piani regolatori e ai vincoli diretti (che riguardano edifici storici), addirittura vincoli di «rispetto» (ovvero indiretti) che limitano (nell'altezza, nel sedime, nel volume, nella tipologia) o addirittura vietano la costruzione di edifici in prossimità di monumenti o edifici storici.
Ma lo strumento più importante che la legislazione di tutela statale ancora prevede (condividendola con la legislazione regionale concorrente) è la Valutazione dell'impatto ambientale (Via) ai cui dovrebbero essere sottoposti i nuovi progetti, le nuove strutture di pertinenza dello stato, come sono le cosiddette «grandi opere». Il discorso dovrebbe valere anche per le strutture strategiche, militari, direzionali, soprattutto se queste sono progettate all'interno di un nucleo urbano dalle straordinarie caratteristiche storiche, culturali e architettoniche come Vicenza. Per questa ragione il Ministero che si occupa del patrimonio culturale e del paesaggio, attivato dal Ministero dell'ambiente, dovrebbe, ai sensi dell'art. 26 dell'attuale Codice, autorizzare per parte sua, previa istruttoria delle soprintedenze territoriali competenti, tali progetti in base alla Via. Quella della Via è dunque una buona strada da seguire, bene hanno fatto i Verdi a fare interpellanza. Ragionevole sarebbe scatenare un movimento internazionale d'opinione su questo delicato quanto trascurato aspetto.
Vien fatto di chiedersi se Rutelli, che in qualità di vice premier tanto frettolosamente si è espresso sull'ordine pubblico, ha trovato o troverà tempo per affacciarsi, come ministro dei beni culturali, dalla balconata del Monte Berico.

Storici contro la base «Palladio minacciato»

Storici contro la base «Palladio minacciato»
al. mo.
IL GIORNALE DI VICENZA, 20/02/2007

Interpellanza di Folena: «Monumenti a rischio»

La petizione
Lionello Puppi e oltre cento fra studiosi e docenti firmano un appello all’Unesco «Il sito Usa è troppo vicino ad alcune ville palladiane»

Dopo i Verdi che chiedono la valutazione di impatto ambientale, l'ultima arma anti-base Usa è il paesaggio. Con l'interrogazione ai ministri Rutelli, D'Alema e Parisi del deputato di Rifondazione comunista Pietro Folena che sventola la petizione di 109 fra studiosi di arte e architettura capitanati dal vicentino professor Lionello Puppi assieme alla Fondazione Benetton. Petizione che solleva il problema della presenza «a poche centinaia di metri dal Dal Molin di opere del Palladio protette dall'Unesco».
Quali sono? «Intanto la Basilica palladiana - spiega Puppi -. Ma anche Villa Caldogno, Villa Cricoli sulla Marosticana e Villa Valmarana a Vigardolo, tutte e poche centinaia di metri dal Dal Molin». Così Folena ha preso carta e penna: «Questo ulteriore elemento - ha scritto - deve far riflettere il governo sull'opportunità di realizzare una base militare a poca distanza da siti sotto tutela internazionale verso la quale abbiamo obblighi cogenti quanto e forse più di quelli verso gli Usa». Da qui l'interpellanza urgente e l'incontro a breve tra il comitato dei firmatari della petizione con la Commissione cultura della Camera di cui Folena è presidente.
Nell'appello docenti, studiosi e ricercatori (anche stranieri) chiedono «alle autorità responsabili di valutare se quella colata chilometrica di cemento, lo sconvolgimento del traffico stradale, il transito di aerei militari a 2500 metri in linea d'aria dalla Basilica palladiana e a 500 metri da una delle più belle ville di Palladio a Caldogno, siano compatibili con i riconoscimenti e conseguenti responsabilità locali conferite dall'Unesco ai monumenti e alle ville del Palladio». E quindi vogliono sapere dall'Unesco «se l'iniziativa sia compatibile con la solenne dichiarazione di appartenenza del sito al patrimonio dell'umanità».
Tra le firme, oltre a quella di Puppi, docente emerito di storia dell'arte a Ca' Foscari, studioso di Andrea Palladio e componente del comitato consultivo della Fondazione presieduta da Luciano Benetton, c'è anche Ippolito Pizzetti, uno dei maggiori esperti italiani di paesaggistica; Margherita Azzi Visentini, docente di storia dei giardini e paesaggi all'università di Milano; Monique Mosser, che insegna all'università di Parigi-Versailles e Carmen Anon, architetto e studiosa del paesaggio di Madrid. In tutto, si diceva, 109 firme.
Spiega Puppi: «Vogliamo sapere se la realizzazione di una base militare e di guerra al posto di un'area verde, con tutto quello che comporta, sia compatibile con il riconoscimento dell'Unesco. Perché vicino ci sono delle ville palladiane. Come Villa Caldogno, una delle più belle». In più «la città rischia di diventare un obbiettivo del terrorismo, che invece di colpire una base superprotetta potrebbe prendersela con i monumenti-simbolo». Insomma, dice Puppi «dove c'è arte e cultura non c'è posto per una base militare».

lunedì 5 maggio 2008

Così le industrie farmaceutiche manipolano gli studi clinici (con l’aiuto dei ricercatori)

l’Unità 5.5.08
Una serie di articoli su «Jama» analizza le carte dei processi intentati alla Merck per il farmaco Vioxx
Così le industrie farmaceutiche manipolano gli studi clinici (con l’aiuto dei ricercatori)
di Cristiana Pulcinelli

Il quotidiano americano Wall Street Journal ha scritto pochi giorni fa che l’industria farmaceutica Pfizer sta cercando un accordo con i pazienti che le hanno fatto causa. Al centro della questione ci sono due farmaci prodotti dall’azienda (il Celebrex e il Bextra) accusati di aver causato in alcuni pazienti infarti e ictus.
Si tratta di due antidolorifici appartenenti alla classe degli inibitori della cox 2. Qualche anno fa sembrava che questi farmaci avessero aperto una nuova frontiera nella medicina: antinfiammatori in grado di trattare dolori acuti e condizioni come l’artrite reumatoide e l’artrosi senza, peraltro, dare i disturbi gastro-intestinali dei normali antinfiammatori. A questa classe apparteneva anche un altro farmaco, il Vioxx, prodotto dalla multinazionale Merck & co e ritirato dal mercato alla fine del 2004 perché faceva aumentare i rischi di malattie cardiocircolatorie.
Già nel 2005 era nata una polemica perché sembrava che la Merck, pur sapendo che il suo farmaco aveva effetti collaterali di non lieve entità, avesse taciuto fino a che la verità non era venuta a galla. Ora, la rivista Journal of American Medical Association (Jama) ha riaperto la questione con due articoli e un editoriale pubblicati sul numero del 16 aprile scorso.
Il primo articolo, firmato da J.S. Ross e colleghi, contiene accuse pesanti che mettono in discussione l’indipendenza e l’etica dei ricercatori medici. Sostengono infatti gli autori, basandosi sulle carte dei processi, che gli articoli sulle sperimentazioni cliniche del rofecoxib (la molecola chiamata commercialmente Vioxx) erano quasi tutti scritti da impiegati dell’industria che produceva il farmaco. Tuttavia, questi autori non comparivano con il loro nome: gli studi erano invece firmati da docenti universitari che avevano poco o niente a che fare con la ricerca di cui scrivevano. Si trattava per lo più di medici che naturalmente prestavano il loro nome in cambio di un compenso finanziario. Peraltro, in molti casi, questi stessi medici nascondevano il fatto di aver ricevuto finanziamenti e compensi per consulenze dalla Merck.
Il secondo articolo, firmato da B.M. Patsy e da R.A .Kronmal, racconta invece come faceva la Merck a dare un’immagine erronea del rapporto tra rischi e benefici del rofecoxib nelle sperimentazioni cliniche. L’azienda cercava di minimizzare il rischio di mortalità utilizzando un’analisi chiamata «as treated», ovvero che considera solo i partecipanti allo studio che hanno portato a termine la cura.
Dall’analisi dei dati venivano eliminati quindi tutti coloro che non avevano effettuato il trattamento fino in fondo. In questo modo però si rischia di escludere dall’analisi le persone che non finiscono il trattamento perché hanno effetti collaterali pesanti, oppure quelle che muoiono. Alcuni mesi prima di condurre queste sperimentazioni cliniche, dicono gli autori dello studio, la Merck aveva condotto un altro tipo di analisi chiamato «intention to treat». In sostanza, si prendeva in considerazione tutto il gruppo dei pazienti a cui era stato assegnato il trattamento con il farmaco. Da questa analisi sembra emergesse con chiarezza un aumento del rischio di mortalità tra i pazienti che prendevano il Vioxx.
Qual è la lezione che possiamo trarre da questi due articoli? L’editoriale di Jama si pone questa domanda e cerca anche di rispondere.
In primo luogo, la manipolazione e il riportare in modo distorto i risultati delle ricerche non possono avvenire senza la cooperazione (attiva e tacita) dei ricercatori clinici, degli altri autori, delle riviste, dei revisori e persino della Food and Drug Administration.
In secondo luogo, la fiducia nella ricerca clinica sta vacillando anche perché la manipolazione degli studi da parte dell’industria farmaceutica sta aumentando o comunque sta venendo sempre più allo scoperto.
La questione non è semplice e vale soprattutto per farmaci blockbuster, ovvero quelli che realizzano affari per più di un miliardo di dollari l’anno, come appunto era il Vioxx.
L’editorialista conclude sostenendo che l’antico principio etico «primum non nocere», secondo cui l’attività del medico deve in primo luogo non procurare danni, non deve valere solo per il medico che cura i pazienti, ma anche per tutti coloro che sono coinvolti nella ricerca medica e nel sistema delle pubblicazioni biomediche.

giovedì 1 maggio 2008

Nelle casette di Suburbia, Los Angeles. «Così la crisi abbatte l'american dream»

Nelle casette di Suburbia, Los Angeles. «Così la crisi abbatte l'american dream»

di Andrea Rocco

Il Manifesto del 26/04/2008

Parla D. J. Waldie, autore di «Holy Land». Gli immobili, le banche e la caduta della middle class

Arriviamo a Lakewood dopo un'ora di guida sulla 710, una freeway urbana ormai completamente strozzata, come quasi tutte quelle di Los Angeles, da un flusso spesso di auto e mezzi pesanti, in un pomeriggio di aprile già bollente. Lakewood, al centro-sud dell'area metropolitana di Los Angeles è il prototipo di «suburbia», costruito nel Dopoguerra per dare casa alle giovani famiglie di reduci e ai dipendenti dell'industria aeronautica, lanciati nel boom economico. Comunità pianificata, costruita a tempo di record, case vendute a ritmi di 30-50 al giorno, nel 1951 in un week-end se ne vendettero 300. Città bianca all'80% fino a vent'anni fa, è oggi un sobborgo etnicamente diverso di quasi 80 mila abitanti. La scritta sul lungo Del Amo Boulevard che dalla freeway porta al municipio, costeggiando le casette unifamiliari e la Shopping Mall, ci avverte che è finita la città di Long Beach e che entriamo a Lakewood: «Benvenuti a Lakewood: I tempi cambiano, i valori no». Potrebbe averla scritta (e forse lo ha fatto davvero) il nostro interlocutore, D.J.Waldie, che ci aspetta in un cubicolo della City Hall di Lakewood dove lavora per il servizio di informazione pubblica, da oltre 30 anni. Ma questo signore gentile e occhialuto non è un semplice travet. E' l'autore del libro-culto su Suburbia (Holy Land, vedi box), collaboratore del Los Angeles Times, New York Times, L.A. Weekly, traduttore di poeti francesi e, cosa ancora più bizzarra, un californiano stanziale, che ha vissuto sempre nella stessa casa, e che non guida l'auto.

Come vive Suburbia l'attuale crisi economica e immobiliare, che sembra colpire le radici stesse del sogno americano?
I primi ad essere colpiti davvero dalla crisi e a perdere la casa sono i neo-proprietari «marginali», spesso immigrati recenti, qualche volta ancora illegali. Su di loro si scaricano due elementi. Il crollo di un sistema che produceva case sulla base di un illusione, quella che chiunque può ottenere un mutuo e che qualunque cosa possa accadere nella loro vita personale o lavorativa, i soldi continueranno ad arrivare. La seconda cosa è che questi neo-proprietari sognavano di poter guardare a se stessi senza vedere la propria situazione reale, i rischi che si stavano assumendo, non erano in grado di valutare le loro vite, in cui gli equilibri finanziari erano precari e appesi a matrimoni in crisi, a qualche problema con la legge, all'esistenza di «demoni privati», l'alcool, la droga. Questi membri della «non-proprio-middle-class» sono in qualche modo simili ma anche diversi dai miei genitori. Anche loro, all'inizio degli anni '50, non avevano grandi risorse economiche, ma erano stati «disciplinati» dalla Grande Depressione, dalla guerra e, soprattutto, entravano in un periodo economico di grande espansione. Oggi quelle virtù o quelle discipline non esistono più e l'economia è in contrazione.

Secondo molti esperti, quello che è successo ai «marginali», che lei descriveva, è destinato ad allargarsi ad altri strati, anche di «vera middle class» con un effetto-domino di cui non si possono prevedere gli esiti...
E' questo il nodo. Ed è la questione più importante per chi come me lavora in istituzioni di governo locale. Ci sono già, qui a Lakewood case, per ora non molte, che sono state riprese dalle banche e ce ne saranno di più in futuro. Ci sono case abbandonate dai proprietari, che se ne sono semplicemente andati per non pagare più le rate del mutuo e sono lì, abbandonate e vuote, a volta bersaglio di vagabondi, luogo di traffici di droga, tutte cose assolutamente inaudite per Lakewood. Ci sarebbe poi da domandarsi perché la maggioranza degli Americani pensa che l'economia stia andando malissimo ma che quella parte dell'economia da cui dipendono loro stessi non sia destinata alla recessione. C'è un ottimismo infondato che porterà ad altri conflitti anche emotivi, perché presto si renderanno conto che la crisi non è solo là fuori da qualche parte, ma anche qui.

E quale è il ruolo dei governi locali in posti come Lakewood, in una situazione del genere?
Ci rendiamo conto della situazione, ma va sottolineato che i governi locali hanno mezzi giuridici e finanziari molto limitati. Non abbiamo proprietà nostre, né mezzi per acquistarne. Il Comune si limita a verificare l'osservanza di alcune regole, chiedere di tagliare i cespugli o di riparare una finestra. Ma non lo facciamo noi, perché si presume che esista un proprietario che si prenderà cura della casa. Peraltro non ci sono case popolari a Lakewood, e ce ne sono in genere poche in tutta la California del Sud.

Su un altro livello sembra che il sogno americano della casa individuale di proprietà in un sobborgo tranquillo come Lakewood sia stato espropriato, che la casa e i modi per comprarla siano diventati l'oggetto e la materia prima di sofisticate operazioni di speculazione finanziaria. Più Wall Street che Main Street, insomma?
Bisogna fare chiarezza. In particolare per il caso di Lakewood, gli impresari immobiliari anche negli anni '50 hanno usato uno schema speculativo. D'altronde costruire molte case velocemente in California è sempre stata una attività condotta ai limiti della legge. Operazioni di questo genere alla fine vengono giudicate solo sulla base del loro successo. Il caso di Lakewood è stato di successo per le ragioni che ho spiegato prima. L'espansione suburbana di Los Angeles, con l'urbanizzazione di terre agricole comprate a poco prezzo negli anni '50 era resa possibile anche dalla politica monetaria del governo federale che ha creato migliaia di posti di lavoro nell'industria del «credito immobiliare». Ma anche allora le cose non erano fatte nel pieno rispetto delle regole, anche allora non si faceva molto caso all'effettiva capacità di ripagare il mutuo. Si trattava di una illusione, di una fantasia condivisa, quella che comunque saresti stato capace di ripagare quel prestito, che naturalmente le banche non tenevano per sé ma «impacchettavano» e rivendevano a Wall Street. Non c'è niente di nuovo in questo e, ripeto, fin dall'inizio della «occupazione americana» della California, l'immobiliare ha sempre portato con sé un certo grado di illusioni, speculazione e forzatura della legge.

Siamo in un anno elettorale. E se la crisi dei mutui sta diventando un issue nella campagna elettorale, sembra che il tema più vasto dell'uso dello spazio urbano, del territorio e dell'interazione sociale, non riesca ad entrare in alcun modo nel discorso politico
Purtroppo è proprio così. Ed è molto diverso da quello che succedeva a fine anni '90- inizio 2000. Nel 2000 il tema dello sviluppo urbano, dell'uso del territorio era un tema importante della campagna presidenziale e Al Gore fece proposte assai interessanti su questi temi. Adesso sembra evaporato dal discorso politico generale e relegato a qualche tavolo di specialisti. Eppure nelle frequenti indagini condotte su questi temi sembra che gli americani siano molto interessati a come si gestisce lo sviluppo, sul quanto e sul dove, ma anche sul «come», sulle questioni proprio di «estetica urbana».

Mi faccia una istantanea di Lakewood, anno di grazia 2008.
E' sempre un posto dove la maggior parte della gente ha un'aspirazione per l'«abbastanza» e non per il «di più». Cerco di stare vicino e di sentire i sottili cambiamenti nella vita della comunità. La gente è certo più ansiosa rispetto a qualche anno fa. E più arrabbiata, e capisco benissimo perché. La maggior parte dei giovani oggi ha posti di lavoro non sindacalizzati e non garantiti, a rischio di essere «esportati» in Cina o Sud America, o in settori dell'economia legati alla volatilità della fiducia dei consumatori. Ci sono molte ragioni di ansietà. D'altro lato il tessuto sociale di Lakewood regge, non è andato in pezzi, non è un luogo di sogni infranti o di possibilità perdute, ma certo quelle possibilità hanno perso un po' del loro splendore. Il tradizionale ottimismo americano era condiviso da queste comunità di lavoratori, l'idea è sempre stata quella che le cose, domani, andranno meglio. Ma forse oggi si inizia a pensare che non andranno affatto meglio.

In un suo recente articolo ha descritto Lakewood come un luogo dove «le narrazioni suburbane sono state per la prima volta oggetto di produzione di massa per le speranze di milioni di persone. Ancora oggi vengono raccontate, ma la gente con le sue ansie e le sue speranze sono di diversi colori ed etnicità...io continuo a vivere qui perché mi interessa vedere che cosa succederà a questi nuovi narratori di storie suburbane».
E' ancora così. Non ho perso questo interesse, anche se non so predirne l'esito. Forse non sarò in grado di comprenderle, queste storie, in parte perché sono raccontate in lingue che non parlo. In parte perché raccontate in «stili» che non conosco. Un po' è per la dura realtà dell'invecchiare ed essere meno in sintonia con ciò che accade. Ma posso dirle che quando riuniamo i residenti di Lakewood, e lo facciamo molto spesso, uno potrebbe pensare che si tratti di gente semplice, non sofisticata, che ragiona per clichés. In realtà è gente di tutte le età, le razze e le religioni e tuttavia hanno un profondo livello di comprensione. Lo stare insieme porta loro molta soddisfazione, sono soddisfatti di vivere in un luogo con un senso di comunità, lo apprezzano e lo difendono in modo sorprendentemente articolato. Non so però che cosa potrebbe accadere se le cose peggiorassero drammaticamente.

Penuria alimentare, un dossier di Le Monde diplomatique

Penuria alimentare, un dossier di Le Monde diplomatique

di Geraldina Colotti

Il Manifesto del 29/04/2008

«Abbiamo fame», un grido sempre più frequente nelle rivolte che, dall'Africa alle Filippine, dall'India ad Haiti, portano in piazza le masse popolari, colpite dalla «crisi del riso» e dalle scelte del Fondo Monetario

«Fmi-Faim», Fmi ovvero fame. Il Fondo monetario internazionale produce fame. Va diritto al cuore del problema l'editoriale di Serge Halimi, direttore di Le Monde diplomatique, nel numero di maggio della rivista internazionale - in uscita il 15, e per tutto il mese, insieme al manifesto. Sullo stesso tono il dossier centrale del Diplo che spiega con dati e cifre in quante lingue del pianeta si sta pronunciando il grido: «abbiamo fame». Dall'Africa ad Haiti, dall'Indonesia alle Filippine, quote sempre maggiori di popolazione sono colpite dalla penuria alimentare. E seppure un paese come l'Australia quest'anno promette un ottimo raccolto invernale di frumento (12,4 milioni di tonnellate), che farebbe sperare in un ribasso dei prezzi internazionali, anche il nord del pianeta non può sentirsi al sicuro. La rabbia delle popolazioni esplode, evidenziando la geografia e le cifre stratosferiche dei «rifugiati per fame».
In Senegal, le madri di famiglia che non hanno più niente da far bollire, marciano con le pentole rovesciate, che ogni sera risuonano in tutte le case come tamburi. In Egitto dove si protesta per il pane, l'opposizione islamista accusa il governo di aver provocato la crisi acquistando prodotti importati a minor prezzo dall'estero anziché dai produttori locali, che preferiscono coltivare frutta, più facilmente esportabile sui mercati internazionali. Ad Haiti, le rivolte per fame, a inizio aprile, hanno provocato cinque morti e duecento feriti e la destituzione del primo ministro Jacques-Edouard Alexis. E diversi paesi asiatici, specialmente Indonesia e Filippine, temono il moltiplicarsi di manifestazioni come quella che, all'inizio dell'anno, ha portato in piazza a Giakarta oltre 10.000 persone contro l'aumento del prezzo del tofu. Rivolte contro l'aumento del prezzo della soia, della carne, e soprattutto del riso. Nel dossier, gli articoli del giornalista Dominique Baillard ricordano i dati della Fao, l'Organizzazione delle Nazioni unite per l'agricoltura e l'alimentazione: per la prima volta dal 1989, il prezzo della varietà di riso «thaie», che fa da riferimento, ha superato i 500 dollari (320 euro). Paesi come le Filippine, primo importatore mondiale, sono in serie difficoltà in quanto l'offerta globale di riso (420 milioni di tonnellate) risulta al di sotto della domanda (almeno 430). Le riserve mondiali di riso - ricorda ancora il Diplo - hanno toccato il livello mondiale più basso da 25 anni: 70 milioni di tonnellate, la metà di meno di quelle del 2000.
Colpa dei cinesi che hanno cominciato a mangiare troppa carne? Colpa degli stati come l'Argentina che hanno scelto di «proteggere» i loro prodotti destinando meno quote all'esportazione e più al mercato interno? Si può condannare uno stato che scelga di nutrire i propri cittadini prima di sottostare ai diktat dei mercati internazionali? Il punto - mostra il dossier - è invece quello di indicare a chiare lettere il fallimento e i paradossi dei «piani di aggiustamento strutturale» imposti dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale. L'equazione: sviluppo solo a prezzo delle privatizzazioni di beni e servizi e di investimenti agevolati per le grandi imprese multinazionali, imposta al sud del mondo, ha portato alla situazione attuale. E ora, proprio la Banca mondiale, che «ha contribuito a indebolire gli agricoltori imponendo la liberalizzazione dell'economia», mette questo settore al centro degli sforzi per la lotta contro la povertà del pianeta nel suo rapporto sullo sviluppo del 2008. Paradossi in cui si dibattono anche gli stati in via di sviluppo dei 37 paesi minacciati dalla crisi alimentare.
In Costa d'Avorio, dal primo d'aprile le autorità hanno sospeso le tasse d'importazione per i generi di prima necessità come l'olio da tavola, il riso, il grano o lo zucchero. Il governo senegalese ha bloccato per un breve periodo il prezzo del pane nell'ottobre 2007. In Mali, si sperimenta invece il pane burunafama, farina di grano mista a cereali locali come il sorgo (immangiabile, dicono le associazioni dei consumatori). In Egitto, il governo ha sovvenzionato il pane e lo ha fatto distribuire dall'esercito. Misure che gravano sui già magri bilanci degli stati africani e che l'Fmi giudica «false soluzioni». Alcune realtà del sud, sperimentano però altre direzioni. Il Diplo ne dà conto, indicando i risultati raggiunti, per esempio, in Mali dalle scelte dei coltivatori di cotone. Rimettere l'agricoltura locale e la sicurezza alimentare al centro delle politiche economiche vuol dire porre il problema della sovranità e del controllo delle proprie risorse. Un tema che, in America latina, ha già prodotto risultati evidenti.