giovedì 1 maggio 2008

Storico israeliano: a Gaza in atto una pulizia etnica

l’Unità 1.5.08
Storico israeliano: a Gaza in atto una pulizia etnica
Pappe rilancia la sua tesi a pochi giorni dal 60° anniversario della nascita dello Stato ebraico
di Umberto De Giovannangeli

L’intellettuale scomodo per Gerusalemme ha lasciato l’università di Haifa per insegnare
in Gran Bretagna

IL SUO ULTIMO LIBRO è destinato a scatenare dibattito e polemiche. Per il profilo del suo autore e per la tesi sostenuta. L’autore è uno degli intellettuali più scomodi di Israele e per Israele: Ilan Pappe. Storico, saggista, nato ad Haifa da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, Pappe ha insegnato per anni ad Haifa per poi trasferirsi all’Università di Exeter. Il libro in questione è «La pulizia etnica della Palestina» (Fazi Editore).
Partiamo dall’attualità. E dalla tragedia di Gaza. Israele giustifica l’assedio della Striscia come atto di difesa. È una giustificazione accettabile?
«Assolutamente no. Non è una giustificazione accettabile. L’assedio della Striscia di Gaza è una forma di punizione collettiva pensata per aumentare la pressione sui palestinesi perché abbandonino qualsiasi forma di resistenza e accettino di sopravvivere in quella che è una vera e propria gigantesca prigione costruita per loro».
Israele sostiene che la sofferenza della popolazione civile di Gaza è responsabilità assoluta dell’«organizzazione terroristica denominata Hamas». Qual è la sua opinione in merito?
«I rappresentanti di Hamas sono stati eletti democraticamente nel gennaio 2006 e pertanto sono i legali rappresentanti dei palestinesi residenti a Gaza. Qualunque rifiuto a negoziare con loro non potrà che prolungare la sofferenza per entrambe le parti in conflitto».
Tra pochi giorni Israele celebrerà il 60mo della sua fondazione. Quale bilancio trarre?
«Sfortunatamente, come ho cercato di spiegare ne La pulizia etnica della Palestina, il sistema di valori su cui si fonda lo Stato d’Israele fin dalla sua nascita non è fra i più nobili, essendo strutturato attorno a una ideologia etnocentrica che pone come prioritaria la necessità di avere uno Stato ebraico con una solida maggioranza ebraica che controlli larga parte dei territori palestinesi. Nel creare il proprio Stato-nazione, il movimento sionista non condusse una guerra che "tragicamente, ma inevitabilmente" portò all’espulsione di parte della popolazione nativa, ma fu l’opposto: l’obiettivo principale era la pulizia etnica di tutta la Palestina, che il movimento ambiva per il suo nuovo Stato. Questa visione non è cambiata affatto dal 1948 ad oggi. Il valore di uno Stato a base etnica è ancora al di sopra di qualunque diritto umano o civile».
In Italia è appena uscito il suo ultimo libro, «La pulizia etnica in Palestina» (Fazi Editore). Su cosa fonda questo grave atto d’accusa?
«Dopo un’attenta considerazione di quanto è realmente accaduto nel 1948, sono arrivato alla conclusione che l’unica definizione giuridicamente e moralmente corretta per descrivere fedelmente quanto realizzato dagli israeliani era proprio quello di pulizia etnica. È un termine giuridico che descrive qualunque tentativo da parte di un gruppo etnico di cacciarne un altro da un’area geografica condivisa, il che spiega esattamente la strategia israeliana. Ed è anche un concetto morale, che fa rientrare questo tipo di politiche nel campo dei crimini contro l’umanità. Mi lasci aggiungere che è nostro dovere strappare dall’oblio la semplice ma orribile storia della pulizia etnica della Palestina, un crimine contro l’umanità che Israele ha voluto negare e far dimenticare al mondo. Non tanto per un atto di ricostruzione storiografica o per un dovere professionale, ma per una decisione morale, in assoluto il primo passo da compiere se vogliamo che la riconciliazione possa avere una possibilità e la pace possa mettere le radici nelle terre lacerate di Palestina e Israele».
Quella che lei racconta è dunque una pace impossibile?
«No, tutt’altro. Resto convinto che Israele non ha altra scelta che quella di trasformarsi spontaneamente, un giorno, in uno Stato civile e democratico. Che ciò sia possibile, lo vediamo dalle strette relazioni sociali che palestinesi ed ebrei hanno intessuto, malgrado tutto, nel corso di questi lunghi e travagliati anni, sia dentro che fuori Israele. Quella pace, lo sappiamo, è a portata di mano: lo sappiamo, soprattutto, dalla maggioranza dei palestinesi che hanno rifiutato di lasciarsi disumanizzare da decenni di brutale occupazione israeliana e che, nonostante gli anni di espulsione e di occupazione, credono ancora nella riconciliazione. Ma la finestra di opportunità non starà aperta per sempre. Israele può essere destinato a restare ancora un Paese pieno di collera, le sue azioni e la sua condotta dettate dall’oltranzismo nazionalista e dal fanatismo religioso, la fisionomia del suo popolo permanentemente alterata dalla giusta vendetta. Ma per quanto tempo possiamo continuare a chiedere, se non a sperare, che i nostri fratelli e sorelle palestinesi continuino ad avere fiducia in noi e non soccombano completamente alla disperazione al dolore in cui sono precipitate le loro vite l’anno in cui Israele eresse la sua fortezza sopra i loro villaggi e le loro città distrutte?»