sabato 28 febbraio 2009

Usa: promozione scorretta di antidepressivi per uso pediatrico

The Wall Street Journal online 26.2.09
Usa: promozione scorretta di antidepressivi per uso pediatrico

Secondo il Dipartimento di Giustizia americano, Forest Laboratoires avrebbe commercializzato in modo improprio gli antidepressivi Celexa (citalopram) e Lexapro (escitalopram) per uso pediatrico. Nonostante studi scientifici dimostrino l'inefficacia dei due prodotti nei bambini e che la loro assunzione possa causare pensieri suicidi, l'azienda avrebbe promosso questi medicinali, non approvati da Fda per uso pediatrico, presso i medici anche tramite tangenti.

martedì 24 febbraio 2009

Citigroup va verso il crack. Usa pronti a nazionalizzare

Citigroup va verso il crack. Usa pronti a nazionalizzare

Sara Volandri

Liberazione del 24/02/2009

Il "rumor" circolava già da tempo, ora però, dopo gli ultimi disastrosi rovesci in Borsa (-41% lo scorso venerdì), sembra quasi una certezza: il governo statunitense sta infatti per entrare direttamente nel capitale di Citigroup, il colosso bancario nato nel 1998 dalla fusione dell'istituto di credito Citicorp con la compagnia di assicurazioni Travelers Group. Lo riferisce il Wall Street Journal , secondo cui l'amministrazione Obama sarebbe molto vicina all'acquisizione di parte delle quote azionarie del gruppo (tra il 25 e il 40%). Un'operazione che, a questo punto, sembra l'unica strada per salvare la banca da un fallimento che provocherebbe una vera e propria catastrofe sociale. Con un fatturato annuo che supera i 2mila miliardi di dollari e 330mila posti di lavoro tra impiegati e manager, Citigroup è infatti la più grande banca finanziaria del pianeta. Di fatto si tratterebbe di una nazionalizzazione parziale, ipotesi impensabile fino a qualche mese fa nella patria del libero mercato. Ma l'avvento della tempesta finanziaria che sta facendo sprofondare il pianeta nel baratro della recessione, ha scompaginato le regole del gioco.
Quando il vento a crisi si è abbattuto sul capitalismo d'oltreoceano, falcidando letteralmente giganti finanziari che parevano inattaccabili come Lehman Brhoters o Fannie & Freddie, il consiglio d'amministrazione di Citigroup ha inizialmente pensato di poter fronteggiare la crisi, sperando di superare in tempi brevi la disastrosa congiuntura economica. In tal senso novembre c'è stata una ricapitalizzazione di 45 miliardi di dollari che doveva ridare ossigeno alle esangui finanze dell'azienda Ma tanto ottimismo è stato in fretta vanificato dai ripetuti tracolli del titolo nell'indice Dow Jones e dallo spettro del crack. Così, per citare le parole del premio nobel per l'economia Paul Krugman, la nazionalizzazione diventa quasi un'opzione «inevitabile». Tanto più, che alla notizia degli imminenti aiuti pubblici, ieri il titolo ha chiuso con un attivo del 12%, il miglior risultato dopo mesi di agonia.
Certo, nulla è ancora acqusito e le trattative per un'operazione così complessa vanno avanti febbrili. Ma all'orizzonte non si intravedono soluzioni alternative. Bisognerà vedere modi e tempi del salvataggio.
Sempre secondo il Wall street journal , non è ancora chiaro il ruolo che avrà il governo nella gestione della banca e nemmeno quello dell'amministratore delegato Vikram Pandit e dell'attuale consiglio di amministrazione. «E' anche possibile che i negoziati falliscano, ma il governo statunitense potrebbe ritrovarsi con una quota del 40% di Citigroup. I dirigenti sperano invece che la quota in mano al governo sia più vicina al 25%», commenta il più celebre quotidiano finanziario del mondo. Spiegando inoltre che i dirigenti di Citigroup sperano di convincere gli investitori di Singapore, quelli del Kuwait e degli Emirati, di trasformare i loro titoli in azioni ordinarie, scongiurando così l'intervento dello Stato. Ipotesi che, al momento, pare poco praticabile e comunque non in grado di salvare i destini di Citigroup.
E dire che proprio venerdì scorso la Casa Bianca e il Tesoro avevano sostenuto la necessità di conservare un sistema bancario privato: «L'amministrazione continua a credere fermamente che un sistema bancario privato rappresenti la soluzione per sopravvivere», aveva detto il presidente Obama. Il problema però è che un sistema privato che rischia di far fallire i propri gioielli di famiglia non serve a nulla e a nessuno. Dunque non resta che nazionalizzare. Con buona pace dei grandi guru del libero mercato.

lunedì 23 febbraio 2009

Rapporto israeliano contro Israele: «Illegali le colonie in Cisgiordania»

Rapporto israeliano contro Israele: «Illegali le colonie in Cisgiordania»

Simonetta Cossu

Liberazione del 20/02/2009

Quasi tutti abusivi gli insediamenti nelle terre dei palestinesi

Hanno provato a censurarlo e se potessero lo distruggerebbero, ma il rapporto Spiegel è lì e non può essere cancellato. Già nel marzo 2005 un rapporto della giurista Talia Sasson aveva rivelato che il ministero della Difesa forniva (e fornisce) appoggio diretto agli insediamenti, nonostante alcuni di questi siano illegali anche per la legge israeliana.
Ed ecco che oggi spunta un nuovo rapporto che però a differenza di quello Sasson è ufficiale e fotografa in modo quasi scientifico il furto di terra palestinese ad opera degli insediamenti ebraici, rivelando che anche quelli che si ritenevano legali sono in parte o totalmente avamposti illegali.
Il rapporto che è stato reso pubblico a fine gennaio dal giornalista Uri Blau sul settimanale Haaretz , documenta in modo dettagliato come scuole, sinagoghe, e anche commissari di polizia sono stati costruiti su terreni di proprietà privata palestinese.
Ma come detto la caratterstica principale del documento è la ufficialità.
Redatto nel 2006 da un consigliere speciale dell'allora ministro della Difesa Shaul Mofaz, prende appunto il nome da suo estensore: il generale Baruch Spiegel. Vi raccontiamo come è nato e cosa dice.
Dopo il rapporto Sasson il ministro della Difesa Mofaz decise che era giunto il momento di mettere ordine, quello che serviva era raccogliere informazioni credibili e reali per contestare le eventuali azioni legali che i proprietari palestinesi, le organizzazioni umanitarie e pacifiste avrebbero potuto avanzare sulla legalità degli insediamenti.
Nominato nel gennaio 2004 come consigliere dal ministo Mofaz, il generale Baruch Spiegel ricevette diversi incarichi. Innanzitutto gestire alcuni problemi sui quali Israele si era impegnata con gli Stati Uniti. Come quello di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi che vivevano nei pressi del muro di separazione e supervisionare i militari posizionati ai checkpoints. Ma il suo vero compito era principalemente un altro: creare la banca dati sugli insediamenti. L'amministrazione israeliana capì che Stati Uniti e una organizzazione pacifista come Peace Now erano a conoscenza di informazioni molto più dettagliate di quelle in possesso al ministero della Difesa. Non era un caso. Di fatto le amministrazioni israeliane per decenni hanno preferito non sapere troppo di quanto accadeva in quel'area.
Ed è così che il generale Spiegel e il suo staff, dopo aver firmato un accordo che gli imponeva la segretezza, si sono messi al lavoro e hanno incominciato a raccogliere informazioni.
Risultato di questa ricerca è stato alla fine l'antitesi di quello che si voleva produrre e di fatto rappresenta una vera e propria bomba politica per il governo israeliano. Per la prima volta una mappatura degli avamposti ebraici rivela quello che per decenni si era voluto nascondere.
Incominciamo con alcuni numeri. Oltre al gran numero di terreni requisiti senza titolo, ad esempio in più di 30 colonie complessi edilizi e infrastrutture come strade, scuole, sinagoghe e stazioni di polizia sono avvenute su terreni di proprietà di privati cittadini palestinesi. Il 75% delle costruzioni che si trovano sugli insediamenti sono state portate a termine senza permessi o addirittura in violazione di questi. Ma quello che rivela il rapporto Spiegel non è solo l'illegalità degli insediamenti, già in parte rivelata dal rapporto Sasson, ma quello che è il vero cuore dell'impresa che c'è dietro le colonie.
Le informazioni contenute nella banca dati non sono conformi infatti alle posizioni prese ufficialmente dal governo di Israele. Ad esempio sul sito del Ministero degli Esteri si legge «Le azioni di Israele relative all'uso e alla distribuzione della terra sono prese nel rispetto delle leggi e delle norme di diritto internazionale. Israele non requisisce terreni privati per insediare nuovi insedimenti». Cosa che stride con il fatto che in molte colonie è il governo, principalmente attraverso il Ministero per la casa e l'edilizia, ad essere il principale responsabile dell'edilizia. Avendo scoperto che molte delle violazioni riguardavano l'edificazione di strade, uffici pubblici e simili, la banca dati prova la responsabilità del governo centrale per il mancato rispetto della legge e dei controlli.
A confermare che il materiale raccolto è esplosivo è stato lo stesso Spiegel che ha dovuto ammettere cosa ha catalogato: informazioni scritte supportate da foto aeree, stratografie fornite dal sistema informatico geografico che indicano lo status dei terreni, legale e reale. I confini reali degli insediamenti. I piani urbanistici delle città, i documenti del governo che approvano le colonie.
Le informazioni contenute nel rapporto Spiegel sono rimaste segrete per mesi, la ragione impugnata dal governo è stata che renderle pubbliche avrebbe minato la sicurezza di Israele e messo a rischi le sue relazioni internazionali. Cosa facile da comprendere se si pensa alle innumerevoli volte che i premier israeliani si sono impegnati a fermare l'espansione delle colonie.
Le responsabilità per le violazioni delle leggi nazionali ed internazionali che sono registrate nel rapporto riguardano quasi tutti i governi degli ultimi anni. Per citare solo gli ultimi, da Tipzi Livni, attuale leader di Kadima, che è stata per anni a capo della commissione ministeriale nominata perchè si implementasse quanto era stato rivelato dal rapporto Sasson all'ultimo ministro della Difesa, il laburista Barak che si è opposto alla richiesta del Movimento per la Libertà di Infromazione e di Peace Now di pubblicare il rapporto. Il caso è ora in attesa di un pronunciamento del tribunale amministrativo di Tel Aviv che dovrà decidere se il governo viola la legge non rendendo noto il rapporto Spiegel.
Ma bastano quelle poche informazioni che sono filtrate per capire che per Israele diventa veramente difficile chiedere ai palestinesi di dimostrare trasparenza nella loro lotta contro le basi del terrorismo mentre nasconde al mondo intero quanto ha fatto con gli insediamenti. O stando alle parole che George Mitchell (oggi inviato di Obama) scrisse nel suo rapporto del 2001: «Il tipo di cooperazione sulla sicurezza che il governo di Israele richiede non può cooesistere con l'attività degli insediamenti».
Nel 2008 stando alle rilevazioni fatte da Peace Now sono state costruite 1,518 nuove strutture (principalmente quelle che vengono definite caravans, abitazioni in containers). Di queste 261 sono in avamposti illegali. Inoltre sempre nel'ultimo anno si sono gettate le basi (infrastrutture, lavori con macchinari di terra) per la costruzione di 63 nuove strutture. L'organizzazione pacifista denuncia inoltre che durante l'ultimo assedio a Gaza molti insediamenti hanno colto l'occasione per espandersi. Alla faccia degli impegni presi da Israele di fermare i coloni.

Se la lotta al Muro si fa con i pacifisti israeliani

Se la lotta al Muro si fa con i pacifisti israeliani

Irene Ghidinelli Panighetti

Liberazione del 21/02/2009

E' venerdì, e come di consueto a Bil'in, villaggio palestinese a nord di Ramallah, c'è la manifestazione contro il muro organizzata dal comitato popolare, cui partecipano anche attivisti internazionali e Israeliani, e che ogni volta è repressa con violenza dall'esercito di Tel Aviv, che spara prima lacrimogeni e poi proiettili che di gomma hanno solo un sottile rivestimento sulla punta. Ma oggi è un appuntamento più significativo del solito, perché ricorre il quarto anniversario dell'inizio delle proteste nonviolente degli abitanti, i quali vogliono riavere i loro terreni agricoli, che il muro ha inglobato all'interno di due colonie illegali, illegali come tutte le colonie che continuano a sorgere in tutto il territorio della Cisgiordania. La recinzione era stata costruita nel 2003 e gli abitanti del villaggio avevano subito intentato una causa presso l'Alta Corte israeliana che, nel corso di diverse sentenze, aveva riconosciuto il loro diritto a rientrare in possesso delle proprie terre ma il ministero della Difesa israeliano ha sempre rifiutato di riconoscere le sentenze, preferendo la repressione violenta delle manifestazioni, durante le quali molte persone, tra abitanti del villaggio, attivisti e giornalisti, sono stati ferite, spesso in maniera grave.
Anche oggi l'esercito non ha risparmiato colpi contro i manifestanti, qualche centinaio di persone, tra bandiere palestinesi, quelle del villaggio, del Fronte Democratico di Liberazione della Palestina ma anche degli israeliani Anarchist against the wall . Non appena il corteo si avvicina alla recinzione il cielo si riempie dell'acre fumo dei lacrimogeni. È proprio con un fazzoletto sulla bocca e un limone per limitare il bruciore agli occhi che intervistiamo Iyad Burnat, coordinatore del "Friends of freedom and justice and popular committee" di Bil'in. Ci ricorda il verdetto della corte israeliana, considerato come una vittoria, così come una vittoria è stata la mobilitazione di questi quattro anni; «noi abbiamo mandato il messaggio a tutto mondo» ci dice con orgoglio, e cioè che «vincere si può, contro un muro che non è costruito per la sicurezza ma solo per togliere terra ai Palestinesi». L'importanza del modello Bi'lin è sottolineata anche da Mustafa Barghouthi, Parlamentare palestinese, leader del partito di sinistra Mubadara (L'Iniziativa): «Questo villaggio ha insegnato che una lotta popolare e non violenta può vincere, e dimostra anche la determinazione del popolo palestinese contro il muro dell'apartheid. E' tempo che la gente nel mondo si muova, che inizi azioni di pressione e boicottaggio contro Israele: questo è quello che chiediamo oggi. E questo vale anche per Gaza: se ci fosse un grande movimento di solidarietà, forte e attivo, il problema si risolverebbe una volta per sempre».
Il lancio di gas continua, qualcuno si sente male, arriva un ambulanza a soccorrere i feriti, anche se qui nessuno si spaventa più di tanto, dopo quattro anni queste situazioni sono all'ordine del giorno, quasi fossero parte della normalità della vita. E' calma anche un'anziana signora, che appartiene alle Donne in Nero di Tel Aviv e che ci teneva ad essere qui oggi, in questo quarto anniversario. Per lei «questa lotta significa mandare un messaggio chiaro agli israeliani, cioè che è in corso una occupazione, che sta distruggendo i palestinesi, e che il muro è un abominio. Israele dovrebbe vergognarsi delle cose che sta facendo».
Non è la sola israeliana presente, anzi, sono diverse decine gli attivisti, molti dei quali molti sono degli habitués , come Adam Keller, dell'associazione Gush Shalom: «E' molto importante sostenere questa lotta perchè è un esempio di lotta non violenta, un modello per gli altri palestinesi e per il mondo intero». Mondo intero un po' distratto, a dire il vero, che di Bi'lin sa poco o niente, nonostante le iniziative internazionali che gli abitanti hanno organizzato per far conoscere la loro situazione e per chiedere solidarietà.
La prossima sarà tra poco, dal 22 al 24 aprile, quando al villaggio ci sarà la quarta conferenza internazionale sulla resistenza popolare con gli obiettivi di mostrare esempi reali di lotta e sofferenza palestinese, di diffondere la lotta popolare nonviolenta, di rinforzare le relazioni con i movimenti internazionali di solidarietà e trovare nuovi mezzi per sostenere la lotta. Anche se sembra ormai una routine, è proprio la costanza uno dei fattori che ha portato al successo di questo modello di protesta.
Lasciamo Bi'lin con un arrivederci, tra i ragazzini che dopo aver lanciato sassi contro i soldati durante la manifestazione, vengono ora a salutarci e che con gli occhi ci chiedono di tornare, di non lasciali soli. Noi internazionali, avvelenati dalle bugie dei media main stream, a volte ignoranti o indifferenti alle lotte che avvengono lontano dai riflettori, saremo in grado di accogliere questa struggente richiesta di solidarietà?

Contro la crisi, alle Presse di Mirafiori arrivano i Gruppi di acquisto

Contro la crisi, alle Presse di Mirafiori arrivano i Gruppi di acquisto

Mauro Ravarino

Il Manifesto del 21/02/2009

Un conto è mangiar poco, talvolta può anche far bene. Ma mangiare male, invece, è sempre cattiva cosa. E la crisi economica porta i lavoratori a rinunciare, oltre che alla quantità, anche alla qualità del cibo. Allora perché - si sono detti alle Presse di Mirafiori - non provare a mangiare bene, senza spendere un capitale? Anzi, pagando meno del solito, perché se alla quarta settimana non ci si arriva già con lo stipendio pieno, figuriamoci in cassa integrazione.
Le possibilità ci sono: basta abbattere i costi di distribuzione, pubblicità e quant'altro. Come fare? Andando direttamente dal produttore, magari in campagna. E così, per la prima volta in una fabbrica metalmeccanica è nato un Gas, un gruppo di acquisto solidale. Gli operai si sono autorganizzati e la scorsa settimana hanno raccolto le prenotazioni per il paniere. La Fiom ha dato supporto non solo logistico: «Non ci rifugiamo nel mutualismo - ha spiegato il segretario Giorgio Airaudo - la lotta contrattuale continua, pure quella per la difesa del posto e a sostegno del reddito. Ma in questa fase così critica è indispensabile costruire delle reti di solidarietà nella migliore tradizione del movimento operaio».
Ieri davanti alla porta 15 di Mirafiori è stata la volta del debutto per il primo paniere di prodotti alimentari. Quello della quarta settimana. C'era un po' di ansia da esordio e anche qualche fotografo a immortalare l'evento. Ecco il camion frigo per il cambio turno: un bacchetto e fuori le buste della spesa. Tre tipi di carne, latte, stracchino, parmigiano, gorgonzola, uova e mozzarelle. E arrivano i primi lavoratori. Beppe è dal 1987 in Fiat, «uno degli ultimi assunti» precisa. Fa il delegato e ha aderito al Gas, che qua chiamano Gasp, perché ci mettono al fondo l'iniziale di Presse: «Il gruppo nasce per venire incontro a chi paga sulla propria pelle il prezzo della crisi ed è un modo per riscoprire la solidarietà negli acquisti». Era da tempo che alle Presse stilavano un grafico sugli indici dei prezzi al consumo diffusi dall'Istat. Fatti due calcoli, hanno notato che si poteva risparmiare, senza rinunciare alla qualità. In un supermercato lo stesso paniere varia dai 31 ai 56 euro, un cesto Gasp ne costa invece 25. I fornitori sono, per ora, la Centrale del latte di Alessandria e Asti e la cooperativa Sapori 4 Cascine.
In un angolo c'è Fortunato, 49 anni: da 31 lavora in Fiat e da 6 è in cassa integrazione. Di crisi, se ne intende. Sta in disparte, ha in mano la busta paga, quella di gennaio e quella di dicembre. Cinquecentosettanta euro di differenza, tra l'una e l'altra. Nell'ultimo mese ha lavorato, mentre sotto Natale è rimasto a casa, prendendo 700 euro: «La rotazione prevista per legge - mi spiega - non è mai applicata in modo regolare, sempre a svantaggio di qualcuno. Dal 2003 avrò fatto 9 mesi di servizio. Il problema è che la forbice tra salari e costo della vita si allarga sempre di più e se non avessi i miei genitori a darmi una mano, con 360 euro al mese di mutuo, non saprei come campare». Non conosceva il «paniere», la vede come una buona idea, ma non si sbilancia. Silvia sorride di più e si avvicina con la sua borsa: «Tanto di cappello alla Fiom, ora però voglio assaggiarli questi prodotti prima di dire come sono». Sempre alla porta 15 è continuata la raccolta firme per chiedere l'adeguamento dell'indennità di cassa integrazione all'80%. Come dice Antonello: «A una crisi straordinaria chiediamo al governo provvedimenti straordinari». Alle due e mezza si smonta tutto. Elisa, da trent'anni in Fiat, è contenta del risultato: «Ormai siamo un centinaio». La stessa iniziativa sarà ripetuta mercoledì alla Viberti di Nichelino.

A picco le banche. Mercati a rotoli

A picco le banche. Mercati a rotoli

Bruno Perini

Il Manifesto del 21/02/2009

Venerdì nero per il sistema bancario mondiale. Crollano i colossi del credito negli Stati Uniti e in Europa. Gli operatori temono la recessione e l'incertezza dei mercati. L'immissione di liquidità non basta. È l'ora delle nazionalizzazioni

Alla fine di ripetute scosse da cardiopalma, la giornata di ieri sarà ricordata come il venerdì nero del sistema bancario mondiale. Trema Wall Street e le onde del nuovo terremoto arrivano fino alla Casa Bianca. Tremano le borse europee. Piazza affari ha lasciato sul campo un crollo del 5% e le più importanti banche italiane come Intesa e Unicredit hanno tracollato con punte che vanno dal 15% al 20%. L'ipotesi di nazionalizzazione delle banche, avanzata ieri da Silvio Berlusconi, non ha fatto altro ch accrescere la paura. Gli scricchiolii più insidiosi toccano proprio le cattedrali del denaro. L'epicentro è lì e sembra che gli operatori di tutto il mondo guardino ai massicci interventi dei governi con aria di sufficienza, come se non fossero state immesse nel sistema centinaia di miliardi di liquidità. Il rischio ora è che i governi non riescano più a controllare i mercati mentre il panico sale senza sosta. D'altronde il mercato finanziario mondiale è seduto su una polveriera: secondo l'International Herald Tribune il mercato dei derivati tocca i 27 trilioni di dollari e bisogna considerare che da qualche mese a questa parte è fortemente dimagrito proprio a causa della crisi finanziaria mondiale che ha provocato la grande fuga dai derivati. Che cosa sta accadendo? Pare proprio che l'epoca dei titoli tossici non sia ancora finita ed ora lo spettro della recessione provoca le prime grandi vittime con migliaia di disoccupati e centinaia di aziende in difficoltà. Sembrerà strano ma non lo è: gli operatori finanziari, abituati a guardare gli indici finanziari questa volta guardano ai dati dell'economia reale e dopo aver registrato le scarne cifre che arrivano dall'industria e dai settori chiave dell'economia reale scaricano sul mercato tonnellate di titoli, soprattutto bancari. L'epicentro dunque resta sempre il sistema bancario, considerato, malgrado le clamorose nazionalizzazione, la fonte principale del virus. Bastano due dati registrati ieri per capire l'entità del terremoto: a poco più di due ore dalla chiusura di Wall Street, due colossi bancari statunitensi come Bank of America e Citigroup perdono rispettivamente il 25,70% e il 28,69%. Rispetto a un anno fa le azioni di queste banche hanno perso rispettivamente il 72%, il 62% e il 59%. Altro dato da brivido riguarda il colosso dell'automobile che alla stessa ora perde quasi il 23,50%.
Dopo aver violato al ribasso anche l'ultima soglia tecnica stabilita con il minimo di 7.522 punti il 20 novembre 2008, Wall Street si è incamminata su un percorso che minaccia di portare a nuove sofferenze nell'arco delle prossime sedute. La tenuta di quota 7.500 punti (giovedì il Dow Jones ha invece terminato a 7.465 punti) era infatti considerata una specie di linea Maginot per un indice che ha perso il 47% dai suoi valori massimi e che sembra incapace di organizzare una qualsiasi forma di resistenza. Ora il Dow Jones rischia di sfondare anche il minimo toccato il 10 ottobre 2002 a 7.181 punti. Se questo avvenisse per i mercati finanziari americani si aprirebbero veramente le porte del baratro tanto più che i dati macroeconomici si fanno sempre più preoccupanti. Gli analisti ci dicono che in febbraio abbiano perso il posto di lavoro tra le 600mila e le 700mila persone e già il dato sulle richieste di sussidi di disoccupazione ha rivelato ieri che il totale degli americani che ricevono aiuti di cassa integrazione dallo stato è balzato a quasi 5 milioni, il valore più alto di sempre o quantomeno dal 1967, quando il dipartimento del Tesoro ha iniziato a compilare questa statistica. Continuano inoltre a peggiorare le condizioni del sistema finanziario nonostante il piano di stimolo da 787 miliardi di dollari varato dall'amministrazione Obama e dai numerosi interventi di puntello organizzati dal Tesoro e dalla Federal Reserve. Colossi del calibro di Bank of America e Citigroup trattano ora rispettivamente sotto la soglia di 4 e 3 dollari e tornano a riemergere le voci di una loro possibile nazionalizzazione.
Che la giornata sarebbe stata nera come la pece lo si è capito dalle prime battute del mercato dei future: a circa un'ora e mezza dall'avvio delle contrattazioni i future sul Dow Jones scendevano dell'1,65%, quelli sul Nasdaq dell'1,41% e quelli sull'S&P500 dell'1,69%. Rispetto a un anno fa le azioni di queste banche hanno perso rispettivamente il 72%, il 62% e il 59%.
A Piazza Affari è stata durissima. Gli operatori, dicono in molti, evidentemente hanno preso sul serio le parole di Silvio Berlusconi a proposito delle nazionalizzazioni e invece di rassicurarsi sono stati presi dal panico. E a Milano si è proprio guardato al titolo della Cà de Sass (-15,34% a 1,78 euro) che è precipitato sotto la soglia psicologica dei 2 euro, cosa che non accadeva dal marzo del 2003. Ma non basta, se si pensa alla capitalizzazione del gruppo guidato da Corrado Passera, scesa a quota 21 miliardi, mandando in fumo quasi 4 miliardi si capisce che a questo punto anche il sistema bancario italiano rischia di essere travolto.

giovedì 19 febbraio 2009

No Dal Molin a mani alzate in questura

No Dal Molin a mani alzate in questura

Liberazione del 15/02/2009

«Siamo tutti delinquenti», gridavano, tutti con le mani alzate, i tremila vicentini giunti in corteo davanti la questura. Una manifestazione decisa in seguito alle cariche di martedì contro inermi pacifisti - 14 i denunciati per associazione a delinquere - che volevano intralciare il viavai di camion all'opera nel cantiere per la nuova base Usa imposta alla città berica. Avrebbe dovuto prendere vita da Piazza dei Signori alle 14.30 («per salvaguardare la giornata dei commercianti») ma c'è stato un ritardo. Tra gli striscioni esibiti un grande cuore rosso con la scritta "Città di Palladio smilitarizzata"; altri recitano "Governo ladro ci rubi terra e democrazia", e "Noi associazione per delinquere ? Voi delinquenza della società". A prendere per primo la parola è stato il sindaco Achille Variati, per sottolineare che «se venisse confermata l'ipotesi di reato reagirei con tutti i poteri in mio possesso». Dopo un paio d'ore e senza incidenti la manifestazione si è sciolta davanti alla questura dove l'azione del questore Giovanni Sarlo e del prefetto Piero Mattei prefigura, secondo i No Dal Molin, una emergenza democratica. «Non ci fermiamo - hanno detto gli organizzatori - da sabato prossimo saremo in tutti i quartieri della città a spiegare alla gente il nostro progetto, mentre in contemporanea nel week-end promuoveremo una raccolta firme contro la base, allestendo gazebo in centro». Domani inoltreranno alla questura la domanda per una nuova manifestazione in viale Ferrarin, area d'accesso all'ex aeroporto Dal Molin dove sta nascendo la nuova struttura nordamericana.

Ocalan, 10 anni senza pace. Nel cuore della UE la rabbia del Kurdistan dimenticato

Ocalan, 10 anni senza pace. Nel cuore della UE la rabbia del Kurdistan dimenticato

Orsola Casagrande

Il Manifesto del 19/02/2009

Era il 15 febbraio del 1999 quando il leader del Pkk, dopo il no dell'Italia alla richiesta di asilo politico, viene arrestato in Kenya con l'aiuto dei servizi Usa e israeliani e consegnato al governo turco. Da allora è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza sull'isola di Imrali. Stremato fisicamente dalle condizioni di isolamento, Apo continua a chiedere una «soluzione negoziata» per i diritti del suo popolo

«Sono venuto in Europa per cercare di trovare una soluzione pacifica al conflitto che da quindici anni vede kurdi e turchi contrapposti». Non si possono dimenticare le parole di Abdullah Ocalan, il presidente del Pkk (il partito dei lavoratori del Kurdistan) poco dopo il suo sbarco e il suo arresto a Fiumicino il 12 novembre 1998. Le speranze di Ocalan e di milioni di kurdi andarono presto deluse. Il governo italiano di centro sinistra impacciato e confuso non seppe prendere una decisione che sarebbe stata storica: farsi in qualche modo portavoce di quella offerta di negoziato, di quella possibilità di pace. La Turchia non prese nemmeno in considerazione le parole di Ocalan e cominciò immediatamente e freneticamente a fare da una parte pressioni sull'Italia perché estradasse il leader kurdo e dall'altra sul resto del mondo, in particolare gli Stati uniti e Israele perché la aiutassero a catturare Ocalan. L'Europa non solo non sostenne l'Italia ma chiuse le porte in faccia al presidente del Pkk e assieme a lui, a milioni di kurdi che in Europa vivono da anni.
Ieri per le strade di Strasburgo come in ogni città del Kurdistan (turco e iracheno), migliaia di persone hanno urlato ancora una volta la loro rabbia per quella opportunità di pace velocemente spazzata sotto lo zerbino di casa Europa. E hanno gridato di fare qualcosa per lo stesso Ocalan, che da dieci anni è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza dell'isola di Imrali, unico detenuto, sempre più affaticato e minato nel fisico da un regime di isolamento che lo sta lentamente spezzando. Non nella testa, e infatti il leader kurdo continua a parlare di pace e a proporre soluzioni negoziate. Ma nel corpo, anche per via di un subdolo avvelenamento denunciato dai medici che sono riusciti ad analizzare qualche capello del leader.
Era il 15 febbraio 1999 quando dal Kenya è arrivata la notizia che Abdullah Ocalan, Apo per i kurdi, era stato catturato. Da Roma il presidente del Pkk era partito un mese prima, il 15 gennaio. In Italia aveva chiesto asilo politico, ma le pressioni della Turchia si erano fatte pesantissime per il pavido governo D'Alema. Che infatti «invitò» il leader kurdo a togliere il disturbo. Frenetiche le verifiche per trovare un paese disposto ad ospitarlo. Impresa che si rivela impossibile. A quel punto è Apo a non volere più stare in Italia. Una delle immagini più angoscianti e umilianti è quella di Ocalan che sorvola i cieli d'Europa vedendosi negato il diritto ad atterrare. Alla fine l'aereo si dirige in Grecia, dove il presidente kurdo resterà pochi giorni. Quindi nuovo viaggio verso l'ambasciata greca a Nairobi, in Kenya. Ma è un viaggio verso le braccia dei suoi nemici. E infatti Ocalan verrà catturato dai turchi, con l'aiuto dei servizi segreti degli Stati uniti e di Israele. L'altra immagine indelebile in questa tragedia è quella di Ocalan sotto sedativi, la benda agli occhi, le mani legate, che farfuglia mentre le teste di cuoio si prendono gioco di lui. La vicenda giudiziaria del leader kurdo prosegue in Turchia, con Ocalan rinchiuso nel carcere-isola di Imrali. Poi il processo-farsa, e la difesa lucida e puntuale di Apo. Quindi la condanna a morte, commutata in ergastolo (nell'agosto 2002) perché la Turchia ha nel frattempo congelato la pena capitale nella speranza di accelerare il suo cammino verso l'Unione europea. I legali di Ocalan fanno ricorso anche alla corte europea per i diritti umani che in prima battuta stabilisce che il processo turco non è stato equo. Ma i turchi esaminano le carte e presentano la loro risposta: non c'è nulla da rifare, i diritti dell'imputato sono stati rispettati. Tanto basta a Strasburgo che accoglie le giustificazioni della Turchia e stabilisce che il caso Ocalan è chiuso. Peccato che il 4 ottobre del 1999 l'Italia gli avesse riconosciuto il diritto all'asilo politico.
Dopo la cattura di Ocalan una Turchia giubilante pensava di aver chiuso definitivamente il capitolo Pkk. Sarebbe stata solo questione di tempo e i guerriglieri, senza leader e allo sbando, avrebbero presto capitolato. La previsione del governo e dell'esercito turchi però non poteva essere più distante dalla realtà. Il Pkk infatti dopo aver incassato il duro colpo ha continuato a proporre una soluzione negoziata del conflitto. Ma i governi turchi (l'arresto di Ocalan è avvenuto sotto il governo di Bulent Ecevit, poi rimpiazzato dall'attuale premier Recep Tayyip Erdogan) hanno confermato la loro miopia negando qualunque possibilità alla trattativa. Al contrario la guerra contro i kurdi è ripresa più pesante che mai. Fino ai bombardamenti del nord Iraq, nell'inverno del 2007 che ancora continuano. I kurdi hanno però continuato a percorrere la via democratica con il Dtp, il partito della società democratica che alle elezioni politiche del 2007 ha mandato in parlamento venti deputati. Il 29 marzo prossimo ci saranno le elezioni amministrative. Un appuntamento importante e i sondaggi dicono che il Dtp è in crescita, mentre l'Akp non gode di ottima salute. Sulle montagne intanto si continua a combattere ed è chiaro che la guerra e la repressione hanno avuto come effetto anche quello di garantire un ricambio e nuovi guerriglieri per il movimento di liberazione kurda. I soprusi e gli abusi dello stato turco sono stati confermati in questi giorni dal rapporto dell'associazione per i diritti umani: le torture sono aumentate nell'ultimo anno così come la repressione.
Abdullah Ocalan è nato nel 1949, figlio di una famiglia di contadini del villaggio di Omerli, nella provincia kurda di Urfa. Ha frequentato la scuola professionale per l'agricoltura e per qualche tempo ha lavorato presso il catasto agricolo nella provincia di Diyarbakir. Il suo interesse per i problemi e le contraddizioni interne e internazionali lo spinsero a iscriversi alla facoltà di scienze politiche a Ankara. La capitale era già in fermento e Ocalan non tardò molto a entrare attivamente nella vita politica dei primi anni '70. Fin dall'inizio si dedicò all'approfondimento del socialismo scientifico e all'analisi e alla denuncia dei concreti problemi della popolazione kurda. Ben presto divenne uno dei leader e degli organizzatori del movimento studentesco. Nel 1973 venne arrestato e rilasciato dopo sette mesi di tortura. Nel 1975 Ocalan fece ritorno in Kurdistan insieme a un gruppo di compagni. E' in quel periodo che pubblica, assieme a Mazlum Dogan e a Mehmet Ali Durmus, un opuscolo intitolato Il Manifesto, che definisce i compiti e le prospettive della rivoluzione nel Kurdistan. Il gruppo cominciò a viaggiare da un capo all'altro della regione kurda in uno sforzo intenso di informazione e sensibilizzazione della popolazione, raccogliendo molti sostenitori specialmente fra i giovani. Il nuovo gruppo si configurò da subito come uno dei più seri pericoli per lo stato turco dagli anni '30. Per questo doveva essere eliminato ad ogni costo. Il 18 maggio 1978 uno dei fondatori del gruppo, Haki Karer, di origine turca, venne assassinato da agenti turchi nella città di Antep. Il 27 novembre dello stesso anno Ocalan fondò il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk). La nuova formazione discusse e adotta il Manifesto come base programmatica nel suo primo Congresso. Abdullah Ocalan venne eletto segretario generale del Pkk. Il Programma del Pkk rivendica per il Kurdistan «libertà, democrazia e unità». Fini e metodi sono così riassunti: «La rivoluzione ha due aspetti, è nazionale e democratica. La rivoluzione nazionale insedierà un nuovo potere politico, militare e culturale. A questo succederà la seconda fase: la rivoluzione democratica, che punterà a superare le contraddizioni derivanti dal passato feudale». Queste contraddizioni sono così individuate: «Sfruttamento feudale, struttura per clan, settarismo religioso, dipendenza semischiavistica della donna». E' compito della rivoluzione «mettere fine a tutte le forme di dominio del colonialismo turco, avviare un'economia nazionale e puntare all'unità del Kurdistan».
Il Pkk si guadagnò rapidamente un ampio sostegno fra i lavoratori, i contadini, gli studenti e le diverse classi e ceti sociali. Organizzò scioperi operai, dimostrazioni studentesche e vertenze contadine contro i latifondisti. Lo stato turco non esitò a far ricorso ad arresti, massacri, infiltrazioni e torture, nel tentativo (fallito) di fermare lo sviluppo del movimento. Il 24 dicembre 1978 fu lo scontro sanguinoso fra turchi e kurdi a Maras (scatenato dall'uccisione di due militanti di estrema destra) a dare allo stato il pretesto per sottoporre a legge marziale la maggior parte delle province kurde. Nel 1979 Ocalan si spostò in Libano per preparare la lotta partigiana contro la crescente violenza dello stato e fondò nella Valle della Bekaa l'Accademia intitolata a Mahsum Korkmaz.
Da dieci anni Ocalan è un prigionero in isolamento ma il suo popolo continua a lottare per la sua libertà, per la giustizia e per una soluzione pacifica del conflitto in Kurdistan.

Requisite in Cisgiordania terre per una nuova colonia ebraica presso Efrat

Requisite in Cisgiordania terre per una nuova colonia ebraica presso Efrat

Michele Giorgio

Il Manifesto del 17/02/2009

Brusca frenata israeliana sull'accordo di tregua con Hamas a Gaza. Sembrava fatta solo un paio di giorni fa ma ora Tel Aviv sostiene che la questione prioritaria da risolvere è il rilascio del caporale israeliano Gilad Shalit, altrimenti non verrà revocato l'embargo in vigore da mesi contro la Striscia. «Non apriremo i valichi con Gaza sino a quando Shalit rimarrà nelle mani di Hamas», ha affermato il premier uscente Ehud Olmert.
Israele invece non frena sulla colonizzazione dei Territori occupati palestinesi. Il quotidiano Ha'aretz ha rivelato ieri che un primo passo verso la realizzazione di un nuovo insediamento ebraico è stato formalizzato nelle ultime ore con l'acquisizione al «patrimonio pubblico dello Stato» (ma in territorio occupato) di 170 ettari a nord della colonia di Efrat (10mila abitanti, tra Betlemme e Hebron) dopo lo scontato rigetto dei ricorsi presentati dai palestinesi. Hamas ha accusato Israele di aver imposto un «ricatto» condizionando la tregua alla liberazione di Shalit, catturato nel giugno del 2006 a Kerem Shalom da un commando palestinese e successivamente consegnato al movimento islamico. Una delegazione di Hamas, che considera il caso di Shalit legato esclusivamente alla scarcerazione di detenuti palestinesi, ieri al Cairo ha incontrato il mediatore egiziano Omar Suleiman.
«Noi non abbiamo alcuna difficoltà a liberare Shalit se Israele concorda con la scarcerazione di mille nostri prigionieri», ha spiegato esponente del movimento islamico. L'Egitto ha proposto che per i mille palestinesi da liberare, 500 siano scelti da Hamas ed altri 500 siano scelti da Israele, che ieri ha confermato la sua opposizione al rientro a Gaza e in Cisgiordania di alcuni dei prigionieri. Secondo il quotidiano panarabo al Hayat, il governo Olmert vuole che i detenuti palestinesi più noti e quelli condannati per attentati non tornino in Cisgiordania e Gaza ma vengano espulsi verso la Siria e il Libano. Le indiscrezioni sono contrastanti in queste ore. È sicuro però che nell'elenco di detenuti sui quali si sta negoziando, sono inclusi anche il leader del Fronte popolare Ahmed Saadat e il segretario di Fatah in Cisgiordania Marwan Barghuti, il «comandante della Seconda Intifada».
Quest'ultimo, che viene dato dai palestinesi per libero già nei prossimi giorni, ieri ha ricevuto in carcere la visita di un importante dirigente di Fatah, Hussein Sheikh, in apparenza per discutere delle condizioni per il suo rilascio. Il ritorno in Cisgiordania di un leader politico molto popolare come Barghuti potrebbe dare a Fatah la spinta necessaria per rilanciarsi e per prendere, in parte, le distanze dalla linea dell'attuale leadership dell'Anp. Non pochi lo vedono già candidato alla presidenza palestinese se e quando si terranno nuove elezioni (il mandato del presidente uscente Abu Mazen è terminato più di un mese fa). Intanto domani il capo dello stato israeliano Shimon Peres avvierà le consultazioni per l'affidamento dell'incarico di premier. Sceglierà con ogni probabilità il leader del Likud Benyamin Netanyahu che ieri si è detto certo di poter formare in tempi stretti una coalizione di destra.
Rimane una opzione un governo di unità nazionale. La leader di Kadima Tzipi Livni, vincitrice di misura delle elezioni di una settimana fa, intanto ieri ha parlato di «cessione di parti di territorio israeliano» che permettere a Israele di rimanere uno Stato ebraico. È la stessa posizione di Avigdor Lieberman, il capo del partito razzista Yisrael Beitenu (terza forza politica), che da lungo tempo propone di liberarsi di un buon numero di cittadini arabi «cedendoli» al futuro Stato di Palestina.

lunedì 9 febbraio 2009

Il Tar blocca la cava di ghiaia a Pillhof

Il Tar blocca la cava di ghiaia a Pillhof
Alto Adige 07/02/2009

APPIANO. Il Tar di Bolzano ha bloccato la cava a Pillhof di Appiano. Il tribunale amministrativo, disponendo la sospensiva, ha accolto il ricorso di una ditta concorrente della Mederle che è in attesa della concessione provinciale per dare il via all’estrazione di ghiaia. Contro la cava si battono da tempo la lista civica Appiano Democratica e le associazioni ambientaliste sostenute anche da Reinhold Messner. Recentemente, sul posto si era svolta una manifestazione per ribadire il no alla cava. «E’ una vittoria di tutti quelli che si stanno battendo da tempo contro questa cava», commenta Sergio Corrà di Appiano Democratica. La sentenza definitiva del tar dovrebbe arrivare ai primi di marzo. E anche dentro la Svp la compattezza in favore dell’impianto sembra ormai un ricordo. Pure l’assessore provinciale all’ambiente, Michl Laimer, si è recentemente dichiarato perplesso. «Ho studiato il fascicolo - ha dichiarato qualche giorno fa - Direi che quel progetto è in netto contrasto con il Piano paesaggistico». Di parere contrario il collega Widmann: «L’estrazione è necessaria per mantenere i posti di lavoro», aveva affermato. E’ una vicenda che va avanti da un paio d’anni. In origine il piano prevedeva che potessero essere estratti 2 milioni 200 mila metri cubi di ghiaia. Poi si è scesi a 800 mila. E il consiglio comunale di Appiano, dopo un primo no, aveva dato parere favorevole. «Però, di fatto - aggiunge Corrà - una delibera della giunta provinciale dà l’ok allo sfruttamento per i primi 100 mila metri cubi». «Di cave ce ne sono già altre sul territorio - diceva Messner qualche settimana fa quando aderì all’iniziativa di protesta contro la cava - Così facendo non si pensa al futuro della nostra provincia, un territorio caratterizzato da un paesaggio unico che va assolutamente conservato e tutelato. Non c’è bisogno di ghiaia con tutta quella che si potrà estrarre dal tunnel di base del Brennero». Poi, a fine gennaio, un corteo di 300 persone partì dal bivio per Riva di Sotto arrivando fin sotto le due colline che dovrebbero essere sbancate. In quei giorni vennero raccolte 400 firme di protesta. Intanto, dentro la Svp il fronte unico si andava crepando. Nove consiglieri del partito di maggioranza ad Appiano hanno depositato recentemente una mozione per revocare la delibera di dicembre che dava il via libera allo scavo. Passo dopo passo, l’inizio degli scavi sembra allontanarsi. E le due colline paiono adesso un po’ più salde.

La Nato gettava rifiuti radioattivi nei laghi

La Nato gettava rifiuti radioattivi nei laghi

di JugoInfo

su AP Com del 09/02/2009

Bosnia, la rivelazione di un giornale croato. La Francia così si sarebbe sbarazzata di tonnellate di materiale

Roma, 4 feb. (Apcom-Nuova Europa) - Attraverso la missione Nato di peacekeeping in Bosnia-Erzegovina, la Francia si sarebbe sbarazzata di una gran quantità di rifiuti radioattivi gettandoli nei laghi erzegovesi. Lo scrive il quotidiano croato Vecernji list citando ex agenti dei servizi bosniaci.
Stando a quanto si legge sul quotidiano, arrivando in Bosnia nell'ambito delle missioni di peacekeeping Ifor e Sfor i francesi hanno subito messo in campo un operazione per sbarazzarsi dei rifiuti. I servizi bosniaci hanno scoperto l'operazione, ma il tutto è andato avanti.
"Le navi con i rifiuti radioattivi arrivavano nel porto montenegrino di Bar. Poi il carico veniva scortato da un sproporzionato contingente francese sino a Stoca, dove i container con i rifiuti venivano riempiti con colate di cemento", racconta un ex agente dell'intelligence di Sarajevo.
Secondo il suo racconto, questi blocchi venivano quindi gettati con degli elicotteri in tre laghi: Busko, Ramsko e Jablanicko. "Per anni gli elicotteri francesi dell'Ifor e della Sfor hanno gettato i blocchi di cemento nei punti profondi dei laghi, centinaia di blocchi. Lo testimonia anche la gente che abita vicino ai laghi, che di notte veniva svegliata dai voli a bassa quota e dallo sgancio del materiale".
Vecernje novosti [si legga: Vecernji List] sostiene che la storia è ben nota agli abitanti del luogo e sottolinea che i pescatori della zona si guardano bene dall'andare a pesca nei tre laghi "discarica". "La storia del materiale radioattivo in Bosnia segreto di Stato", afferma il quotidiano.

giovedì 5 febbraio 2009

Verità su Chatila

Verità su Chatila

di Stefano Chiarini

Il Manifesto del 03/02/2009

Sono passati due anni dalla morte del nostro amico e collega Stefano Chiarini. Per celebrare la sua memoria e la sua passione per il giornalismo, ripubblichiamo questo reportage-intervista del 2004 sul massacro di Sabra e Chatila. Un evento che Stefano, spendendosi in prima persona, ha contribuito a non far dimenticare

«Il primo impulso ad iniziare un progetto di storia orale basato sulle testimonianze dei sopravvissuti al massacro di Sabra e Chatila mi venne in quei tragici giorni di settembre del 1982 per uscire da quel senso di impotenza che ci attanagliava di fronte a tanto orrore e per ribadire che il sangue palestinese, libanese e arabo è uguale a quello di tutti gli altri uomini. Il mondo in questi giorni ricorda, giustamente, le vittime delle torri gemelle ma i profughi palestinesi massacrati a Beirut, più o meno lo stesso numero, sono stati del tutto dimenticati. Nessuno ha pagato e anzi il principale responsabile, Ariel Sharon, è stato definito dal presidente Bush un uomo di pace». Bayan el Hout - originaria di Gerusalemme, allieva di Edward Said, insegnante nella facoltà di scienze politiche a Beirut dal `79 - racconta così nella sua tranquilla casa di Beirut, non lontana dal quartiere di Fakhiani, cuore della resistenza palestinese sino all'estate del 1982, le motivazioni che l'hanno portata a scoprire verificare e pubblicare, prima in arabo e ora in inglese, non solo i nomi di 906 uccisi e 484 scomparsi, ma anche le circostanze della loro morte e le responsabilità dei comandi israeliani. È difficile da credersi ma in realtà fino ad oggi nessuno aveva mai voluto sapere quante fossero state le vittime del massacro avvenuto dal sedici al diciotto settembre del 1982 nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila circondati dall'esercito israeliano: certamente non il governo di Tel Aviv, non quello di Washington, arrivato a minacciare il governo belga di spostare il comando della Nato da Bruxelles a Varsavia se non avesse bloccato il processo ad Ariel Sharon, non i governi di Usa, Francia e Italia che nel settembre del 1982 avevano precipitosamente ritirato le loro truppe lasciando i campi profughi senza alcuna difesa, non gli esecutori materiali delle Falangi libanesi, non il governo di Beirut dai fragili equilibri e per nulla interessato alla sorte dei palestinesi; e neppure l'Anp, sempre di fronte a tragiche e più impellenti necessità, ma anche timorosa delle pressioni americane e israeliane. Ma c'è chi ha rotto questa soffocante omertà.
UNA PATTUGLIA IN VISITA
La vita di Bayan el Hout sarebbe cambiata per sempre alle tredici di quel sabato, 18 settembre 1982. «Ero nella mia casa di Corniche el Mazra, l'edificio era completamente vuoto, sola con una vicina e i suoi tre figli - ci dice ricordando quei giorni terribili - quando ricevetti la visita di una pattuglia israeliana guidata da un ufficiale che cercava mio marito, direttore dell'ufficio dell'Olp in Libano. Al momento di andare via l'ufficiale bruscamente mi disse: "Vede quanto siamo civili... non è come pensate". Avevo appena chiuso la porta quando un annunciatore alla radio, con la voce rotta, cominciò a parlare del massacro nei campi di Beirut. Tutta quella ipocrisia mi fu insopportabile: di quale civiltà aveva parlato? Ci si può ritenere civili solo perché si spinge un bottone e non si sente nelle narici l'odore della carne bruciata dalle bombe al fosforo? O perché si sono assoldati dei killer locali per `finire il lavoro' senza sporcarsi le mani con il sangue delle vittime?».
Il periodo più difficile e pericoloso della ricerca fu senza dubbio quello iniziale, all'indomani del massacro. Beirut Ovest era ancora occupata dagli israeliani e al governo con Amin Gemayel c'erano le Forze libanesi, gli uomini che avevano portato a termine la strage. «Incontravamo i testimoni segretamente al di fuori dei campi dove avremmo rischiato di essere uccisi o arrestati - continua Bayan el Hout - e i nastri registrati venivano subito copiati per impedire che potessero essere distrutti». «Gli israeliani - aggiunge la storica palestinese - hanno sempre fatto di tutto non solo per cancellare la nostra esistenza ma anche la nostra memoria. Il loro primo obiettivo a Beirut furono proprio gli istituti di ricerca, il centro studi palestinesi, gli archivi cinematografici, fotografici e cartacei». Le copie dei nastri, dieci alla volta, venivano poi sistemate in pacchetti regalo coloratissimi e dati ad amici e conoscenti in occasione di qualche festa o compleanno. Per maggior sicurezza occorreva però trascriverne il contenuto, «ma il terrore era tale - ricorda sorridendo Bayan el Hout - che non trovammo nessuna dattilografa disposta a farlo. Una nostra conoscente ci disse persino che non se la sentiva di aiutarci perché il vicino di casa avrebbe potuto sentire il rumore della macchina e denunciarla. Finalmente una ragazza si offrì di farlo, scrivendo a mano durante la notte quando i suoi dormivano.
La ricerca su Sabra e Chatila, iniziata come un progetto di storia orale, dal 1983 sarebbe diventata una vera indagine per identificare le vittime del massacro e lo svolgersi degli eventi. La svolta si ebbe in occasione della pubblicazione del rapporto israeliano sulla strage secondo il quale non vi sarebbero stati più di 700-800 morti: «In particolare - sostiene Bayan el Hout - andai su tutte le furie quando dissero che erano stati uccisi non più di una ventina di bambini e una quindicina di donne. A quel punto capii quanto fosse importante stabilire scientificamente i nomi e il numero delle vittime».
LISTE UFFICIALI TOP SECRET
Occorreva però incrociare le testimonianze orali con le liste ufficiali, per quanto parziali fossero, tutte «top secret». Il lavoro rischiava di fermarsi quando, per uno di quei casi sorprendenti che spesso avvengono in momento così drammatici, uno dei «tecnici» presenti nella compagine governativa, lo psichiatra Abdul Rahman al-Labbani, ministro degli affari sociali, riuscì a farsi consegnare, per poi girarle a Bayan el Hout, le liste con i nomi delle vittime della Croce rossa, della Difesa civile, e un altro elenco. Tutte e tre ancor oggi inedite. A questo punto i contorni e le dimensioni del massacro cominciarono ad apparire per quelli che erano e la ricerca potè ripartire utilizzando anche altre liste palestinesi e i registri di un vicino cimitero.
Il numero dei nomi delle vittime palestinesi e libanesi arrivò così tra interviste e liste ufficiali a 906 e a questi vennero poi aggiunti quelli di altri 484 «scomparsi» e «rapiti», dei quali erano note le circostanze dell'arresto da parte dei falangisti o degli israeliani, per un totale di 1390 vittime. Al di fuori di questa cifra vi sono poi coloro che sono scomparsi senza lasciare alcuna traccia e i membri di intere famiglie che con vicini e conoscenti sono stati sepolti tutti insieme nei rifugi dove si erano riparati. Tra le vittime delle quali non si ha notizia vi sono molti abitanti stranieri del campo, lavoratori immigrati o volontari uniti ai loro vicini palestinesi dalla comune miseria o da comuni ideali. Tra questi, sei immigrati bengalesi uccisi nella loro casa o il giovane infermiere di colore di nazionalità britannica, volontario al Gaza Hospital, chiamato da tutti «Osman», rapito e ucciso la mattina di sabato diciotto settembre 1982. Nessuno ha mai saputo chi fosse. Tenendo conto di questi fattori il numero totale delle vittime del massacro potrebbe arrivare e forse superare le 3.000 persone.
Nella ricerca di Bayan el Hout, accanto agli elenchi degli uccisi, degli scomparsi e dei rapiti vi sono anche 47 storie particolarmente rilevanti sotto il profilo umano, per l'efferatezza delle esecuzioni - molte donne incinte vennero squartate per le strade, alcuni neonati tagliati a pezzi e ricomposti sulle tavole a mo' di dolci, dei ragazzi vennero legati per le gambe a due jeep che partendo in direzioni opposte li tranciarono in due - le responsabilità dei comandi e dei soldati israeliani ma anche per isolati e inaspettati gesti di pietà. Alcuni soldati permisero a delle famiglie di fuggire dal campo, altri fecero rapporto ai superiori, ma nessuno fermò i killer. Sharon e i suoi generali sapevano bene cosa stava succedendo a Chatila. Un barlume di umanità brillò anche tra i macellai delle Forze libanesi come nel caso di un uomo, già dentro un pozzo nel quale venivano gettati i vivi e i morti, salvato da un falangista figlio di un collega di lavoro con il quale passava, prima della guerra, tutte le domeniche.
«Nel corso della ricerca - ci dice Bayan el Hout - sono emersi molti particolari inediti di grande interesse, come il fatto che il massacro non riguardò solamente Sabra e Chatila ma anche diversi quartieri circostanti; o che i killer, per non allarmare gli altri abitanti del campo e poterli quindi sorprendere nelle loro case, tentarono nelle prime ore, sembra su consiglio di alcuni esperti israeliani, di utilizzare solamente armi da taglio, coltelli, accette, ma furono costretti ad aprire il fuoco in seguito alla disperata resistenza di una quindicina di ragazzi palestinesi: altro che i 2500 terroristi armati di cui andava vaneggiando Ariel Sharon». Un gesto eroico che permise a molti di mettersi in salvo.
MATTANZA IN PIÙ FASI
Il massacro, emerge dalla ricerca, ha avuto in realtà varie fasi: «All'inizio -sostiene Bayan el Hout, mostrandoci alcuni grafici - non volevano lasciare in vita nessuno, e così il primo giorno il numero degli uccisi è di gran lunga superiore a quello dei rapiti o scomparsi. Poi con il passare delle ore, il rapporto si inverte sia per una certa stanchezza e sazietà dei killer, sia perché i comandi israeliani, con i giornalisti che già si stavano dirigendo verso Chatila, decisero di far fare il 'lavoro' altrove, lontano da occhi indiscreti».
Sul tema, centrale, dei rapporti tra comandi israeliani e i responsabili delle Forze libanesi, primo tra tutti Elie Hobeika, ucciso due anni fa a Beirut alla vigilia di un suo possibile viaggio in Belgio per testimoniare contro Ariel Sharon, sono usciti recentemente importanti documenti di prova fatti arrivare agli avvocati delle vittime da una anonima fonte dei servizi segreti americani o israeliani. Sino ad oggi però né da parte israeliana, né da parte falangista è arrivato alcun elemento di verità, un dato che forse la pubblicazione della ricerca in inglese, e il passare del tempo potrebbero modificare. «Dopo aver concluso questo lavoro ventennale - ci dice Bayan el Hout prima di tornare ai suoi studi - spero che ora, anche grazie alla mobilitazione internazionale `per non dimenticare Chatila' che oggi vede a Beirut delegazioni provenienti dall'Italia, Spagna, Stati uniti, Malesia, Francia, il mondo cominci a dare lo stesso valore anche al sangue dei palestinesi e soprattutto che i responsabili di questo orrendo massacro siano giudicati e paghino per i loro crimini. Non c'è altra strada, se vogliamo la pace, che passare dalla scomoda e stretta porta della memoria e della giustizia».

lunedì 2 febbraio 2009

Esercito Dopo il Vietnam mai tanti casi fra i militari Usa

Corriere della Sera 2.2.09
Esercito Dopo il Vietnam mai tanti casi fra i militari Usa
L'accademia dei cadetti suicidi Team d'emergenza a West Point
di Paolo Valentino

WASHINGTON — Il 2 gennaio scorso, Gordon Fein, cadetto di West Point, l'Accademia militare dell'esercito americano, si è ucciso con un colpo di pistola mentre era in licenza a casa sua. Meno di un mese prima, l'8 dicembre, un suo compagno di corso, Alfred Fox, prima di addormentarsi aveva lasciato aperta una bombola di elio nella camera di un motel presa in affitto: non si era più risvegliato.
E il numero dei suicidi di West Point sarebbe salito a 4, se altri due tentativi non fossero andati a vuoto nel mese appena conclusosi: il 24 gennaio una recluta si era imbottita di medicinali ed era crollata durante un'esercitazione, ma i medici lo avevano salvato; ancora, il 15 gennaio, un cadetto del terzo anno aveva dapprima tentato di impiccarsi, poi di saltare da una finestra, ma era stato fermato dai suoi colleghi. Un «suicide team» inviato dal medico generale dell'esercito è dalla scorsa settimana operativo nel campus, dove nascono i futuri quadri della più potente macchina militare del mondo.
Ma West Point non è un'eccezione: quello dell'8 dicembre è stato contato come il caso numero 128 dell'anno appena trascorso nella Us Army. In termini percentuali, significa un tasso di suicidio nel 2008 pari al 20,2 ogni 100 mila soldati, il più alto nella storia dell'esercito americano e la prima volta dalla guerra del Vietnam superiore al tasso di suicidio generale degli Stati Uniti, per persone nella stessa fascia di età, che nel 2005 era di 19,5 ogni 100 mila persone. Un dato allarmante, che ha spinto i vertici militari a lanciare una serie di indagini e a varare iniziative di prevenzione. Anche perché l'aspetto più preoccupante è che il numero dei suicidi fra i ranghi sia schizzato verso l'alto negli ultimi quattro anni, passando dal 12,7 del 2005, al 15,3 nel 2006, al 16,8 nel 2007.
«Lo stress è sicuramente un fattore importante», ha detto la scorsa settimana il vice-capo di Stato maggiore, il generale Peter Chiarelli.
In uno sforzo preventivo, l'ufficiale ha annunciato il lancio di un programma dal 15 febbraio al 15 marzo, per identificare i soldati a rischio, oltre al varo di un progetto capillare di educazione che andrà avanti fino a giugno. L'esercito, ha spiegato Chiarelli, ha messo a contratto 250 tra psicoterapeuti e assistenti sociali, più 40 consulenti matrimoniali, poiché in molti casi sono i rapporti interni ai reparti o alle famiglie dei soldati i fattori che spingono al suicido, seguiti dai problemi finanziari o legali. La Us Army ha anche affidato al National Institute of Mental Health uno studio pluriennale da 50 milioni di dollari su comportamenti o inclinazioni suicide fra i soldati: è il più vasto mai condotto sul tema.
Il «combat stress» rimane comunque la causa numero uno: il 30% dei suicidi erano schierati in uno dei fronti all'estero e un altro 35% si è tolto la vita dopo essere tornato da un periodo in guerra, la metà di loro entro un anno dal rientro. Un solo esempio, in Afghanistan il numero di suicidi è balzato da 2 a 7 tra il 2007 e il 2008: secondo il colonnello Elspeth Ritchie, psicologo del-l'esercito, l'aumento ha corrisposto con quelli dei livelli di ansia ed esposizione al combattimento.
I casi di West Point, i primi in quattro anni, pongono comunque problemi speciali. Il prestigio dell'istituzione, dove si sono formati tutti i grandi generali, da Norman Schwarzkopf a David Petraeus, sollecita infatti un'attenzione particolare. Soprattutto perché voci di bullismo e nonnismo sono tornate ad emergere dopo le recenti tragedie. Nessuno dei cadetti suicidi o mancati tali aveva avuto esperienza di combattimento, ma di almeno uno di loro alcuni studenti hanno detto al Washington Post (anonimamente, per paura di sanzioni disciplinari) che era continuamente oggetto di dileggio e provocazioni da parte dei colleghi.
Per gli altri, il dito viene puntato sulla pressione che la dura disciplina e i ritmi proibitivi dell'Accademia esercitano sugli allievi: «Dallo scorso autunno — ha detto al Post uno studente — abbiamo avuto soltanto tre giorni di libera uscita». Un altro problema sarebbero i programmi di aiuto psicologico attualmente esistenti: il personale sarebbe molto brusco e la frequentazione verrebbe scoraggiata, per paura che possa influenzare negativamente la carriera.