lunedì 2 febbraio 2009

Esercito Dopo il Vietnam mai tanti casi fra i militari Usa

Corriere della Sera 2.2.09
Esercito Dopo il Vietnam mai tanti casi fra i militari Usa
L'accademia dei cadetti suicidi Team d'emergenza a West Point
di Paolo Valentino

WASHINGTON — Il 2 gennaio scorso, Gordon Fein, cadetto di West Point, l'Accademia militare dell'esercito americano, si è ucciso con un colpo di pistola mentre era in licenza a casa sua. Meno di un mese prima, l'8 dicembre, un suo compagno di corso, Alfred Fox, prima di addormentarsi aveva lasciato aperta una bombola di elio nella camera di un motel presa in affitto: non si era più risvegliato.
E il numero dei suicidi di West Point sarebbe salito a 4, se altri due tentativi non fossero andati a vuoto nel mese appena conclusosi: il 24 gennaio una recluta si era imbottita di medicinali ed era crollata durante un'esercitazione, ma i medici lo avevano salvato; ancora, il 15 gennaio, un cadetto del terzo anno aveva dapprima tentato di impiccarsi, poi di saltare da una finestra, ma era stato fermato dai suoi colleghi. Un «suicide team» inviato dal medico generale dell'esercito è dalla scorsa settimana operativo nel campus, dove nascono i futuri quadri della più potente macchina militare del mondo.
Ma West Point non è un'eccezione: quello dell'8 dicembre è stato contato come il caso numero 128 dell'anno appena trascorso nella Us Army. In termini percentuali, significa un tasso di suicidio nel 2008 pari al 20,2 ogni 100 mila soldati, il più alto nella storia dell'esercito americano e la prima volta dalla guerra del Vietnam superiore al tasso di suicidio generale degli Stati Uniti, per persone nella stessa fascia di età, che nel 2005 era di 19,5 ogni 100 mila persone. Un dato allarmante, che ha spinto i vertici militari a lanciare una serie di indagini e a varare iniziative di prevenzione. Anche perché l'aspetto più preoccupante è che il numero dei suicidi fra i ranghi sia schizzato verso l'alto negli ultimi quattro anni, passando dal 12,7 del 2005, al 15,3 nel 2006, al 16,8 nel 2007.
«Lo stress è sicuramente un fattore importante», ha detto la scorsa settimana il vice-capo di Stato maggiore, il generale Peter Chiarelli.
In uno sforzo preventivo, l'ufficiale ha annunciato il lancio di un programma dal 15 febbraio al 15 marzo, per identificare i soldati a rischio, oltre al varo di un progetto capillare di educazione che andrà avanti fino a giugno. L'esercito, ha spiegato Chiarelli, ha messo a contratto 250 tra psicoterapeuti e assistenti sociali, più 40 consulenti matrimoniali, poiché in molti casi sono i rapporti interni ai reparti o alle famiglie dei soldati i fattori che spingono al suicido, seguiti dai problemi finanziari o legali. La Us Army ha anche affidato al National Institute of Mental Health uno studio pluriennale da 50 milioni di dollari su comportamenti o inclinazioni suicide fra i soldati: è il più vasto mai condotto sul tema.
Il «combat stress» rimane comunque la causa numero uno: il 30% dei suicidi erano schierati in uno dei fronti all'estero e un altro 35% si è tolto la vita dopo essere tornato da un periodo in guerra, la metà di loro entro un anno dal rientro. Un solo esempio, in Afghanistan il numero di suicidi è balzato da 2 a 7 tra il 2007 e il 2008: secondo il colonnello Elspeth Ritchie, psicologo del-l'esercito, l'aumento ha corrisposto con quelli dei livelli di ansia ed esposizione al combattimento.
I casi di West Point, i primi in quattro anni, pongono comunque problemi speciali. Il prestigio dell'istituzione, dove si sono formati tutti i grandi generali, da Norman Schwarzkopf a David Petraeus, sollecita infatti un'attenzione particolare. Soprattutto perché voci di bullismo e nonnismo sono tornate ad emergere dopo le recenti tragedie. Nessuno dei cadetti suicidi o mancati tali aveva avuto esperienza di combattimento, ma di almeno uno di loro alcuni studenti hanno detto al Washington Post (anonimamente, per paura di sanzioni disciplinari) che era continuamente oggetto di dileggio e provocazioni da parte dei colleghi.
Per gli altri, il dito viene puntato sulla pressione che la dura disciplina e i ritmi proibitivi dell'Accademia esercitano sugli allievi: «Dallo scorso autunno — ha detto al Post uno studente — abbiamo avuto soltanto tre giorni di libera uscita». Un altro problema sarebbero i programmi di aiuto psicologico attualmente esistenti: il personale sarebbe molto brusco e la frequentazione verrebbe scoraggiata, per paura che possa influenzare negativamente la carriera.