giovedì 5 febbraio 2009

Verità su Chatila

Verità su Chatila

di Stefano Chiarini

Il Manifesto del 03/02/2009

Sono passati due anni dalla morte del nostro amico e collega Stefano Chiarini. Per celebrare la sua memoria e la sua passione per il giornalismo, ripubblichiamo questo reportage-intervista del 2004 sul massacro di Sabra e Chatila. Un evento che Stefano, spendendosi in prima persona, ha contribuito a non far dimenticare

«Il primo impulso ad iniziare un progetto di storia orale basato sulle testimonianze dei sopravvissuti al massacro di Sabra e Chatila mi venne in quei tragici giorni di settembre del 1982 per uscire da quel senso di impotenza che ci attanagliava di fronte a tanto orrore e per ribadire che il sangue palestinese, libanese e arabo è uguale a quello di tutti gli altri uomini. Il mondo in questi giorni ricorda, giustamente, le vittime delle torri gemelle ma i profughi palestinesi massacrati a Beirut, più o meno lo stesso numero, sono stati del tutto dimenticati. Nessuno ha pagato e anzi il principale responsabile, Ariel Sharon, è stato definito dal presidente Bush un uomo di pace». Bayan el Hout - originaria di Gerusalemme, allieva di Edward Said, insegnante nella facoltà di scienze politiche a Beirut dal `79 - racconta così nella sua tranquilla casa di Beirut, non lontana dal quartiere di Fakhiani, cuore della resistenza palestinese sino all'estate del 1982, le motivazioni che l'hanno portata a scoprire verificare e pubblicare, prima in arabo e ora in inglese, non solo i nomi di 906 uccisi e 484 scomparsi, ma anche le circostanze della loro morte e le responsabilità dei comandi israeliani. È difficile da credersi ma in realtà fino ad oggi nessuno aveva mai voluto sapere quante fossero state le vittime del massacro avvenuto dal sedici al diciotto settembre del 1982 nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila circondati dall'esercito israeliano: certamente non il governo di Tel Aviv, non quello di Washington, arrivato a minacciare il governo belga di spostare il comando della Nato da Bruxelles a Varsavia se non avesse bloccato il processo ad Ariel Sharon, non i governi di Usa, Francia e Italia che nel settembre del 1982 avevano precipitosamente ritirato le loro truppe lasciando i campi profughi senza alcuna difesa, non gli esecutori materiali delle Falangi libanesi, non il governo di Beirut dai fragili equilibri e per nulla interessato alla sorte dei palestinesi; e neppure l'Anp, sempre di fronte a tragiche e più impellenti necessità, ma anche timorosa delle pressioni americane e israeliane. Ma c'è chi ha rotto questa soffocante omertà.
UNA PATTUGLIA IN VISITA
La vita di Bayan el Hout sarebbe cambiata per sempre alle tredici di quel sabato, 18 settembre 1982. «Ero nella mia casa di Corniche el Mazra, l'edificio era completamente vuoto, sola con una vicina e i suoi tre figli - ci dice ricordando quei giorni terribili - quando ricevetti la visita di una pattuglia israeliana guidata da un ufficiale che cercava mio marito, direttore dell'ufficio dell'Olp in Libano. Al momento di andare via l'ufficiale bruscamente mi disse: "Vede quanto siamo civili... non è come pensate". Avevo appena chiuso la porta quando un annunciatore alla radio, con la voce rotta, cominciò a parlare del massacro nei campi di Beirut. Tutta quella ipocrisia mi fu insopportabile: di quale civiltà aveva parlato? Ci si può ritenere civili solo perché si spinge un bottone e non si sente nelle narici l'odore della carne bruciata dalle bombe al fosforo? O perché si sono assoldati dei killer locali per `finire il lavoro' senza sporcarsi le mani con il sangue delle vittime?».
Il periodo più difficile e pericoloso della ricerca fu senza dubbio quello iniziale, all'indomani del massacro. Beirut Ovest era ancora occupata dagli israeliani e al governo con Amin Gemayel c'erano le Forze libanesi, gli uomini che avevano portato a termine la strage. «Incontravamo i testimoni segretamente al di fuori dei campi dove avremmo rischiato di essere uccisi o arrestati - continua Bayan el Hout - e i nastri registrati venivano subito copiati per impedire che potessero essere distrutti». «Gli israeliani - aggiunge la storica palestinese - hanno sempre fatto di tutto non solo per cancellare la nostra esistenza ma anche la nostra memoria. Il loro primo obiettivo a Beirut furono proprio gli istituti di ricerca, il centro studi palestinesi, gli archivi cinematografici, fotografici e cartacei». Le copie dei nastri, dieci alla volta, venivano poi sistemate in pacchetti regalo coloratissimi e dati ad amici e conoscenti in occasione di qualche festa o compleanno. Per maggior sicurezza occorreva però trascriverne il contenuto, «ma il terrore era tale - ricorda sorridendo Bayan el Hout - che non trovammo nessuna dattilografa disposta a farlo. Una nostra conoscente ci disse persino che non se la sentiva di aiutarci perché il vicino di casa avrebbe potuto sentire il rumore della macchina e denunciarla. Finalmente una ragazza si offrì di farlo, scrivendo a mano durante la notte quando i suoi dormivano.
La ricerca su Sabra e Chatila, iniziata come un progetto di storia orale, dal 1983 sarebbe diventata una vera indagine per identificare le vittime del massacro e lo svolgersi degli eventi. La svolta si ebbe in occasione della pubblicazione del rapporto israeliano sulla strage secondo il quale non vi sarebbero stati più di 700-800 morti: «In particolare - sostiene Bayan el Hout - andai su tutte le furie quando dissero che erano stati uccisi non più di una ventina di bambini e una quindicina di donne. A quel punto capii quanto fosse importante stabilire scientificamente i nomi e il numero delle vittime».
LISTE UFFICIALI TOP SECRET
Occorreva però incrociare le testimonianze orali con le liste ufficiali, per quanto parziali fossero, tutte «top secret». Il lavoro rischiava di fermarsi quando, per uno di quei casi sorprendenti che spesso avvengono in momento così drammatici, uno dei «tecnici» presenti nella compagine governativa, lo psichiatra Abdul Rahman al-Labbani, ministro degli affari sociali, riuscì a farsi consegnare, per poi girarle a Bayan el Hout, le liste con i nomi delle vittime della Croce rossa, della Difesa civile, e un altro elenco. Tutte e tre ancor oggi inedite. A questo punto i contorni e le dimensioni del massacro cominciarono ad apparire per quelli che erano e la ricerca potè ripartire utilizzando anche altre liste palestinesi e i registri di un vicino cimitero.
Il numero dei nomi delle vittime palestinesi e libanesi arrivò così tra interviste e liste ufficiali a 906 e a questi vennero poi aggiunti quelli di altri 484 «scomparsi» e «rapiti», dei quali erano note le circostanze dell'arresto da parte dei falangisti o degli israeliani, per un totale di 1390 vittime. Al di fuori di questa cifra vi sono poi coloro che sono scomparsi senza lasciare alcuna traccia e i membri di intere famiglie che con vicini e conoscenti sono stati sepolti tutti insieme nei rifugi dove si erano riparati. Tra le vittime delle quali non si ha notizia vi sono molti abitanti stranieri del campo, lavoratori immigrati o volontari uniti ai loro vicini palestinesi dalla comune miseria o da comuni ideali. Tra questi, sei immigrati bengalesi uccisi nella loro casa o il giovane infermiere di colore di nazionalità britannica, volontario al Gaza Hospital, chiamato da tutti «Osman», rapito e ucciso la mattina di sabato diciotto settembre 1982. Nessuno ha mai saputo chi fosse. Tenendo conto di questi fattori il numero totale delle vittime del massacro potrebbe arrivare e forse superare le 3.000 persone.
Nella ricerca di Bayan el Hout, accanto agli elenchi degli uccisi, degli scomparsi e dei rapiti vi sono anche 47 storie particolarmente rilevanti sotto il profilo umano, per l'efferatezza delle esecuzioni - molte donne incinte vennero squartate per le strade, alcuni neonati tagliati a pezzi e ricomposti sulle tavole a mo' di dolci, dei ragazzi vennero legati per le gambe a due jeep che partendo in direzioni opposte li tranciarono in due - le responsabilità dei comandi e dei soldati israeliani ma anche per isolati e inaspettati gesti di pietà. Alcuni soldati permisero a delle famiglie di fuggire dal campo, altri fecero rapporto ai superiori, ma nessuno fermò i killer. Sharon e i suoi generali sapevano bene cosa stava succedendo a Chatila. Un barlume di umanità brillò anche tra i macellai delle Forze libanesi come nel caso di un uomo, già dentro un pozzo nel quale venivano gettati i vivi e i morti, salvato da un falangista figlio di un collega di lavoro con il quale passava, prima della guerra, tutte le domeniche.
«Nel corso della ricerca - ci dice Bayan el Hout - sono emersi molti particolari inediti di grande interesse, come il fatto che il massacro non riguardò solamente Sabra e Chatila ma anche diversi quartieri circostanti; o che i killer, per non allarmare gli altri abitanti del campo e poterli quindi sorprendere nelle loro case, tentarono nelle prime ore, sembra su consiglio di alcuni esperti israeliani, di utilizzare solamente armi da taglio, coltelli, accette, ma furono costretti ad aprire il fuoco in seguito alla disperata resistenza di una quindicina di ragazzi palestinesi: altro che i 2500 terroristi armati di cui andava vaneggiando Ariel Sharon». Un gesto eroico che permise a molti di mettersi in salvo.
MATTANZA IN PIÙ FASI
Il massacro, emerge dalla ricerca, ha avuto in realtà varie fasi: «All'inizio -sostiene Bayan el Hout, mostrandoci alcuni grafici - non volevano lasciare in vita nessuno, e così il primo giorno il numero degli uccisi è di gran lunga superiore a quello dei rapiti o scomparsi. Poi con il passare delle ore, il rapporto si inverte sia per una certa stanchezza e sazietà dei killer, sia perché i comandi israeliani, con i giornalisti che già si stavano dirigendo verso Chatila, decisero di far fare il 'lavoro' altrove, lontano da occhi indiscreti».
Sul tema, centrale, dei rapporti tra comandi israeliani e i responsabili delle Forze libanesi, primo tra tutti Elie Hobeika, ucciso due anni fa a Beirut alla vigilia di un suo possibile viaggio in Belgio per testimoniare contro Ariel Sharon, sono usciti recentemente importanti documenti di prova fatti arrivare agli avvocati delle vittime da una anonima fonte dei servizi segreti americani o israeliani. Sino ad oggi però né da parte israeliana, né da parte falangista è arrivato alcun elemento di verità, un dato che forse la pubblicazione della ricerca in inglese, e il passare del tempo potrebbero modificare. «Dopo aver concluso questo lavoro ventennale - ci dice Bayan el Hout prima di tornare ai suoi studi - spero che ora, anche grazie alla mobilitazione internazionale `per non dimenticare Chatila' che oggi vede a Beirut delegazioni provenienti dall'Italia, Spagna, Stati uniti, Malesia, Francia, il mondo cominci a dare lo stesso valore anche al sangue dei palestinesi e soprattutto che i responsabili di questo orrendo massacro siano giudicati e paghino per i loro crimini. Non c'è altra strada, se vogliamo la pace, che passare dalla scomoda e stretta porta della memoria e della giustizia».