lunedì 17 gennaio 2011

Il governo israeliano pronto a varare il piano per la costruzione di 1400 alloggi nella zona di Gilo

l’Unità 17.1.11
Il governo israeliano pronto a varare il piano per la costruzione di 1400 alloggi nella zona di Gilo
I palestinesi attaccano il premier: «Gli Usa devono ritenerlo responsabile della fine del dialogo»
Gerusalemme Est, ancora case Netanyahu affossa il negoziato
L’ex presidente della Knesset denuncia: in atto pulizia etnica
di Umberto De Giovannangeli

Il governo israeliano non si ferma. Un nuovo progetto per la costruzione di 1400 nuove abitazioni nella parte Est di Gerusalemme, avrà presto luce verde. Un colpo di grazia per il negoziato con i palestinesi.

È il colpo di grazia a un negoziato agonizzante. Un nuovo progetto per la costruzione di alloggi israeliani in una zona colonizzata di Gerusalemme Est sta per essere approvato dal governo dello Stato ebraico. Secondo quanto riferito ieri dalla radio militare israeliana, si tratterebbe di un piano per la costruzione di circa 1.400 nuove abitazioni nella zona di Gilo, nella parte sud-orientale della Città santa. Il progetto potrebbe ricevere l’avallo della Commissione per la pianificazione regionale già nei prossimi giorni, secondo la radio. Alcuni consiglieri comunali hanno confermato il piano, alcuni per denunciarlo, altri per esprimere soddisfazione. «Non c’è alcun dubbio che il semaforo verde a questi nuovi alloggi sarà il colpo di grazia al processo di pace con i palestinesi», da oltre due mesi congelato dopo il rifiuto di Israele di prolungare la moratoria sulla sua politica coloniale in Cisgiordania, rimarca il consigliere comunale Méir Margalit del partito Meretz (sinistra). «Il 2011 è iniziato nel modo peggiore, con un’accelerazione dell’aggressività del governo Netanyahu-Lieberman – dice a l’Unità Colette Avital, parlamentare laburista. -. È come se Netanyahu intendesse approfittare della debolezza, vera o presunta, di Barack Obama per portare a compimento i suoi piani. Mi auguro – conclude Avidal – che questa nuova provocazione svegli l’America e il suo presidente».
ESCALATION
«Gilo è parte integrante di Gerusalemme. Non ci può essere alcun dibattito in Israele sulla costruzione di questo quartiere», taglia corto Elisha Peleg, consigliere comunale del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu. La realizzazione di queste nuove unità abitative estenderà il quartiere fino alla colonia di Har Gilo che Israele considera parte integrante del blocco di insediamenti di Gush Etzion: «Il governo Netanyahu prosegue nella realizzazione del disegno della Grande Gerusalemme. E questo disegno è a sua volta parte di un piano che tende a trascinare il negoziato alle calende greche e nel frattempo svuotarlo di ogni significato concreto», ci dice Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme est. «Le autorità israeliane – spiega Nusseibeh – stanno trasformando gli insediamenti in vere e proprie città. Per poi dire: come posso cancellarle. Alla fine vorrebbero che i palestinesi si accontentassero di uno Stato francobollo. E se dovessimo rifiutare, ecco pronta l’accusa: vedete, sono incontentabili». «Penso che sia il tempo per l'amministrazione americana di ritenere ufficialmente Israele responsabile del fallimento del processo di pace», gli fa eco il capo dei negoziatori dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Saeb Erekat. Per il segretario generale di Peace Now, Yariv Oppenheimer, il nuovo progetto israeliano «non solo danneggerà le possibilità di raggiungere un accordo sulla questione di Gerusalemme, ma potrebbe anche creare un problema internazionale per Israele e per la sua legittimità all'estero».
SIMBOLO DEMOLITO
Costruzione di nuovi alloggi e demolizione di edifici-simbolo: è il caso dello Shepherd Hotel, che si trova dentro il quartiere palestinese Sheik Jarrah, vicino alla residenza storica del Gran Mufti Haj Hamin al-Husseini. Con l’occupazione di Gerusalemme est da parte d’Israele nel 1967, lo Shepherd Hotel fu usato come base della polizia di frontiera israeliana. Poi l’edificio rimase abbandonato e venne dichiarato proprietà abbandonata dal governo israeliano, fino a quando fu acquistato da un uomo d’affari statunitense, Irving Moscowitz, e da questi donato ad «Ateret Cohanim», un’organizzazione ebraica di estrema destra a sostegno della colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Nel 2009 le autorità governative di Gerusalemme hanno deciso di destinare il sito di Shepherd Hotel alla realizzazione di 20 residenze da dare in uso abitativo ai coloni israeliani. Nei giorni scorsi le ruspe hanno cominciato l’opera di demolizione, nonostante le proteste dell’Ue, di Stati Uniti e del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon che ha definito «profondamente deplorevole» la decisione israeliana.
Decisione che ha provocato l’immediata reazione della segretaria di Stato Usa Hillary Clinton che ha chiesto, con una nota ufficiale, al governo israeliano di rinunciare alla costruzione di insediamenti israeliani. Ma la risposta di Benjamin Netanyahu è stata lapidaria: «Non ci può essere una parte di Gerusalemme che gli ebrei non abbiano diritto di acquistare». La Gerusalemme di Netanyahu non è quella di Avraham Burg, già presidente della Knesset: «Non sento mia – afferma – una città che assiste ogni giorno al triste, tragico spettacolo di intere famiglie palestinesi costrette a lasciare le loro case. È un silenzioso esodo di massa, una “pulizia etnica” strisciante, che dovrebbe indignare».

sabato 15 gennaio 2011

Leucemie, cancri e malformità: gli effetti della «liberazione» Usa

Leucemie, cancri e malformità: gli effetti della «liberazione» Usa

Giuliana Sgrena

Il manifesto del 17/11/2010

Un rapporto presentato all'Onu mette in luce le conseguenze dell'attacco americano del 2004 contro la città irachena

Ricordate l'immagine del marine che spara su un combattente ferito e disarmato steso a terra nella moschea di Falluja? Era il 16 novembre del 2004, la battaglia per distruggere la cittadina irachena era in corso, il giornalista della Nbs aveva fatto un buon servizio, ma proprio per quello era stato espulso dagli «embedded» e poi licenziato. L'immagine aveva fatto scalpore, ma era solo un flash delle azioni criminali commesse a Falluja nel novembre del 2004, nel secondo attacco a Falluja - il primo era avvenuto in aprile ma non era riuscito a distruggere il simbolo della resistenza all'occupazione. Quel simbolo doveva sparire prima delle elezioni del gennaio 2005.
La città (circa 300.000 abitanti, molti erano fuggiti) era stata isolata, anche gli iracheni non potevano entrare e nemmeno la Croce rossa, figuriamoci i giornalisti. La battaglia era stata coperta solo da giornalisti embedded . Per chi voleva sapere cosa era veramente successo l'unica possibilità era andare a cercare notizie tra i profughi di Falluja, coloro che erano riusciti a scappare ma avevano visto. Anche gli effetti di quelle enormi nuvole bianche prodotte dagli spari e che non servivano - come dicevano gli americani - ad illuminare gli obiettivi ma erano micidiali armi chimiche al fosforo bianco che avrebbero lasciato sul terreno corpi prosciugati. Oltre alle migliaia di morti è l'inquinamento ambientale che continua a provocare vittime.
Lo dimostra un rapporto presentato al Consiglio per i diritti umani dell'Onu dal Conservation centre of environmental & reserves in Fallujah (Ccerf) e dal Monitoring net of human rights in Iraq (Mhri). Questi i principali effetti: si è rilevato un aumento significativo di tumori e malformazioni congenite. Secondo la relazione dei medici dell'ospedale di Falluja: nel 2006 sono stati diagnosticati tra i civili 5.928 casi di malattie fino ad allora sconosciute; nei primi sei mesi del 2007, sono stati ricoverati 2.447 pazienti gravemente malati che mostravano sintomi sconosciuti, il 50% erano bambini. Un nuovo studio pubblicato dal Giornale internazionale di studi ambientali e di salute pubblica (a Basilea) mostra l'incremento di tassi di cancro, leucemia, mortalità infantile, parti anormali e lesioni simili a quelle scoperte nei sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki. L'incidenza dei tumori è risultata, in rapporto a Giordania e Egitto, 38 volte superiore per la leucemia e 10 volte per il cancro al seno. La mortalità infantile è salita a 80 morti per mille, inoltre rispetto al rapporto normale delle nascite (1.050 maschi contro 1.000 bambine) i maschi nati sono scesi a 350. Negli ultimi sei anni il tasso delle malformazioni alla nascita è salito di oltre il 25%.
Il rapporto documenta, con testimonianze, i crimini contro l'umanità commessi a Falluja e chiede l'intervento della comunità internazionale per giudicare le responsabilità attraverso l'istituzione di una Corte penale internazionale o almeno una commissione d'inchiesta indipendente per esaminare tutte le violazioni commesse in Iraq dagli Stati uniti a partire dal 1991.

venerdì 14 gennaio 2011

I mapuche: le aziende uccidono la madre terra

I mapuche: le aziende uccidono la madre terra

Giulia Franchi
Il manifesto del 01/12/2010

Gli Indios resistono

Gli interessi stranieri per l'idroelettrico cileno non si fermano in Patagonia. Circa 800 chilometri più a nord di Coyhaique, si trova Panguipulli, cuore turistico della Regione de Los Rios, nel Sur Chico. Qui almeno sette progetti di impianti idroelettrici firmati da Enel/Endesa, da Colbún e dalla norvegese Sn Power, mettono a rischio non solo un ecosistema ancora intatto, ma anche la sopravvivenza delle comunità Mapuche che da oltre cinquecento anni popolano questi territori.
La Regione de los Rios rappresenta infatti un nodo cruciale dell' ingombrante programma energetico cileno, ed è nel Comune di Panguipulli che si potrebbe concentrare circa il 10% della capacità produttiva idroelettrica del Paese.
È per capirne di più che una rappresentanza della delegazione della Campagna «Patagonia senza dighe» ha deciso di raccogliere l'invito giunto dal Parlamento Mapuche di Koz Koz, e di trascorrere alcuni giorni in questa zona, ascoltando direttamente dalle comunità coinvolte i rischi impliciti allo sviluppo dell'idroelettrico nell'area.
Il Parlamento Mapuche di Koz Koz è un incredibile esempio di democrazia partecipata, luogo di incontro e di confronto in cui sono rappresentate 156 comunità della zona (circa 20mila mapuche) che si riuniscono periodicamente per prendere decisioni in maniera collettiva. Il processo è aperto anche a quelle realtà non Mapuche, come il Fap - Frente ambientalista di panguipulli, che condividono con le comunità, oltre al diritto di autodeterminazione del popolo Mapuche, anche i timori per le ingerenze delle imprese straniere sul territorio.
«Una diga dell'Endesa è diventata operativa nel 1962 e ancora oggi Enel sembra versare una royalty annuale irrisoria alla Municipalità di Panguipulli» racconta Pullinque. I Mapuche ci raccontano che in più di 50 anni non hanno mai ricevuto alcuna compensazione, sebbene abbiano perso più di 300 ettari di terra.
Gli effetti tangibili sul territorio prodotti da questa diga di dimensioni contenute (51 megawatt di potenza installata) preoccupano gli abitanti della regione per quel che potrebbe accadere se andasse in porto il progetto idroelettrico sul Lago Neltume. Endesa è in procinto di iniziare la costruzione di un nuovo impianto che, se realizzato, porterebbe un innalzamento del livello del lago che sommergerebbe terreni agricoli ed anche la pampa sagrada, luogo sacro e di culto per le comunità della zona.
"Sbarrare i fiumi significa tagliare la vita, interrompere il flusso di sangue della madre terra. Queste grandi opere idroelettriche ci stanno trasformando in mendicanti e criminali. Se a guadagnare sono loro, a perdere siamo tutti noi", ci dice Jorge Welke, portavoce del Parlamento, evidenziando come ai danni ambientali impliciti alla costruzione di questi impianti, si associno conseguenze devastanti sul piano socio-economico, un deterioramento del sistema sociale tradizionale fondato su fiducia e stabilità e uno sgretolamento dei legami all'interno delle diverse comunità.
La resistenza è ben organizzata e alcune comunità, come quella di Inalafquen, sul lago Neltume, hanno già dichiarato espressamente la loro contrarietà alla presenza delle imprese sul loro territorio. Il confronto tra i membri della comunità di Inalafquen, che visitiamo, alla presenza di rappresentanti delle vicine Liquine e Callu Maipo è chiaro ed esplicito: i Mapuche non intendono negoziare. Proprio nella comunità Valeriano un elicottero di Endesa è stato cacciato a forza dagli abitanti, che hanno rifiutato di scendere a patti con gli emissari dell'impresa.

venerdì 7 gennaio 2011

Una rete senza segreti: la crepa dolorosa del potere

Una rete senza segreti: la crepa dolorosa del potere

Benedetto Vecchi

Il manifesto del 19/12/2010

WikiLeaks ha modificato geografia politica e rapporti di potere su Internet. Gli Stati Uniti lamentano una perdita di egemonia, mentre il centro della scena è ora occupato da una nuova e inedita attitudine hacker

Comunque vada, la vicenda di Wikileaks, l'operazione messa in campo di Julian Assange sta cambiando profondamente la Rete. Ne sta cioè modificando la geografia, facendo diventare alcuni nodi snodi rilevanti nel flusso di informazioni (la Cina, ma anche il mondo arabo) e condannando altri a un ruolo marginale (la Russia e, in misura diversa, gli Stati Uniti). E soprattutto ciò che sta accadendo è un mutamento nei rapporti di forza, rendendo la presenza delle corporation meno invadente e condizionante la «vita dentro lo schermo». Costringendo, ad esempio, i media mainstream a fare i conti con la presenza di un sito che ha la capacità di accumulare un'ingente mole di dati «sensibili» e diffonderla in tempo reale, indipendentemente dalla certificazione di «autenticità» accordata da questo o quell'esperto, da questo media o quel dipartimento di stato. A differenza di quanto hanno scritto in queste settimane gli opinion makers, la scelta di Julian Assange di consegnare ad alcuni quotidiani i cablogrammi inviati dalle ambasciate al dipartimento di stato statunitense per verificare la loro attendibilità è stata dettata dalla consapevolezza che quegli stessi quotidiani avrebbero amplificato l'eco delle informazioni, obbligando così i media mainstream ad ammettere ciò che è già acquisito dalla loro modus operandi: la rete è ormai un'irrinunciabile fonte di notizie a cui fare ricorso per «confezionare» giornali e palinsesti televisivi.
Mediattivisti e giornalisti di strada
È questa modifica del rapporto tra rete e organi di informazione il primo effetto collaterale di Wikileaks. Con realismo, va infatti riconosciuto che i media tradizionali sono ormai divenuti produttori di notizie in gran parte dipendenti dalla Rete. Possono riempire gli schermi o inondare di inchiostro le pagine dei quotidiani con commenti sull'indispensabilità dei giornalisti come filtri, intermediari tra la realtà e la sua ricezione da parte dell'opinione pubblica, ma ciò che la diffusione dei cablogrammi ha messo in evidenza è il divenire di una «cultura di rete» variamente riassunto nelle formule di mediattivismo, «giornalismo di strada» o citizen journalism. Da una parte la rete consente a chiunque possegga un computer di diventare fonte di informazione, ma anche un produttore di informazione che può diffondere il suo «giornale» come meglio crede.
I casi citati sono i siti messi in piedi dai movimenti sociali di varia natura e a differenti latitudini: tutti hanno informato su iniziative e campagne che difficilmente avrebbero «bucato» il muro di gomma dei media mainstream. Oltre al ruolo pionieristico di Indymedia, le mobilitazioni dei sans papiers francesi; oppure il resoconto delle mobilitazioni studentesche in Austria, Germania e Polonia degli ultimi due anni sarebbero rimaste relegate alle «brevi» che appaiono sui giornali se gli stessi studenti non avessero diffuso on-line le notizie di occupazioni, sit-in e cortei assieme alle analisi sulle riforma dell'università che i governi dei loro paesi volevano far approvare nel silenzio dei media. Dall'altra parte, però va registrato il fatto che alcuni giornalisti in fuga dalle redazioni troppo vincolate ai diktat degli editori hanno scommesso sulla rete per rilanciare, ad esempio, il giornalismo di inchiesto o investigativo.
Il caso più clamoroso è quello del sito ProPublica.org che ha ricevuto lo scorso aprile il premio Pulitzer. In ogni caso, la rete è stato usato come un media. Wikileaks ha reso evidente tutto ciò, anche se questo ha provocato la reazione di rigetto proprio dei media e degli opinion makers che hanno visto cancellato il ruolo storicamente assegnato ai giornali, radio e tv di produttori dell'opinione pubblica.
Egeocentrismo della blogsfera
La rete ha quindi accelerato, se non determinato, l'inaridirsi di quel «quarto potere» investito del ruolo di controllore dell'operato del sovrano o, cosa sempre più importante, di quelle imprese transnazionali che spesso ignorano o aggirano le legislazioni nazionali per fare i loro affari.
Il rigetto di tale tendenza ha un punto a suo favore: l'assenza di un criterio di scelta, nessuna gerarchia di importanza di un argomento rispetto a tanti altri. È il refrain che domina le discussioni nelle redazioni sul fatto che un giornale o una tv fa sempre delle scelte e che l'autorevolezza di esse sta nella capacità di restituire il valore «generale» del fatto che si vuole raccontare. Ma la rete ha proprio messo in discussione tutto ciò. Il flusso di informazione alimenta cioè tanto l'entropia che un fastidioso rumore di fondo, ma è proprio nelle pratiche di rete (la condivisione, lo scambio, la reciprocità) che stabiliscono l'affidabilità e la rilevanza di un tema tratto da uno o più siti. E tuttavia rimane irrisolto il problema di trattare l'«egocentrismo di massa» della blogsfera che presenta gli argomenti trattati come informazioni filtrati da uomini e donne che si sono conquistati una certa autorevolezza proprio per avere messo in discussione il modo di produzione dei media mainstream. L'esperienza di Wikileaks si colloca a una distanza siderale dalle «chiacchiere» che impregnano la blogsfera. Da questo punto di vista è davvero un'operazione che segna un punto di svolta. Chi vuol fare informazione on-line non potrà che partire da questa esperienza informativa (e di controinformazione) che accetta proprio un criterio di selezione e di «confezionamento» delle news, ritenendo che il flusso di informazione deve essere comunque incanalato, lasciando alla critica del tempo le tante suggestioni di una «nuvola» di dati che è libera di vagare nel ciberspazio, lasciando ai singoli la libertà di individuare cosa e quale importanza ha un «post» piuttosto che un altro.
Ma l'operazione che da qui in poi sarà sempre associata a Julian Assange non cambia solo i rapporti tra giornalismo e rete. Nell'arco di due anni ha fatto irruzione su Internet una cultura che molti ritenevano reperto del passato prossimo della Rete. L'attitudine hacker, cioè il rifiuto del segreto. La rivendicazione di una libera circolazione delle informazioni che né cancellerie, né ministri della difesa o degli interni potevano impedire, è tornata con forza ad occupare la scena. Senza proclami, in maniera defilata e senza clamore, gli hacker che si sono riuniti attorno a Assange, sono tornati ai primordi della rete, quando la tecnologia digitale veniva sbandierata come una «tecnologia della liberazione» e hanno messo in piedi archivi e server in giro per il mondo. Un «dispositivo» difficile da individuare e costruito per resistere ad attacchi dell'intelligence informatica dei governi e della polizia.
Volontari della libertà
Sono passati tre decenni, ormai, dai primi gruppi hacker. E così Wikileaks ha scelto una modalità wiki, cioè al «software collaborativo» messo a punto dall'ingegnere informatico Ward Cunningham che consente la costruzione di un ipertesto attraverso la partecipazione corale appunto di molti «collaboratori». Il prodotto più noto, fino ad ora, era Wikipedia, l'enciclopedia on-line sviluppata da centinaia di migliaia di volontari e usata ormai da molte centinaia di milioni di utenti. Ogni volontario può intervenire e modificare una voce anche se tali aggiornamenti sono sottoposti alle verifiche degli altri volontari. Wikileaks ha più volte sottolineato che questo è il modo in cui funziona anche il loro sito.
C'è però una differenza sostanziale tra Wikipedia e Wikileaks. Mentre l'enciclopedia on-line sviluppa «voci», il sito voluto da Julien Assange ha finora pubblicato testi provenienti da altre persone; oppure ha messo on-line documenti riservati, confidenziali o segreti di istituzioni politiche. Il cablogate che è tutt'ora in corso è tale perché le informazioni pubblicate sono parte di quel flusso di valutazioni, impressioni, attivato da funzionari diplomatici statunitensi. Wikileaks ha deciso che tale flusso doveva diventare di «pubblico dominio», come d'altronde era scritto in quel «manifesto hacker» quando affermava che il nemico pubblico numero uno della democrazia era il segreto e che tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta è diventato la Bibbia di una controcultura libertaria dentro la Rete (il testo è facilmente reperibile in quasi tutti i siti legati alla network culture). E non è un caso che gli «attacchi» ai siti compiuti da giovani smanettoni che hanno scelto come firma digitale «Anonymous» hanno sottolineato che le loro azioni erano compiute in nome degli obiettivi «politici» di Wikileaks: la critica al segreto di stato.
Anche in questo caso, però, le conseguenze dell'operato di Wikileaks pongono un nodo difficile, ma non impossibile da sciogliere. La trasparenza non è sinonimo di maggiore libertà, né di un esercizio davvero democratico del potere. Trasparenza può significare anche una «banalizzazione» dell'operato del potere. È questo il punto più pregnante che Wikileaks lascia in eredità a chi è interessato a sviluppare una cultura critica della Rete. Il punto di incontro tra libertà di circolazione dell'informazione e critica del potere non è dato ancora sapere qual è. In questo caso torna però utile quel sapere codificato del pensiero critico in base al quale il passaggio dall'informazione alla conoscenza deve contemplare un'analisi del modo di produzione del consenso nelle società. E di come tale analisi sia propedeutica anche alla definizione di una mappa politica della Rete. Solo così potremmo finalmente scorgere l'ultimo effetto collaterale, ultimo in ordine di tempo, di Wikileaks. La modifica della geografia politica della Rete è infatti un dato acquisito. La perdita di egemonia degli Stati Uniti non è da considerare un dato relativo solo alla vita fuori dalla schermo, bensì un elemento che costituisce il dato emergente della Rete.

bvecchi@ilmanifesto.it

giovedì 6 gennaio 2011

«Vogliono negare che siamo in guerra»

l’Unità 6.1.11
Intervista a Fabio Mini
«Vogliono negare che siamo in guerra»
L’ex comandante Nato in Kosovo: «La nuova versione in conflitto con quella retorica della pace e della missione umanitaria che è stata abusata anche in questo caso».
di Umberto De Giovannangeli

La nuova versione data dal ministro La Russa della morte del caporalmaggiore Miotto non aggiunge o sottrae nulla al valore del soldato, semmai entra in conflitto con quella retorica della pace e della missione umanitaria che è stata abusata anche in questo caso». A sostenerlo è il generale Fabio Mini, ex Capo di stato maggiore delle forze nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor nel periodo 2002-2003. «Bisogna finirla rimarca il generale Mini di raccontare le storielle e dare conto a tutta la nazione del rischio reale che i nostri soldati in quella guerra stanno affrontando». E sul futuro, l’ex comandante della missione Nato in Kosovo, non nasconde il suo pessimismo: «Così stando la politica e la situazione militare, non prevedo nessuna uscita che possa giustificare tutti gli anni, le energie e le vite che abbiamo speso in Afghanistan». Generale Mini, per la terza volta è cambiata la versione della morte del caporal maggiore Miotto. Come spiegarlo?
«Probabilmente il ministro La Russa ha ricevuto dalle autorità militari una ricostruzione più dettagliata dell’accaduto. In particolare, il tipo di proiettile che ha colpito il caporal maggiore Miotto non proviene da un’arma sofisticata come quella usata dai cecchini ma da un’arma residuale delle cento guerre afghane che può essere in mano a chiunque...».
Cosa cambia nella dinamica dell’evento? «Se Miotto era di guardia e si è trovato sottoposto a colpi di arma da fuoco, significa che la sua postazione era stata assaltata da più individui, a distanza più ravvicinata di quella che può usare un cecchino, e quindi si è difeso rispondendo al fuoco ostile. Non si tratterebbe quindi di un incidente durante una routine di servizio di guardia ma di un vero e proprio atto di combattimento di quella che da sempre sostengo essere una guerra...».
Una guerra che si vuole negare... «Se non fosse che la nuova versione della morte del caporal maggiore Miotto entra in conflitto con quella retorica della missione umanitaria che è stata abusata anche in questo caso...». Insisto su questo punto: cosa cambia questa terza versione? «Per quanto riguarda il soldato ucciso e il suo valore, non cambia niente. Semmai soddisfa quell’ansia di apparire guerrieri ad ogni costo. Dal punto di vista della dirigenza politica e militare, cambia l’atteggiamento nei riguardi di tutta l’operazione. Bisogna finirla di raccontare le storielle e dare conto a tutta la nazione del rischio reale che i nostri soldati in quella guerra stanno affrontando». Come uscire da questo «pantano insanguinato»? «Così stando la politica e la situazione militare, non prevedo nessuna uscita che possa giustificare tutti gli anni, le energie e le vite che abbiamo speso in Afghanistan. E che possa farci ritenere di aver raggiunto, o almeno sfiorato, uno di quegli obiettivi di sicurezza, ricchezza, democrazia, stabilità che ci eravamo posti quando abbiamo assunto l’impegno di Isaf».

mercoledì 5 gennaio 2011

I coloni pronti a tutto. Tranne che alla pace

I coloni pronti a tutto. Tranne che alla pace

Francesca Marretta

Liberazione del 20/11/2010

Sciopero generale per impedire che il governo israeliano blocchi gli insediamenti

La moratoria bis sulle costruzioni negli insediamenti israeliani su terra palestinese, chiesta al Premier israeliano Netanyahu da Washington, non è ancora stata votata. Ma i coloni hanno deciso di giocare d'anticipo. Dopo la pubblicazione on-line dei numeri di cellulare dei ministri, messi a disposizione della protesta al grido di «chiamateli o almeno mandate sms per dire vota no alla moratoria», domani scendono in sciopero generale. Uffici pubblici e scuole delle cittadine corazzate, collegate da "by-pass roads" e dalle case tutte uguali, resteranno chiusi, mentre a Gerusalemme è prevista una manifestazione contro il "settlement-freeze". Un messaggio chiaro, non solo per Netanyahu, capo di un governo che tengono al laccio, pur essendo una minoranza (destinata a crescere, data l'elevata natalità registrata in questo gruppo sociale), ma anche allo Shas. Il partito religioso, che tradizionalmente si rivela l'ago della bilancia nella politica israeliana, si trova nella posizione difficile di scontentare gli americani, o i coloni. Sulla questione moratoria, rischia di spaccarsi il governo israeliano.
Se non dovesse passare, se i coloni dovessero vincere il braccio di ferro, i laburisti di Barak farebbero fatica a restare ancora nell'esecutivo. Anche perchè, il movimento dei "settlers" lancia provocazioni quotidiane. Intervenendo a un dibattito organizzato dal Centro Peres per la pace a Tel Aviv, il leader del movimento dei coloni Dany Dayan, ha dichiarato che le colonie in Cisgiordania «sono ormai un fatto compiuto». Anzi dice Dayan, non solo non saranno sgomberate, ma al contrario continueranno a espandersi.
Il voto sui 90 giorni di stop alle ruspe, in cambio di sostanziosi aiuti economico-militari Usa, è ufficialmente rimandato, di giorno in giorno, perchè il governo israeliano intenderebbe capire meglio i termini dell'offerta americana. I giornali locali parlano invece della difficoltà del premier dell'affrontare una bocciatura che è al contempo un altro schiaffo per l'Amministrazione Obama.
Sull'attuale frangente delle relazioni tra la Casa Bianca, palestinesi e israeliani, è intervenuto, dalla colonna settimanale pubblicata dal giornale arabo stampato a Londra, al-Sharq al-Awsat, il direttore della televisione Al-Arabiya, Abd Al-Rahman Al-Rashed. Nell'articolo, il direttore del network arabo, rivolge critiche all'Anp e al Presidente Abbas, per aver fatto, involontariamente, regali a Netanyahu e danneggiato Obama. E senza ottenere nulla in cambio.
«In contropartita per 90 giorni di moratoria il Presidente americano da a Israele 20 aerei da combattimento, 20 miliardi di dollari e scatena la corsa dei donors ebrei americani a finanziare anche più costruzioni in West Bank e Gerusalemme», scrive Al-Rahman Al-Rashed. Che conclude: «Se non ci fosse stata discussione sul "freeze" gli israeliani non avrebbero ottenuto tutto questo. I palestinesi sono vittima dell'idea che fermare le costruzioni negli insediamenti porti beneficio». L'analista sostiene che in questo modo Netanyahu è riuscito a scansare colloqui che in realtà non vuole e diventare agli occhi di molti "l'eroe" che ha detto di no a Obama, contribuento alla sua sconfitta al Congresso. Insomma Netanyahu, capo di un governo che nelle previsioni pareva non potesse andare oltre i cinque mesi, ha riconquistato potere e soldi a livello internazionale, dice l'editoriale di al-Sharq al-Awsat. Sulla questione della minoranza della destra «pazza» dei coloni, come l'ha definita il quotidiano progressista Ha'aretz due giorni fa, è intervenuto lo scrittore israeliano A.B. Yehoshua, con una provocazione. Dato che per i "settlers" religiosi è più importante restare in quella che considerano «la terra dei padri», la West Bank, che loro chiamano Giudea e Samaria, che far parte dello Stato israeliano, la soluzione potrebbe essere che diventino una minoranza ebraica nel futuro Stato palestinese, dice lo scrittore, che aggiunge: «Avrebbero anche il vantaggio di pagare tasse più basse». Ironia a parte, i numeri parlano chiaro, mettendo in evidenza quella che si presenta come una situazione cui sarà arduo, per qualunque governo israeliano, trovare una soluzione. Se fu possibile evacuare ottomila coloni da Gaza, nella West Bank occorre fronteggiarne 300mila. E altri 200mila a Gerusalemme Est e dintorni.

martedì 4 gennaio 2011

"Israele preparava la guerra in Medio Oriente"

La Repubblica 3.1.11
"Israele preparava la guerra in Medio Oriente"
Le rivelazioni in un dispaccio di WikiLeaks del 2009: gli obiettivi erano Hamas e Hezbollah
Il capo di stato maggiore avrebbe informato una delegazione del Congresso Usa
di Fabio Scuto

GERUSALEMME - Il fiume delle rivelazioni di WikiLeaks è arrivato a Israele, ieri una manciata di cablogrammi inviati dall´ambasciata Usa di Tel Aviv è comparsa sul giornale norvegese Aftenposten. Del resto era stato lo stesso fondatore di WikiLeaks Julian Assange ad annunciare la scorsa settimana che il suo website si apprestava a rivelare 3.700 documenti riguardanti Israele, tutti documenti scottanti relativi agli ultimi cinque anni, dalla guerra contro il Libano del 2006 all´operazione "Piombo Fuso" a Gaza del 2009, ai preparativi di un attacco contro l´Iran per fermare il programma nucleare degli ayatollah di Teheran.
Secondo il quotidiano scandinavo, il capo di stato maggiore israeliano, Gabi Ashkenazi, incontrando una delegazione del Congresso americano alla fine del 2009, ha riferito che Israele si preparava a «una guerra su larga scala» in Medio Oriente, probabilmente contro Hamas e Hezbollah, ancor prima che contro l´Iran. «Sto preparando l´esercito israeliano a una guerra su larga scala, perché è più semplice trasformarla in una piccola operazione piuttosto che fare il contrario», ha detto il generale Ashkenazi, citato in un documento dell´ambasciata americana a Tel Aviv, datato 15 novembre 2009. «La minaccia del lancio di razzi contro Israele è più grave che mai. È per questo che Israele reputa tanto importante la difesa antimissilistica», ha aggiunto il generale Ashkenazi alla delegazione americana che era guidata dal deputato democratico Ike Skelton, secondo il cablogramma citato dal giornale.
L´incontro fra il chief of Staff israeliano e il congressman statunitense è avvenuto due mesi dopo il lancio test in Iran di un missile da crociera di tipo "Shabab". In quella occasione il capo di stato maggiore israeliano ha sostenuto che Teheran disponeva già di circa 300 missili di quel tipo in grado di raggiungere Israele e che in caso di attacco lo Stato ebraico avrebbe solo tra dieci e dodici minuti per reagire a un attacco missilistico di quel genere.
Ma anche se la minaccia di un attacco dell´Iran è grave, sono i gruppi integralisti Hamas e Hezbollah - sempre sostenuti dagli ayatollah - a turbare i sonni dei generali israeliani. I due movimenti islamici dispongono di razzi con minore gittata ma con una precisione di gran lunga superiore ai missili balististici iraniani. «Hamas avrà la possibilità di colpire Tel Aviv, dove si trova la più alta concentrazione di popolazione israeliana», ha detto Ashkenazi durante l´incontro.
In un´altra nota, derivante da una serie di colloqui il 2 e 3 settembre 2009 tra alti ufficiali israeliani e una delegazione del Congresso Usa guidata dal senatore Kirsten Gillibrand, se ne ricava una valutazione dell´Operazione Piombo Fuso a Gaza. Durante quel mese di guerra l´Esercito israeliano avrebbe operato con potenza limitata e senza nessuna intenzione di tornare a occupare il territorio di Gaza, decidendo anche di non entrare nelle principali aree urbane della Striscia. Il risultato - dice un generale al senatore Gillibrand - «è stato che un´operazione che doveva durare tre giorni ha preso invece tre settimane». La guerra di Gaza nel dicembre 2008-gennaio 2009 provocò circa 1.400 morti tra i palestinesi, soprattutto civili, e 13 negli israeliani, di cui dieci soldati.