venerdì 7 gennaio 2011

Una rete senza segreti: la crepa dolorosa del potere

Una rete senza segreti: la crepa dolorosa del potere

Benedetto Vecchi

Il manifesto del 19/12/2010

WikiLeaks ha modificato geografia politica e rapporti di potere su Internet. Gli Stati Uniti lamentano una perdita di egemonia, mentre il centro della scena è ora occupato da una nuova e inedita attitudine hacker

Comunque vada, la vicenda di Wikileaks, l'operazione messa in campo di Julian Assange sta cambiando profondamente la Rete. Ne sta cioè modificando la geografia, facendo diventare alcuni nodi snodi rilevanti nel flusso di informazioni (la Cina, ma anche il mondo arabo) e condannando altri a un ruolo marginale (la Russia e, in misura diversa, gli Stati Uniti). E soprattutto ciò che sta accadendo è un mutamento nei rapporti di forza, rendendo la presenza delle corporation meno invadente e condizionante la «vita dentro lo schermo». Costringendo, ad esempio, i media mainstream a fare i conti con la presenza di un sito che ha la capacità di accumulare un'ingente mole di dati «sensibili» e diffonderla in tempo reale, indipendentemente dalla certificazione di «autenticità» accordata da questo o quell'esperto, da questo media o quel dipartimento di stato. A differenza di quanto hanno scritto in queste settimane gli opinion makers, la scelta di Julian Assange di consegnare ad alcuni quotidiani i cablogrammi inviati dalle ambasciate al dipartimento di stato statunitense per verificare la loro attendibilità è stata dettata dalla consapevolezza che quegli stessi quotidiani avrebbero amplificato l'eco delle informazioni, obbligando così i media mainstream ad ammettere ciò che è già acquisito dalla loro modus operandi: la rete è ormai un'irrinunciabile fonte di notizie a cui fare ricorso per «confezionare» giornali e palinsesti televisivi.
Mediattivisti e giornalisti di strada
È questa modifica del rapporto tra rete e organi di informazione il primo effetto collaterale di Wikileaks. Con realismo, va infatti riconosciuto che i media tradizionali sono ormai divenuti produttori di notizie in gran parte dipendenti dalla Rete. Possono riempire gli schermi o inondare di inchiostro le pagine dei quotidiani con commenti sull'indispensabilità dei giornalisti come filtri, intermediari tra la realtà e la sua ricezione da parte dell'opinione pubblica, ma ciò che la diffusione dei cablogrammi ha messo in evidenza è il divenire di una «cultura di rete» variamente riassunto nelle formule di mediattivismo, «giornalismo di strada» o citizen journalism. Da una parte la rete consente a chiunque possegga un computer di diventare fonte di informazione, ma anche un produttore di informazione che può diffondere il suo «giornale» come meglio crede.
I casi citati sono i siti messi in piedi dai movimenti sociali di varia natura e a differenti latitudini: tutti hanno informato su iniziative e campagne che difficilmente avrebbero «bucato» il muro di gomma dei media mainstream. Oltre al ruolo pionieristico di Indymedia, le mobilitazioni dei sans papiers francesi; oppure il resoconto delle mobilitazioni studentesche in Austria, Germania e Polonia degli ultimi due anni sarebbero rimaste relegate alle «brevi» che appaiono sui giornali se gli stessi studenti non avessero diffuso on-line le notizie di occupazioni, sit-in e cortei assieme alle analisi sulle riforma dell'università che i governi dei loro paesi volevano far approvare nel silenzio dei media. Dall'altra parte, però va registrato il fatto che alcuni giornalisti in fuga dalle redazioni troppo vincolate ai diktat degli editori hanno scommesso sulla rete per rilanciare, ad esempio, il giornalismo di inchiesto o investigativo.
Il caso più clamoroso è quello del sito ProPublica.org che ha ricevuto lo scorso aprile il premio Pulitzer. In ogni caso, la rete è stato usato come un media. Wikileaks ha reso evidente tutto ciò, anche se questo ha provocato la reazione di rigetto proprio dei media e degli opinion makers che hanno visto cancellato il ruolo storicamente assegnato ai giornali, radio e tv di produttori dell'opinione pubblica.
Egeocentrismo della blogsfera
La rete ha quindi accelerato, se non determinato, l'inaridirsi di quel «quarto potere» investito del ruolo di controllore dell'operato del sovrano o, cosa sempre più importante, di quelle imprese transnazionali che spesso ignorano o aggirano le legislazioni nazionali per fare i loro affari.
Il rigetto di tale tendenza ha un punto a suo favore: l'assenza di un criterio di scelta, nessuna gerarchia di importanza di un argomento rispetto a tanti altri. È il refrain che domina le discussioni nelle redazioni sul fatto che un giornale o una tv fa sempre delle scelte e che l'autorevolezza di esse sta nella capacità di restituire il valore «generale» del fatto che si vuole raccontare. Ma la rete ha proprio messo in discussione tutto ciò. Il flusso di informazione alimenta cioè tanto l'entropia che un fastidioso rumore di fondo, ma è proprio nelle pratiche di rete (la condivisione, lo scambio, la reciprocità) che stabiliscono l'affidabilità e la rilevanza di un tema tratto da uno o più siti. E tuttavia rimane irrisolto il problema di trattare l'«egocentrismo di massa» della blogsfera che presenta gli argomenti trattati come informazioni filtrati da uomini e donne che si sono conquistati una certa autorevolezza proprio per avere messo in discussione il modo di produzione dei media mainstream. L'esperienza di Wikileaks si colloca a una distanza siderale dalle «chiacchiere» che impregnano la blogsfera. Da questo punto di vista è davvero un'operazione che segna un punto di svolta. Chi vuol fare informazione on-line non potrà che partire da questa esperienza informativa (e di controinformazione) che accetta proprio un criterio di selezione e di «confezionamento» delle news, ritenendo che il flusso di informazione deve essere comunque incanalato, lasciando alla critica del tempo le tante suggestioni di una «nuvola» di dati che è libera di vagare nel ciberspazio, lasciando ai singoli la libertà di individuare cosa e quale importanza ha un «post» piuttosto che un altro.
Ma l'operazione che da qui in poi sarà sempre associata a Julian Assange non cambia solo i rapporti tra giornalismo e rete. Nell'arco di due anni ha fatto irruzione su Internet una cultura che molti ritenevano reperto del passato prossimo della Rete. L'attitudine hacker, cioè il rifiuto del segreto. La rivendicazione di una libera circolazione delle informazioni che né cancellerie, né ministri della difesa o degli interni potevano impedire, è tornata con forza ad occupare la scena. Senza proclami, in maniera defilata e senza clamore, gli hacker che si sono riuniti attorno a Assange, sono tornati ai primordi della rete, quando la tecnologia digitale veniva sbandierata come una «tecnologia della liberazione» e hanno messo in piedi archivi e server in giro per il mondo. Un «dispositivo» difficile da individuare e costruito per resistere ad attacchi dell'intelligence informatica dei governi e della polizia.
Volontari della libertà
Sono passati tre decenni, ormai, dai primi gruppi hacker. E così Wikileaks ha scelto una modalità wiki, cioè al «software collaborativo» messo a punto dall'ingegnere informatico Ward Cunningham che consente la costruzione di un ipertesto attraverso la partecipazione corale appunto di molti «collaboratori». Il prodotto più noto, fino ad ora, era Wikipedia, l'enciclopedia on-line sviluppata da centinaia di migliaia di volontari e usata ormai da molte centinaia di milioni di utenti. Ogni volontario può intervenire e modificare una voce anche se tali aggiornamenti sono sottoposti alle verifiche degli altri volontari. Wikileaks ha più volte sottolineato che questo è il modo in cui funziona anche il loro sito.
C'è però una differenza sostanziale tra Wikipedia e Wikileaks. Mentre l'enciclopedia on-line sviluppa «voci», il sito voluto da Julien Assange ha finora pubblicato testi provenienti da altre persone; oppure ha messo on-line documenti riservati, confidenziali o segreti di istituzioni politiche. Il cablogate che è tutt'ora in corso è tale perché le informazioni pubblicate sono parte di quel flusso di valutazioni, impressioni, attivato da funzionari diplomatici statunitensi. Wikileaks ha deciso che tale flusso doveva diventare di «pubblico dominio», come d'altronde era scritto in quel «manifesto hacker» quando affermava che il nemico pubblico numero uno della democrazia era il segreto e che tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta è diventato la Bibbia di una controcultura libertaria dentro la Rete (il testo è facilmente reperibile in quasi tutti i siti legati alla network culture). E non è un caso che gli «attacchi» ai siti compiuti da giovani smanettoni che hanno scelto come firma digitale «Anonymous» hanno sottolineato che le loro azioni erano compiute in nome degli obiettivi «politici» di Wikileaks: la critica al segreto di stato.
Anche in questo caso, però, le conseguenze dell'operato di Wikileaks pongono un nodo difficile, ma non impossibile da sciogliere. La trasparenza non è sinonimo di maggiore libertà, né di un esercizio davvero democratico del potere. Trasparenza può significare anche una «banalizzazione» dell'operato del potere. È questo il punto più pregnante che Wikileaks lascia in eredità a chi è interessato a sviluppare una cultura critica della Rete. Il punto di incontro tra libertà di circolazione dell'informazione e critica del potere non è dato ancora sapere qual è. In questo caso torna però utile quel sapere codificato del pensiero critico in base al quale il passaggio dall'informazione alla conoscenza deve contemplare un'analisi del modo di produzione del consenso nelle società. E di come tale analisi sia propedeutica anche alla definizione di una mappa politica della Rete. Solo così potremmo finalmente scorgere l'ultimo effetto collaterale, ultimo in ordine di tempo, di Wikileaks. La modifica della geografia politica della Rete è infatti un dato acquisito. La perdita di egemonia degli Stati Uniti non è da considerare un dato relativo solo alla vita fuori dalla schermo, bensì un elemento che costituisce il dato emergente della Rete.

bvecchi@ilmanifesto.it