domenica 29 giugno 2008

Scambio di dati personali, Stati Uniti ed Europa a un passo dall’accordo

l’Unità 29.6.08
Scambio di dati personali, Stati Uniti ed Europa a un passo dall’accordo
Secondo il New York Times l’intesa consentirebbe a polizie e agenzie di intelligence di ottenere informazioni su viaggi, spese con carte di credito e ricerche sul web

FRA PRIVACY e sicurezza vince la sicurezza. Fra regole Ue e regole Usa, vincono gli Usa. Dopo 7 anni di discussioni, da quel 2001 che ha visto l’America scoprirsi vulnerabile sarebbe vicino, secondo il New York Times, un accordo che consentirà alle polizie e alle agenzie di intelligence europee e statunitensi di scambiarsi informazioni private su persone che vivono di qua e di là dell’oceano. Spese con carte di credito, viaggi, perfino le ricerche effettuate sul web: un Grande Fratello che attraversa l’Atlantico.
Il giornale newyorchese ha ottenuto una bozza dell’intesa che, una volta approvata, segnerà un successo diplomatico per i servizi antiterrorismo americani che si sono spesso scontrati con le norme europee più restrittive sull’uso dei dati personali dei cittadini.
Secondo il quotidiano è dal febbraio 2007 che le parti stanno negoziando e hanno già raggiunto un consenso di massima su 12 temi centrali dell’accordo internazionale «a carattere vincolante». L’amministrazione Usa preferirebbe chiudere prima della fine del mandato del presidente George W. Bush il prossimo gennaio, mentre da parte europea si preferirebbe attendere il 2009 e la conclusione del processo di ratifica del Trattato di Lisbona, che d’altro canto sta incontrando nuove difficoltà dopo il no degli elettori irlandesi nel referendum di due settimane fa. Restano comunque aperte alcune importanti questioni: tra queste la possibilità per i cittadini Ue di far causa al governo degli Stati Uniti per l’uso dei propri dati personali, una eventualità al momento esclusa dalla legislazione americana per i cittadini stranieri ma che potrebbe garantire una più facile accettazione di norme tanto distanti da quelle comunitarie.
La bozza di negoziato è scaturita da due conflitti transatlantici dopo le stragi dell’11 settembre: la polemica sulla richiesta americana di dati sui passeggeri partiti da scali europei e in rotta per gli Usa e quella sul consorzio bancario Swift che segue le tracce dei trasferimenti bancari internazionali. In entrambi i casi gli americani volevano avere accesso ai dati per indagare su potenziali attività in odore di terrorismo: molti paesi europei avevano obiettato adducendo come ragione del no la violazione delle norme nazionali sulla privacy.
Il nuovo testo è stato elaborato dai ministeri della Sicurezza Interna, della Giustizia e dal Dipartimento di Stato americano con le rispettive controparti europee.
Ue e Usa, ha detto al New York Times Stewart A. Baker, vice segretario di stato per la sicurezza interna, stanno cercando di evitare future controversie «trovando un terreno comune sulla privacy e concordando sul fatto che non si possono imporre obblighi conflittuali alle società private». Le indiscrezioni sull’accordo hanno provocato un’alzata di scudi tra gli attivisti per i diritti del cittadino nel timore che le norme a tutela della privacy possano facilmente essere aggirate.
Nell’accordo si afferma ad esempio che un governo non può usare informazioni che rivelino razza, religione, opinioni politiche, salute o vita sessuale «a meno che la legislazione nazionale non preveda appropriate salvaguardie».
La bozza però non precisa cosa venga considerata un’ “appropriata salvaguardia”, suggerendo che ogni governo decida da solo se sta rispettando questa regola.

giovedì 26 giugno 2008

A quattro «sorelle» l'autorizzazione per lo sfruttamento

A quattro «sorelle» l'autorizzazione per lo sfruttamento

di Gi. Sgre.
Il Manifesto del 20/06/2008

Il governo statunitense scavalca la legge sulle privatizzazioni e affida le prime concessioni

La legge sulla privatizzazione del petrolio iracheno è bloccata - giustamente - in parlamento per i notevoli dissensi suscitati dalla proposta ispirata dagli occupanti, ma gli Stati uniti non possono più aspettare e così hanno trovato il modo per aggirarla. Anche perché urge aumentare le esportazioni di 500 milioni di barili al giorno, come farà l'Arabia saudita. Naturalmente non si tratta solo di competizione o di cercare di calmierare il prezzo del petrolio (tanto ci pensano le speculazioni ad aumentarlo) ma di cominciare a far «rendere» l'occupazione. Come? Siccome non è possibile lanciare una gara d'appalto per assegnare lo sfruttamento dei vari pozzi in assenza della controparte irachena (la legge per la creazione dell'ente nazionale dei petroli iracheni è contenuta in quella sulle privatizzazioni), gli Usa hanno individuato quattro compagnie petrolifere che si sono distinte per il lavoro «caritatevole» svolto finora, guarda caso con il ministro del petrolio iracheno, alle quali affidare la modernizzazione degli impianti. Le quattro «sorelle», che vedranno il loro lavoro ripagato in natura, con il petrolio, sono la Exxon Mobil, la Shell, la Total e la Bp. Le stesse che avevano sfruttato il petrolio iracheno dal 1929 al 1972, quando Saddam l'aveva nazionalizzato. E, manco a dirlo, saranno quelle favorite - con questi precedenti «filantropici» - dalle gare d'appalto quando queste saranno possibili, si dice fra un paio d'anni.
D'altra parte, finora, non si trovavano compagnie disposte ad investire ingenti capitali in Iraq per modernizzare gli impianti resi obsoleti da anni di embargo e successivo abbandono da parte dei tecnici iracheni a causa della messa fuori legge del partito Baath, senza la garanzia di poter sfruttare i giacimenti. I problemi di sicurezza sembrano in parte superati almeno a Bassora, nonostante lo scontro tra gli americani (che al confine con l'Iran stanno costruendo una megabase militare) e le milizie sciite. Nel sud infatti si estrae la maggior parte dell'oro nero iracheno. A Kirkuk, il cui status non è ancora stato definito (la città è rivendicata dai kurdi), la situazione è più problematica non solo perché si trova in una zona «contestata» ma anche per i sabotaggi degli oleodotti.
Sebbene la legge per la privatizzazione non sia ancora stata approvata i kurdi, come succede anche in altri settori, hanno cominciato a sfruttare la risorsa che potrebbe rendere il miraggio di un nucleo di stato kurdo una realtà. Peraltro in Kurdistan sono stati scoperti giacimenti che non erano mai stati individuati prima, forse perché Saddam non voleva concedere quest'arma ai «nemici». Quindi non sono solo le quattro compagnie scelte dagli Usa ad aver messo le mani sul petrolio iracheno, in Kurdistan stanno già sfruttando i nuovi pozzi la turca General Enerji , la norvegese Dno e la svizzero-canadese Addax Petroleum. Non solo. In vista delle gare di appalto era già stata selezionata una lista di compagnie «appaltabili», tra le quali vi è anche l'Eni.

Mutui subprime, retata a Wall Street

Mutui subprime, retata a Wall Street

di Andrea Greco

la Repubblica del 20/06/2008

Ondata di arresti dell´Fbi. In carcere anche due ex manager di Bear Stearns. Centinaia di arresti, in carcere due manager Bear Stearns

Un anno dopo l´annuncio di problemi dei due fondi hedge di Bear Stearns che hanno il poco invidiabile vanto di avere aperto la crisi mondiale, i loro due gestori, sotto inchiesta da parte dell´Fbi, finiscono in carcere. Matthew Tannin è stato fermato in New Jersey, il collega Ralph Cioffi nel suo appartamento di Manhattan. Sono accusati di cospirazione e frode. «Capri espiatori», dicono gli avvocati, colpiti per essere i primi di una lunga serie di manager che hanno contribuito a volatilizzare 400 miliardi di dollari. Conto peraltro parziale. Il braccio investigativo del Dipartimento di giustizia degli Usa li accusa di avere «gravemente violato la fiducia pubblica», tradendo gli investitori mai messi al corrente dell´andamento reale dei fondi, che gestivano 1,8 miliardi volatilizzati alla bancarotta giunta l´estate scorsa.
Tappata con faticosi interventi delle banche centrali - specie la Fed di Washington - la falla finanziaria, sembra giunto il momento della sanzione per chi ha sbagliato; altro passaggio fondamentale nelle ricorrenti catarsi del capitalismo anglosassone. Così ieri il Dipartimento e l´Fbi hanno annunciato la messa in stato di accusa - negli ultimi tre mesi e mezzo - di 406 persone, con centinaia di arresti, per frodi legate all´erogazione dei mutui di cattiva qualità. "Operazione ipoteche maligne", è il nome dell´inchiesta, che si allarga a tutti gli stati americani. I numeri sono impressionanti: 287 arresti da marzo (173 persone già condannate), 60 solo nelle ultime 24 ore.
I due fondi, lanciati nel 2006 all´apice del boom creditizio, fin dalla primavera scorsa erano nei guai, per l´eccessivo uso della leva debitoria e l´alta esposizione ai mutui subprime (circa il 60 per cento del patrimonio, secondo l´inchiesta parallela della Sec che vigila sul mercato). Nel mirino dell´Fbi ci sarebbe, soprattutto, lo scambio di e-mail fra i due manager, da cui emergerebbe che mentre dichiaravano pubblicamente che non c´era nulla da preoccuparsi, erano pienamente coscienti dell´agonia dei due fondi. In una comunicazione inviata dal suo indirizzo privato Tannin suggeriva al collega la possibilità di discutere la chiusura degli hedge fund. Ci ha poi pensato il mercato, quando l´estate scorsa è giunta la bancarotta, primo evento di una catena di sventure che a fine anno ha portato l´allora quinta banca statunitense tra le braccia di Jp Morgan, a un valore ormai simbolico.
Inchieste e arresti non significano, però, che la crisi nata dai subprime sia finita. I listini hanno perso oltre il 20 per cento da inizio anno, anche se, dicono in tanti, «il peggio è alle spalle». Ieri l´indice Dow Jones ha perso quota 12mila punti in avvio, dopo l´uscita dell´indice Fed di Philadelphia sull´attività manifatturiera, sceso di 17 punti contro le attese di 10 punti. Poi Wall Street ha azzerato le perdite. Il segretario al Tesoro, Henry Paulson, ha detto che «i mercati devono essere preparati a eventuali nuovi fallimenti, dobbiamo limitare la percezione che alcune aziende siano troppo grandi per fallire». Paulson ha chiesto una normativa più severa, e che la Fed abbia nuovi poteri per garantire la stabilità finanziaria e la massima trasparenza di quelli che a Wall Street sono (erano?) chiamati masters of the universe.

Manette a Wall Street. Le email svelano la grande truffa

Manette a Wall Street. Le email svelano la grande truffa

di Massimo Gaggi

Corriere della Sera del 21/06/2008

Ai clienti: «State tranquilli». Negli scambi interni: «Ho paura. Mi sa che siamo fritti»

«Questo mercato mi mette paura, mi sa che siamo fritti». «Che tu ci creda o no, anche in queste condizioni sono riuscito a convincere qualche cliente a mettere più soldi nel nostro fondo». «Io penso che dovremmo chiuderlo adesso». Questo scambio di battute è alla base dell' incriminazione dei due «fund manager» di Bear Stearns arrestati (e poi rilasciati su cauzione) due giorni fa con l' accusa di aver mentito agli investitori loro clienti. Non sono frasi ricavate da un' intercettazione telefonica, ma la ricerca condotta dagli inquirenti non ha una natura molto diversa: sono stati infatti passati al setaccio migliaia di messaggi elettronici - email e «instant messages» - scambiati da manager e operatori delle istituzioni finanziarie nei mesi cruciali che hanno preceduto il crollo del mercato dei mutui subprime. L' arresto di Ralph Cioffi e Mattehew Tannin è probabilmente solo il primo episodio di un' offensiva giudiziaria che, dopo aver colpito soprattutto operatori del mercato immobiliare, periti e le società che hanno concesso mutui (i 60 arresti per 144 frodi di cui hanno dato notizia l' altro giorno i procuratori federali a Washington), è destinata a espandersi proprio a Wall Street e dintorni, nel cuore del mercato finanziario. L' Fbi ha, infatti, reso noto che sta esaminando in profondità il comportamento di 19 delle maggiori istituzioni finanziarie del Paese. E, vista la grande difficoltà di entrare nel merito delle scelte professionali degli operatori, di provare la loro imperizia nella gestione del denaro degli investitori, si finisce per intervenire cercando di dimostrare che i risparmiatori sono stati presi per il naso. Per farlo di mettono a confronto le frasi di ogni tipo - c' è di tutto, dalle espressioni scanzonate alle confessioni angosciate - scritte nelle mail e, ancor più, nei messaggi istantanei con le assicurazioni che, negli stessi giorni, venivano fornite ai clienti. Le parole sussiegose, gli inviti alla fiducia registrati nelle «conference call» contro testi scritti, inesorabilmente registrati dalla memoria universale del web, che riflettono stati d' animo momentanei, sfoghi improvvisi, il linguaggio colloquiale, e notoriamente colorito, dei trader. Non è la prima volta che le email sono cruciali per un provvedimento giudiziario. E' successo nel caso Enron, mentre qualche anno fa Henry Blodget, celebre analista di Merrill Lynch, patteggiò, pagando una multa salatissima e abbandonando l' attività finanziaria per evitare di essere processato dall' allora capo della procura di New York, Eliot Spitzer, che lo aveva accusato di essere, nella sua attività finanziaria, in conflitto d' interessi. Ai risparmiatori Blodget raccontava meraviglie di alcune «start up» tecnologiche come Info.Space, Pets.com e eToys, ma poi, in privato, usava espressioni come «ho smaltito un pò di spazzatura» o «gli ho rifilato m ». E Sanford Weill, mitico capo del gruppo Citibank, lasciò l' istituto e rinunciò a candidarsi ad alcuni incarichi pubblici anche per l' imbarazzo derivante da uno scambio di email col superanalista Jack Grubman che, mentre proponeva ai clienti della banca di investire in certe società, scriveva a Weill che coloro che governavano quelle stesse imprese erano dei gran maiali. Non sempre, comunque, il messaggio elettronico basta a incastrate un imputato: Frank Quattrone, banchiere specializzato in investimenti tecnologici, è stato processato per il reato di ostruzione alla giustizia a causa di una mail nella quale invitava i suoi colleghi a ripulire i loro «file», facendo sparire tutto ciò che poteva essere imbarazzante o compromettente. La battaglia legale è stata lunga, ma alla fine Quattrone è stato assolto. Stavoltà, però, negli Usa il clima è diverso. Intanto perché la disinvoltura di molti operatori finanziari ha innescato una crisi di dimensioni impressionanti che sta avendo un impatto pesante sul piano economico e anche a livello sociale. E poi perché i clienti di Bear Stearns ai quali Cioffi e Tannin vendevano titoli che già sapevano essere carta straccia non erano solo anziani e danarosi pensionati, ma anche grandi banche come la britannica Barclays e perfino «hedge fund». L' industria della finanza più rischiosa, quella spesso sospettata di rifilare «bidoni», è stata, insomma, a sua volta «bidonata». Banche e fondi non l' hanno presa bene. Delle vecchie complicità tipo «cane non morde cane» non c' è più traccia: le banche raggirate dai due «fund manager» sono in prima fila nel procedimento d' accusa. Lo scambio di mail della notte del 22 aprile 2007 può segnare, negli Stati Uniti, l' inizio di una nuova stagione nei rapporti tra finanza e giustizia. Matthew Tannin, un operatore finanziario laureato in giurisprudenza descritto dai suoi colleghi come un uomo tormentato, da tempo preoccupato per la china nella quale sta sprofondando la Bear Stearns, confessa i suoi timori al suo collega «anziano», Ralph Cioffi. Il rude «broker» italoamericano lo incontra nel fine settimana per rassicurarlo: la situazione è difficile, ma ce la faremo, stanno per arrivare nuovi soci. Tannin si convince e si rimette al lavoro. Qualche settimana dopo il loro fondo fa naufragio: gli investitori perdono tutto. Ancora qualche mese e ad affondare sarà l' intera Bear Stearns.

Il Tar blocca il Dal Molin

Il Tar blocca il Dal Molin

di Orsola Casagrande

Il Manifesto del 21/06/2008

Il tribunale amministrativo veneto boccia l'ex premier su tutta la linea: non ha consultato la popolazione, sulla decisione non c'è alcun atto scritto e il bando di gara non ha rispettato le norme italiane ed europee. Il Codacons e i comitati esultano: ha vinto la nostra linea. Il sindaco Variati promette anche un referendum cittadino. E il governo Berlusconi tace imbarazzato

La nuova base militare americana al Dal Molin non si può fare. Il giudizio del Tar del Veneto arrivato ieri mattina è netto, e sospende i lavori in attesa che sul prevedibile ricorso si pronunci il Consiglio di Stato. I comitati cittadini esultano: è la vittoria della società civile, di una città che non ha mai smesso di lottare. La sentenza del Tar ha accolto in toto il ricorso presentato dal Codacons, dal coordinamento dei comitati dei cittadini contro la base e da altre associazioni. Nel ritenere «illegittima» la decisione del governo Prodi il Tar sostiene che è mancata la consultazione della popolazione interessata, nonostante fosse prevista dal memorandum Stati uniti-Italia. Ma denuncia anche di non aver riscontrato alcuna traccia documentale di sostegno «sull'atto di consenso presentato dal governo italiano a quello degli Stati uniti, espresso verbalmente nelle forme e nelle sedi istituzionali». Questo consenso, scrivono i giudici, «pertanto risulta espresso soltanto oralmente» e per questo motivo «appare estraneo ad ogni regola inerente all'attività amministrativa e assolutamente extra ordinem. Tale dunque da non essere assolutamente compatibile con l'importanza della materia trattata con i principi tradizionali del diritto amministrativo e delle norme sul procedimento, in base ai quali ogni determinazione deve essere emanata con atto formale e comunque per iscritto». Un giudizio pesantissimo, dunque, sull'operato del governo italiano il cui assenso, insistono i giudici, «risulta essere stato formulato, del tutto impropriamente, da un dirigente del ministero della difesa, al di fuori di qualsiasi possibile imputazione e competenze e di responsabilità ad esso ascrivibili in relazione all'altissimo rilievo della materia».
Ma il Tribunale amministrativo regionale non si ferma qui. Infatti nella sentenza ribadisce che ci sono anche «altri profili di illegittimità, alla luce della normativa nazionale ed europea». In particolare si sottolinea che l'autorizzazione è stata data «non solo per quanto riguarda l'insediamento delle nuove strutture della base militare, ma anche per la realizzazione delle relative opere, senza procedere alla verifica ex ante, del rispetto delle condizioni esplicitamente apposte». I magistrati aggiungono che sul bando di gara già effettuato per la realizzazione delle opere non sarebbero state rispettate le «normative europee e italiane in materia di procedure ad evidenza pubblica per l'assegnazione di commesse pubbliche». Il Tar quindi ricorda che per disposizione del commissario straordinario Paolo Costa «era stata prevista come condizione la redazione di un progetto alternativo, relativo in particolare agli accessi alla base». Peccato che di questo progetto «non è riscontrabile alcuna menzione nella autorizzazione». La bocciatura del Tar sulla nuova base militare Usa al Dal Molin è davvero su tutti i fronti.
Per il Codacons «la motivazione espressa dal Tar è ancora più soddisfacente di quanto ci si poteva aspettare, poichè i giudici sono entrati nel merito dell'intero procedimento, contestandolo pezzo per pezzo come il Codacons chiedeva». Il presidente Carlo Rienzi ribadisce che si tratta di «una sentenza di importanza estrema e che rappresenta una vittoria di tutti i cittadini. I giudici infatti non solo hanno riconosciuto le tesi sostenute dalla nostra associazione ma hanno ribadito con fermezza l'importanza dell'opinione dei cittadini in merito a questioni che riguardano direttamente il territorio e l'urbanistica». Il Codacons aveva presentato ricorso contro la nuova base al Dal Molin contestando tra le altre cose la violazione dell'articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra e degli articoli 80 e 87 sull'obbligo di ratifica con legge dei trattati internazionali di natura politica, nonché la violazione dei trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza. Anche dal presidio no Dal Molin parole di gioia per questa sentenza che «dimostra - dice Marco Palma - quanto fondate sono le tesi dei cittadini che da due anni si oppongono alla realizzazione dei progetti statunitensi. Il Tar, infatti, riconosce i pericoli ambientali e urbanistici legati alla realizzazione dell'opera. Chi ha tentato di prendere in giro la cittadinanza, ora, è stato smascherato». Il presidio si impegna a vigilare sull'osservanza di questa sentenza, che nei fatti è una sospensiva e blocca qualunque lavoro «per difendere la legalità che più volte hanno tentato di calpestare i promotori dell'opera». Il presidio ha organizzato tre giornate di mobilitazione, a partire da oggi con dei banchetti informativi in centro. E poi giovedì prossimo con una presenza in piazza dei Signori in contemporanea al dibattito del consiglio comunale e il 30 giugno con una mobilitazione.
Il sindaco di Vicenza, Achille Variati, ha ribadito che la giunta proporrà nella seduta del consiglio di giovedì prossimo il referendum cittadino, che dovrebbe svolgersi a ottobre. Sulla sentenza Variati dice che «si tratta della vittoria delle ragioni di un territorio: avevamo sempre denunciato la mancanza di informazioni, di una vera discussione e di una legittimazione della procedura avviata». Mentre per il presidente dell'Ecoistituto del Veneto, il verde Michele Boato, «Davide ha fermato Golia. Sembra incredibile, ma è successo, dopo due udienze interlocutorie nei mesi scorsi, il dibattimento di mercoledì si è concluso con la sospensiva di tutte le strane autorizzazioni con cui il governo Prodi prima (commissario Paolo Costa) e quello Berlusconi poi permettevano all'esercito degli Stati uniti di calpestare le norme dello stato italiano». «No comment» invece dal commissario Paolo Costa come dal governo Berlusconi e dagli Usa.

I furbetti della Grande Mela

I furbetti della Grande Mela

di Matteo Bosco Bortolaso

Il Manifesto del 21/06/2008

Dopo la retata di giovedì dell'Fbi, si allarga l'inchiesta sulle truffe

A Wall Street si respira aria pesante. L'estate newyorchese è umida, soffocante e pronta al peggio. La borsa, ieri, è partita male, con il Dow Jones rapidamente sceso sotto i 12 mila punti e gli indici di riferimento in perdita. Ma nel venerdì del Financial District si è parlato anche di altre grane - quelle giudiziarie - dei furbetti della Grande Mela.
Ralph Ciotti e Matthew Tannin, due ex manager della Bear Stearns, sono stati arrestati giovedì con l'accusa di aver frodato i loro clienti con i famigerati fondi di speculazione. Il dramma dei mutui made in Usa, insomma, si trasferisce nelle aule di tribunale, mentre l'Fbi annuncia numeri da capogiro della sua maxi-indagine sui «malicious mortgage» apertasi lo scorso marzo. Finora i condannati sono 173, mentre sono state arrestate 283 persone su un totale di 406 incriminati. Un vero e proprio esercito, quello dei furbetti di Manhattan con il colletto inamidato e l'ufficio che si affaccia sul cratere di Ground Zero.
L'Fbi starebbe indagando su 19 grandi società, incluse banche d'investimento, agenzie di rating e hedge fund, come quelli gestiti dai due imputati eccellenti. Gli stati più colpiti da questo tipo di attività illecita sono Florida, Texas, New York, Ohio e Illinois. In alcuni casi - spiega l'Fbi - le frodi sui mutui sono collegate a bande e casi di droga, in quanto rappresentano un meccanismo per il riciclaggio di denaro.
A Chicago le autorità hanno incriminato 67 persone per frode fra agenti immobiliari, costruttori e avvocati. «Questo tipo di crimini ha fatto sì che le banche e le società finanziarie si adoperassero per stringere gli standard di credito», sottolinea Patrick Fitzgerald, procuratore di Chicago.
Ma il caso sulla bocca di tutti gli operatori degli ambienti finanziari, ieri a New York, era quello degli arresti alla Bear Stearns. Gli investigatori, come accade in Italia, hanno tratteggiato i due imputati attraverso le intercettazioni. Ma negli Stati Uniti il principe dei mezzi di comunicazione, più che il telefono, è l'e-mail.
I giornali americani di ieri ospitavano i dialoghi elettronici dei due imputati, in prima pagina. La ricostruzione degli inquirenti inizia nel febbraio del 2007. Cioffi e la sua squadra festeggiano il lucroso mercato dei fondi di speculazione con un giro di vodka. Il mercato va bene, i soldi sono facili. Una sbornia. Ci si sveglia a marzo e le cose vanno male. Cioffi scrive: «Ho mal di pancia per la nostra performance di questo mese». Anche Tannin è preoccupato, probabilmente si rende conto dell'abisso che ha di fronte. «Non siamo diciannovenni in Iraq», lo rimprovera il collega con un'email. L'altro, quasi incredulo, gli scrive: «Non ci crederai, sono riusciuto a convincere altre persone ad aggiungere soldi».
Questi i testi sui Blackberry - i cellulari con cui si possono leggere le e-mail - degli uomini di Bear Stearns. I quali, tre giorni dopo, dipingevano un'immagine ben più rosea di fronte ai loro clienti. Ma in aprile gli investitori cominciano ad innervosirsi. Uno chiede ritirare 57 milioni di dollari. Cioffi lo rassicura: «Io stesso ho messo 8 milioni, non c'è da preoccuparsi». Ma la situazione, verso la fine del mese, precipita. Un rapporto dalle tinte fosche prospetta quel che poi è accaduto. Tannin, all'alba di una domenica mattina, è sconvolto: «Il mercato va dannatamente male». Qualcosa che il manager non poteva permettersi di scrivere sull'e-mail della Bear Stearns, sottolineano gli investigatori. Tannin aveva quindi spedito una missiva elettronica privata, alla moglie di Cioffi. Qualche giorno dopo, il 25 aprile, i due parlano di fondi in «gran forma» in una conference call con gli investitori. Ma, secondo la ricostruzione degli investigatori, la frittata è ormai fatta. Poco prima del collasso dei fondi, Cioffi scrive un'altra email: «Ho sciacquato trent'anni di carriera giù nella fogna». Giovedì gli arresti. Da Wall Street alla corte federale di Brooklyn, dopo manette e impronte digitali di rito. Edward J. Little, avvocato di Cioffi, difende il suo cliente spiegando che «ha perso i soldi esattamente nella stessa maniera dei suoi investitori». «Il fatto che i suoi fondi siano stati i primi a perdere lo può rendere un obiettivo facile - continua l'avvocato - ma non vuol dire che abbia fatto qualcosa di sbagliato». I legali respingono le accuse, ma i loro assistiti rischiano parecchio. Tannin potrebbe avere 20 anni per frode e complotto, Cioffi 40 perché su di lui grava anche l'accusa di insider trading.
I due manager non hanno avuto problemi a pagare le cauzioni, rispettivamente 4 milioni per Cioffi e 1,5 milioni per Tannin. Per sborsare i soldi hanno dovuto ipotecare le loro case: la villa in New Jersey e i terreni in Florida di Cioffi e l'appartamento di Manhattan di Tannin.

Il «grande orecchio» di Sigonella

Il «grande orecchio» di Sigonella

di Manlio Dinucci
Il Manifesto del 22/06/2008

Quattro stazioni terrestri in tutto il mondo per permettere alla marina Usa di comunicare. Il ministro della Difesa australiano: a luglio via ai lavori. Anche in Sicilia

Mentre il Tar del Veneto blocca il raddoppio della base Usa di Vicenza a causa anche del suo impatto ambientale (nonché per la mancanza di un accordo documentato e per il mancato coinvolgimento della popolazione da parte del governo Prodi), un progetto ancora più pericoloso si sta realizzando a Sigonella nel più assoluto segreto. Esso riguarda l'installazione di una delle stazioni terrestri del Muos (Mobile User Objective System), il nuovo sistema di comunicazioni della marina statunitense. Il Muos, formato da una costellazione di quattro satelliti geosincroni più uno di riserva, permetterà di collegare, con comunicazioni radio, video e trasmissione dati ad altissima frequenza, le portaerei e altre unità di superficie, i sottomarini, i cacciabombardieri, i missili balistici e da crociera, gli aerei senza pilota, i centri di intelligence, in qualsiasi parte del mondo si trovino, e di collegare le forze navali a quelle aeree e terrestri. Le stazioni terrestri del Muos saranno in tutto quattro: due in territorio statunitense, a Norfolk (Virginia) e nelle Hawaii, una in Australia e una in Sicilia, nella base aeronavale Usa di Sigonella in Sicilia, a due passi da Catania. Lo ha comunicato lo Spawar (Space and Naval Warfare Systems Command), il comando di San Diego responsabile del Muos.
A che punto sia il progetto lo apprendiamo non dal governo italiano, ma da quello australiano. Il ministro della Difesa Joel Fitzgibbon ha infatti annunciato l'altro ieri che i lavori per la stazione australiana del Muos, situata a Geraldton nella parte occidentale del paese, inizieranno il prossimo luglio o al massimo ad agosto. La stazione sarà costituita da tre edifici con sofisticate attrezzature elettroniche, tre grandi parabole satellitari (18 metri di diametro) e altre due antenne. Ciò significa che contemporaneamente inizieranno anche i lavori per la costruzione della stazione Muos di Sigonella, finanziata dal Pentagono nel 2007 con 13 milioni di dollari. Quando tra il 2009 e il 2011 saranno lanciati i satelliti Muos, le quattro stazioni terrestri dovranno già essere operative.
Non si sa quando e come il governo italiano abbia autorizzato lo Spawar a installare la stazione terrestre a Sigonella, nella base già candidata ad ospitare il nuovo sistema Nato di sorveglianza Ags (Alliance Ground Surveillance), con obiettivo il Medioriente, che dovrebbe divenire operativo tra non molto. In Australia è stato fatto tramite un memorandum d'intesa segreto: è quindi probabile che lo stesso sia avvenuto in Italia, come già avvenuto in passato. Ciò significa che il progetto viene sottratto ai controlli sull'impatto ambientale, tipo quelli che il Tar del Veneto ha considerato fondamentali per il via libera alla realizzazione della base Dal Molin di Vicenza. Eppure l'impatto esiste ed è pericolosissimo. Come ha dimostrato l'inchiesta di Rainews24 «Base Usa di Sigonella: il pericolo annunciato» (andata in onda il 22 novembre 2007), lo studio sull'impatto ambientale, realizzato per conto della marina statunitense dalla società statunitense Agi tramite la Maxim Systems, ha concluso che la stazione Muos non dovrebbe essere installata a Sigonella. Vi è infatti il pericolo che le fortissime emissioni elettromagnetiche inneschino la detonazione degli ordigni presenti nella base militare. L'allarme è stato confermato dal responsabile della Gmspazio, rappresentante italiana dell'Agi.
Nonostante ciò, la marina americana ha confermato la scelta di Sigonella, base già strategica per gli Usa come finestra sul vicino Medioriente. Non si sa se nello studio siano state prese in considerazione le conseguenze del fortissimo inquinamento elettromagnetico sulla popolazione dell'area circostante, dove già si verifica una incidenza di tumori, in particolare di leucemie infantili, più alta che in altre zone (la base si trova in una zona, tra Priolo e Augusta, a fortissimo rischio ambientale). Si può comunque pensare che, se le emissioni elettromagnetiche sono talmente forti da poter innescare la detonazione di ordigni esplosivi, esse sono comunque pericolose per la popolazione della zona.
Chi sarà esposto al pericolosissimo inquinamento elettromagnetico della stazione Muos potrà comunque consolarsi al pensiero che lo Spawar, dicono gli Usa, è «impegnato a preservare la nostra pace e a difendere la nostra nazione e i suoi alleati».

Il Pentagono: atomiche Usa «insicure»

Il Pentagono: atomiche Usa «insicure»

Il Manifesto del 22/06/2008

Un piano per «chiudere» Ghedi e spostare tutto a Aviano

La «maggior parte dei siti» in cui sono dispiegate testate nucleari nelle basi dei Paesi alleati in Europa manca delle misure di sicurezza considerate come standard dal dipartimento della Difesa americano. E per questo gli Usa starebbero pensando di trasferire le atomiche in Italia dalla base di Ghedi e di concentrarle tutte ad Aviano, dove già se ne troverebbero una cinquantina. È quanto emerge da un'inchiesta interna condotta dall'Air Force Usa e diffusa dalla Federazione degli scienziati americani (Fas), secondo cui Italia (delle 200-350 testate americane di tipo B61 in Europa, 50 si troverebbero ad Aviano, e 20-40 a Ghedi), Germania (10-20), Olanda (10-20) e Belgio (10-20) mantengono testate in basi militari nazionali in cui i militari americani in tempo di pace hanno un ruolo di «custodi». I nuovi particolari del rapporto «Air Force Blue Ribbon Review of Nuclear Weapons Policies and Procedures», parzialmente declassificato in questi giorni, rivelano «un problema di sicurezza in Europa molto maggiore» di quanto non fosse emerso.
Non solo: secondo una notizia pubblicata sul sito dell'Usaf, il problema di sicurezza riguarda diversi siti. E questo, scrive la Fas, «suggerisce che il problema sia a Buchel, in Germania, o a Ghedi, in Italia». A rafforzare le indicazioni della base italiana come insicura vi è anche la notizia secondo cui il Pentagono starebbe pianificando il ritiro dei suoi Munition Support Squadron proprio da Ghedi. Il rapporto era stato sollecitato dopo che per 36 ore, nell'agosto dello scorso anno, si erano perse le tracce di sei testate nel corso di un loro trasferimento negli Stati Uniti. Per questo, gli Usa starebbero pianificando di ridurre il numero delle basi nucleari in Europa.

Rapporto Covip: il Tfr stravince sui fondi. Si studia la reversibilità

Rapporto Covip: il Tfr stravince sui fondi. Si studia la reversibilità

di Paolo Andruccioli

Il Manifesto del 25/06/2008

Nel 2007 il Tfr è tornato a battere i fondi pensione: 3,1% contro 2,1%. I crolli delle principali borse e in particolare il boomerang dei subprime americani hanno messo in crisi tutti i gestori, che non sono riusciti a stare all'altezza della situazione. Anche laddove sono stati contenuti i costi della gestione finanziaria (nei fondi pensione negoziali per esempio) le performance finali sono state più che deludenti. Anche il bilancio del «referendum» sul Tfr risulta alquanto deludente, visto che solo 70 mila lavoratori, su un totale di oltre 6 milioni di dipendenti hanno deciso di spostare il Tfr nelle casse dei fondi con il sistema del silenzio-assenso. Molto scarsa ancora l'adesione dei giovani sotto i 35 anni e delle lavoratrici, anche se la presenza femminile fa registrare una leggera crescita negli ultimi mesi.
I fondi pensione si continuano a concentrare soprattutto nel nord del paese e nelle grandi imprese, mentre nel pulviscolo delle piccole aziende italiane la previdenza complementare rimane ancora fuori dai cancelli. Completamente assente, invece (fatta eccezione per il fondo della scuola) nel settore pubblico. Sono questi alcuni dei dati principali contenuti nella Relazione annuale della Covip e nelle considerazioni del presidente Luigi Scimia, che questa mattina ha presentato il bilancio della previdenza complementare di fronte al ministro del lavoro e del welfare, Maurizio Sacconi.
«Dopo quattro anni di crescita sostenuta - ha detto Scimia - l'andamento negativo delle principali borse mondiali, iniziato in coincidenza con le note vicende legate alla crisi dei mutui subprime e acuitosi nei primi mesi del 2008, si è purtroppo riflesso nei rendimenti non incoraggianti conseguiti dai fondi. In media i risultati sono stati inferiori alla rivalutazione del Tfr». I dati in possesso della Covip sulle performance finanziarie dei fondi ci dicono così che nel 2007 il rendimento medio aggregato dei fondi pensione negoziali (quelli sindacali, ndr) è stato del 2,1%, metre i fondi pensione aperti sono andati addirittura sotto: meno 0,4%.
Che fare dunque? Tornare a mettere mano alle riforme? Il nuovo governo Berlusconi, rappresentato questa mattina da Sacconi, non sembra affatto intenzionato a tornare indietro. Il ministro del lavoro ha confermato cioè che la strada da battere è sempre quella della previdenza complementare, perché si deve costruire il welfare delle «opportunità e della responsabilità». Ma visto che anche a Sacconi risulta molto chiaro il no dei lavoratori ai fondi pensione e al correlato rischio finanziario che comportano, si fa strada l'idea di un ammorbidimento delle norme. Sacconi ha spiegato che sarebbe utile per esempio lavorare sull'irreversibilità della scelta: oggi infatti dal Tfr si può passare in qualsiasi momento al fondo pensione e non viceversa. Sacconi (anche in una certa dissonanza con alcune recenti dichiazioni di Maroni) si è detto invece contrario a rendere obbligatoria l'adesione ai fondi, cosa che invece a quanto pare sarebbe gradita ad alcuni studiosi della materia, tra cui l'ex ministro Giuliano Amato, uno dei protagonisti delle riforme della previdenza pubblica. La Covip da parte sua si lamenta per l'assenza di risorse destinate all'informazione (ci vorrebbero circa altri 18 milioni, detto Scimia) e pur chiedendo stabilità, visto che le pensioni non possono essere «un cantiere aperto», propone alcuni aggiustamenti, tra cui appunto quelli relativi all'irreversibilità della scelta tra Tfr e fondo pensione e quelli sulla «portabilità» dei contribuiti versati dal datore di lavoro, oltre all'armonizzazione degli aspetti fiscali in particolare sulle detrazioni.
La Cgil è d'accordo sulla reversibilità, ma contraria alla portabilità: «Apprezziamo che il ministro Sacconi abbia ribadito che il sistema si basa sulla scelta individuale mettendo uno stop ad ogni ipotesi di obbligatorietà - spiega la segretaria Morena Piccinini - Riconfermiamo la contrarietà a un allargamento della portabilità del contributo del datore di lavoro oltre gli spazi definiti dalla contrattazione collettiva».

domenica 22 giugno 2008

Il Tar blocca la nuova base Usa Sospeso l’inizio del cantiere

IL CASO DAL MOLIN.
Il Tar blocca la nuova base Usa Sospeso l’inizio del cantiere
Gian Marco Mancassola
Sabato 21 Giugno 2008 IL GIORNALE DI VICENZA

Clamorosa ordinanza del tribunale amministrativo, che accoglie la richiesta contenuta nel ricorso presentato dal Codacons e da alcuni vicentini

Contestato il nulla osta verbale di Prodi I giudici: «Rischio di danneggiamento delle falde. Forte impatto sull’ambiente»

Il Tar blocca la Ederle 2. Il colpo di scena si è materializzato ieri mattina, quando si sono diffuse le prime notizie sull’ordinanza decretata dalla prima sezione del tribunale amministrativo del Veneto presieduta da Bruno Amoroso. «Appare opportuno - si legge nel documento - sospendere l’efficacia dei provvedimenti impugnati, inibendo nei confronti di chicchessia l’inizio di ogni attività diretta a realizzare l’intervento e ciò sotto l’intervento e il controllo degli organi del Comune di Vicenza competenti in materia di edilizia e urbanistica». Viene così accolto il ricorso presentato nel settembre 2007 dal Codacons, dall’Ecoistituto Veneto e da alcuni vicentini, fra cui Giancarlo Albera, portavoce del Coordinamento dei comitati che si battono contro il Dal Molin a stelle e strisce. «È una sentenza coraggiosa. È Davide contro Golia», sintetizza soddisfatto il sindaco Achille Variati, che guadagna così tempo per imbastire il referendum di ottobre. «Faremo ricorso al Consiglio di Stato», è il lapidario annuncio del ministro della Difesa Ignazio La Russa.
IL NULLA OSTA. I primi rilievi dei giudici veneziani puntano l’indice contro la scarsa documentazione offerta dal ministero della Difesa. In particolare, finiscono nel mirino l’autorizzazione firmata dal direttore generale del ministero Ivan Felice Resce il 17 luglio 2007 e il nulla osta concesso dal premier Romano Prodi il 16 gennaio 2007.
«Tale atto di consenso - scrive il Tar - che risulta espresso soltanto oralmente, appare estraneo ad ogni regola inerente alla attività amministrativa e assolutamente extra ordinem, tale da non essere assolutamente compatibile con l’importanza della materia trattata e con i principi tradizionali del diritto amministrativo e delle norme sul procedimento, in base ai quali ogni determinazione deve essere emanata con atto formale e comunque per iscritto».
E dal momento che l’unico atto cartaceo è firmato da un dirigente, questa è la considerazione del Tar: «L’assenso del Governo italiano risulta essere stato formulato, del tutto impropriamente, da un dirigente del ministero della Difesa, al di fuori di qualsiasi possibile imputazione di competenze e di responsabilità ad esso ascrivibili in relazione all’altissimo rilievo della materia».
IL BANDO DI GARA. Il provvedimento ravvisa «numerosi altri profili di illegittimità del procedimento svolto, alla luce della normativa nazionale e altresì europea». Viene quindi rilevato che «è stata contestualmente autorizzata la pubblicazione del bando di gara, peraltro attualmente già esperito, senza che consti il rispetto delle normative europee ed italiane in materia di procedure ad evidenza pubblica per la assegnazione di commesse pubbliche e comunque senza alcuna giustificazione circa la praticabilità di legittime deroghe in ricorrenza dei necessari presupposti».
INCIDENZA AMBIENTALE. L’ordinanza sottolinea anche l’ambiguità della Vinca, la valutazione di incidenza ambientale, richiesta dal momento che l’aeroporto è inserito nel “Bosco di Dueville”, un sito di rilevanza comunitaria. Ebbene, non è chiaro se il parere sia stato formulato relativamente al lato est, dove inizialmente avrebbe dovuto essere costruita la caserma, o al lato ovest, dove è stato trasferito il progetto su indicazione del commissario straordinario Paolo Costa. «Sussistono gravi dubbi - si legge nel provvedimento - circa la conferenza e la riferibilità della Vinca rilasciata dalla Regione. Il pregiudizio lamentato appare configurabile anche in ordine all’impatto del consistente insediamento (e della connessa antropizzazione) sulla situazione ambientale, del traffico, dell’incremento dell’inquinamento e in ordine al rischio di danneggiamento ed alterazione delle falde acquifere. Infine, manca ogni riscontro di avvenuta consultazione della popolazione interessata secondo il disposto del “ memorandum “ depositato».
I RICORRENTI. Grande soddisfazione viene manifestata dai ricorrenti. «Abbiamo avuto ragione nel perseguire la strada della battaglia legale - commenta Albera - per chiedere giustizia, trasparenza, per ottenere la consegna di documenti che ci sono stati negati per tutti questi anni». Ad Albera fa eco Carlo Rienzi, presidente del Codacons: «È una vittoria di tutti i cittadini». FERMI TUTTI PER ORA
Il Tribunale amministrativo di Venezia ha stabilito che «appare opportuno - allo stato - sospendere l’efficacia dei provvedimenti impugnati, inibendo nei confronti di chicchessia l’inizio di ogni attività diretta a realizzare l’intervento (cioè la base Usa nell’area Dal Molin), e ciò sotto l’intervento e il controllo degli organi del Comune di Vicenza competenti in materia di edilizia e urbanistica».
Il Tar quindi per questi motivi «accoglie la suindicata domanda di sospensione

giovedì 19 giugno 2008

I no Tav ripartono da Venaus In 1.461 comprano i terreni

I no Tav ripartono da Venaus In 1.461 comprano i terreni

di Cristina Marrone

Corriere della Sera del 16/06/2008

Si ricomincia da qui. Dagli stessi terreni di Venaus, dove la notte dell' 8 gennaio del 2005, la tensione accumulata nei giorni di lotte e proteste sfociò in scontri violenti tra forze dell' ordine e No-Tav. Riparte tutto da quel fazzoletto di terra in cui dovrebbe nascere il cantiere per il contestatissimo tunnel della Torino-Lione. In 1.461 hanno prenotato il loro «posto in prima fila». Ieri toccava la firma. Hanno sfidato pioggia e freddo per firmare davanti al notaio Roberto Martino il gigantesco atto, (sembra un lenzuolo) con tutti i nomi degli acquirenti. Quindici euro a testa per accaparrarsi più o meno un metro quadrato ciascuno dei 2.349 messi in vendita a prezzo simbolico dai quattro proprietari, pure loro del popolo No Tav. Quello di ieri non è che il secondo round. Il 30 marzo scorso era toccato al vigneto di Chiomonte, lottizzato in 1.397 appezzamenti. «Il 30% di chi aveva comprato a Chiomonte lo ha fatto anche qui» spiegano gli assistenti del notaio. Anche Vittorio Agnoletto ha acquistato per procura, come tanti di Bologna, di Taranto, di Lecce e del Mugello. Addirittura dalla vicina Francia «tanto per precisare che dall' altra parte non è vero che son tutti d' accordo» chiarisce Claudio Giorno, che documenta ogni dettaglio con la sua macchina fotografica. L' obiettivo di tutta la manovra? La ditta che dovrà installare il cantiere sarà costretta a inviare migliaia di avvisi per comunicare gli espropri. «Sappiamo bene che questo nostro sforzo non servirà a bloccare la Torino-Lione - spiega Alberto Perino, leader storico dei comitati che non vogliono la Tav e ideatore della nuova strategia - ma almeno complichiamo la vita all' avversario. Siamo qui in più di mille, alla faccia di chi dice che ormai siamo solo quattro gatti». «Il posto in prima fila» è anche l' occasione per mangiare torte, panini e scaldarsi con il vin brulé. Non fosse stato per la pioggia, l' assembramento di gente poteva sembrare una festa di paese. Ma con l' acqua, appunto, restano solo i duri, e ieri erano in tanti. Tra gli irriducibili anche Loredana Bellone, di San Didiero, uno dei quattro comuni (con Bussoleno, Chiusa San Michele e Condove) che non riconoscono più l' Osservatorio tecnico guidato dal commissario di governo Mario Virano. «Ogni pietra di questa valle è nostra - avverte la Bellone - siamo qui per difenderla, la resistenza è nel nostro Dna». Prossimo appuntamento sulla Tav, stavolta istituzionale, martedì alla Comunità montana di Bussoleno. I sindaci presenteranno un progetto alternativo della linea ferroviaria. Top secret il contenuto. «Un' iniziativa allucinante - concordano i barricadieri - perché quel progetto non è mai stato discusso in alcun consiglio comunale».

Sigonella, la Nato raddoppia

Sigonella, la Nato raddoppia

di Manlio Dinucci

Il Manifesto del 18/06/2008

Ecco cosa si nasconde dietro l'offerta del ministro La Russa agli Usa Vi sarà installato il sistema Ags di sorveglianza. Obiettivo Medioriente

Il ministro della difesa Ignazio La Russa ha chiesto al segretario alla difesa Robert Gates il sostegno statunitense alla candidatura di Sigonella come base del nuovo sistema Nato di sorveglianza Ags (Alliance Ground Surveillance), che dovrebbe divenire operativo tra non molto. «La candidatura dell'Italia rappresenta un fatto molto grave», ha denunciato Silvana Pisa, membro della commissione Difesa del senato durante il governo Prodi, dimenticando che la base di Sigonella era stata messa a disposizione dallo stesso governo. L'accordo per la creazione di questo sistema è stato sottoscritto dal governo Berlusconi nel novembre 2002, insieme a Usa, Francia, Germania, Olanda e Spagna. E' stato quindi costituito un «consorzio transatlantico» di industrie militari, comprendente la Northrop Grumman, General Dynamics, Eads, Thales e Galileo Avionica, che nel 2005 ha ricevuto un primo contratto per l'ammontare di 23 milioni di euro. Solo un piccolo acconto: la Nato stessa lo definisce «uno dei più costosi programmi di acquisizione intrapresi dall'Alleanza», che comporta una spesa di almeno 4 miliardi di euro. Ulteriori impegni sono stati assunti per conto dell'Italia dal governo Prodi, durante la riunione dei direttori degli armamenti dei paesi Nato nell'ottobre 2006.
Che cos'è l'Ags? Secondo le agenzie di stampa sarebbe «un sistema integrato per la sorveglianza del territorio dei 26 stati membri della Nato». Un banale ma fuorviante errore di traduzione. Il sistema servirà a sorvegliare non il territorio dei paesi Nato ma, come spiega un comunicato ufficiale, il «terreno», fornendo ai «pianificatori militari» importanti informazioni «prima e durante le operazioni Nato» in altri paesi. Si tratta dunque di un sistema finalizzato non alla difesa del territorio dell'Alleanza, ma al potenziamento della sua capacità offensiva «fuori area». Esso sarà «uno strumento chiave per rendere più incisiva la Forza di risposta della Nato (Nrf)». La Nrf, costituita nell'ottobre 2003 (durante il governo Berlusconi) e divenuta operativa nel giugno 2006 (durante il governo Prodi), è in grado di essere proiettata entro cinque giorni «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo». L'Italia vi partecipa con il Comando di Solbiate Olona (Varese), «sempre disponibile per interventi multinazionali in aree di crisi», e con varie unità terrestri, navali e aeree. Il sistema Ags permetterà alla Forza di risposta della Nato di avere un quadro dettagliato della dislocazione delle truppe nemiche, così da poterle colpire, e anche di «individuare e prendere di mira veicoli in movimento». Ciò sarà reso possibile da vari tipi di piattaforme aeree e stazioni di controllo terrestri. Le prime consisteranno in aerei-radar (Airbus A 321 modificati) e aerei senza pilota Block 40 Global Hawk della statunitense Northrop Grumman: questi, guidati a distanza, sono in grado di volare per 35 ore a oltre 18mila metri di quota, trasmettendo al comando i dati rilevati dai sensori. Le stazioni terrestri saranno sia fisse che mobili, ossia in grado di essere trasferite in lontani teatri bellici.
Nel chiedere a Gates che il sistema Ags sia installato a Sigonella, il ministro La Russa ha detto che tale base è la più idonea sia «come efficienza, sia da ogni altro punto di vista». Non c'è dubbio: lo conferma il fatto che il Pentagono, finita la guerra fredda, l'ha ulteriormente potenziata. Come sottolinea il comando, l'importanza di tale base, «strategicamente collocata nel mezzo del Mediterraneo», è aumentata di pari passo con «i cambiamenti politici nelle regioni mediterranea e mediorientale». In tale quadro, nel 2005 è stato stabilito a Sigonella il Fleet and Industrial Supply Center (Fisc), il centro logistico delle forze navali del Comando europeo degli Stati uniti, la cui missione è «promuovere gli interessi statunitensi in Europa, Africa e Medio Oriente». Sempre qui è stato installato il sistema di trasmissione Gbs, uno dei più importanti delle forze armate statunitensi, cui si aggiungerà il Muos, il nuovo sistema globale di comunicazioni della marina Usa. E nel 2007 l'aeronautica Usa ha annunciato che intende dislocare a Sigonella almeno 5 Global Hawks. A questi si affiancheranno i «falchi globali» del sistema Ags, che permetteranno alla Nato di proiettare le proprie forze «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».

Tav, spunta un nuovo tracciato

PIEMONTE - Tav, spunta un nuovo tracciato
SARA STRIPPOLI
19 giugno 2008, LA REPUBBLICA Torino

A Susa l´uscita del tunnel e una superstazione internazionale

"Nello studio di Ltf per la prima volta si dà pari dignità a temi ambientali e aspetti ferroviari"

Il futuro dell´alta velocità potrebbe veder nascere una grande stazione internazionale viaggiatori a Susa, accessibile da tutta la valle. A Susa ci sarebbe anche l´uscita del tunnel di base (passando sotto il fiume Cenischia) che nella ipotesi originaria doveva essere a Venaus e nel dossier presentato a luglio a Bruxelles dal governo Prodi era indicata a Chiomonte. Le novità sono inserite in uno studio condotto da Ltf e coordinato da Gerard Cartier (project manager che ha lavorato anche al tunnel sotto la Manica), presentato ieri durante la riunione dell´Osservatorio tecnico. Uno studio realizzato su richiesta dei sindaci della Bassa valle e su mandato della Cig, la commissione intergovernativa italo-francese. Con un obiettivo primario molto apprezzato anche dagli amministratori della valle, quasi tutti presenti all´incontro di ieri: «Sviluppare considerazioni non solo dal punto infrastrutturale, ma di eseguire anche una riflessione più ampia che valorizzi le potenzialità del territorio». Un approccio diverso e innovativo di ispirazione francese: «Per la prima volta - ha spiegato il presidente dell´Osservatorio Mario Virano - gli aspetti ambientali e paesaggistici sono stati messi sullo stesso livello delle tecniche ferroviarie».
«I tecnici italiani che sinora hanno lavorato dovrebbero impallidire», è il commento del presidente della comunità montana Antonio Ferrentino. Il quale però ribadisce che l´idea degli amministratori della Val di Susa resta quella che si debba partire dal nodo di Torino e non dal tunnel: «Anche se non si può non plaudire alla suggestione che ha tenuto conto di ogni minimo dettaglio per garantire il rispetto e la valorizzazione del territorio». È il caso dell´indicazione sull´opportunità di recupero di strutture esistenti come l´ex caserma Cascino di Susa o la vecchia polveriera, ritenuta «un sito molto pregiato dal punto di vista ambientale», per la quale si intravede un futuro come parco.
Oltre allo spostamento del tunnel di base (lungo 12,1 chilometri nella parte italiana e 57,1 in totale), il nuovo studio prevede anche la riduzione del tunnel dell´Orsiera, che da 22 chilometri passerebbe a 11,4. La zona a cielo aperto nella tratta internazionale, da Sant´Antonino al confine, in quest´ipotesi si riduce a 3,4 chilometri.
E mentre ieri il ministro delle infrastrutture e dei trasporti Altero Matteoli ha risposto al question time alla Camera ribadendo che la Torino-Lione «è una delle opere principali del Paese» e ha confermato che i lavori dell´Osservatorio non saranno prorogati di sei mesi ma scadranno secondo programma il 30 giugno, il presidente Virano ha annunciato che la prossima tappa - incontro numero 70 - è fissata per il 25 giugno.
Quel giorno Rfi dovrebbe presentare il progetto da Vaie a Settimo («Sempre che rispettino i patti», dice Virano). Dal 27 al 29 giugno ci sarà una tre giorni di full immersion per la presentazione delle conclusioni a Palazzo Chigi. Un «conclave», come ama definirlo Virano, o anche un «ritiro», se si preferisce la metafora calcistica, che si svolgerà nel silenzio di Pracatinat. Una tre giorni al termine della quale si dovrebbero tirare le somme definendo il progetto «ideale» fra le tante ipotesi di tracciato di cui si è parlato finora: «Non è detto che una sia incompatibile con l´altra», chiarisce Virano.

lunedì 16 giugno 2008

Come ti distruggo l'economia reale con la bolla petrolifera

Come ti distruggo l'economia reale con la bolla petrolifera

di Sabina Morandi

Liberazione del 14/06/2008

Quei rivoluzionari de Il Sole 24 ore l'hanno scritto all'inizio di giugno: attenzione alla «trappola del greggio virtuale». Cosa sia il "greggio virtuale" è presto detto: ogni giorno nel mondo vengono estratti 85 milioni di barili ma ne vengono scambiati circa un miliardo. Sono appunto i barili virtuali che passano di mano sulla piazza della New York Mercantile Exchange, meglio nota come Nymex, o della britannica Intercontinental Exchange (Ice). Peccato che il prezzo determinato da questo scambio frenetico sia invece più che reale e influisca pesantemente sul costo di ogni merce visto che ogni merce viene prodotta, e trasportata, con il petrolio reale. Dimenticate quindi tutte le leggi della domanda e dell'offerta, che richiedono comunque del tempo per far sentire i loro effetti. Al Nymex si viaggia alla velocità dei byte, e non ci si sofferma certo a registrare i cali della produzione causati dall'invecchiamento dei giacimenti né l'aumento della domanda dovuto alla grande sete di India e Cina.
Come scrive Roberto Capezzuoli sul Sole «il vistoso scollamento tra le borse e il mercato fisico testimonia che l'attuale modello di contrattazioni è da cambiare». Non colpa del picco, quindi, anche se era prevedibile che i primi segnali di declino produttivo avrebbero acceso la miccia della speculazione, ma nemmeno la crescita economica di alcuni paesi, ma «Le grandi borse merci, punti di riferimento per tutti gli scambi, hanno le loro colpe e abusano della permissiva condotta di chi ne detta le norme». Oltretutto negli ultimi anni, più che dettarle, i governi non hanno fatto che cancellarle. Negli Stati Uniti è stato il Commodity futures modernization act del 2000, a spalancare la porta ai capitali diretti verso le materie prime, limitando i poteri della Commodity futures trading commission (Cftc) che dal 1974 ha il compito di vigilare sugli scambi. In Gran Bretagna la Financial services authority ha allentato ancora di più le redini facendo dell'Ice di Londra un mercato in cui le regole sono l'eccezione, come ha lasciato intendere il senatore americano Carl Levin parlando delle inchieste sulle manipolazioni dei prezzi che Senato e Cftc stanno portando avanti da dicembre.
Il problema è che, chi si occupa di petrolio, ci capisce assai poco di borsa. Potrà stupire noi profani (anzi, per la verità ci terrorizza) ma i petrolieri sono impreparati perché c'è una grande differenza fra il petrolio vero e quello virtuale, e sono molto diversi i meccanismi che regolano i due mercati. I capisaldi del mercato petrolifero reale sono la standardizzazione, la cassa di compensazione (clearing house) e soprattutto la liquidità. In sostanza, perché un mercato funzioni un po' di speculazione è necessaria, ma può assumere direzioni opposte rispetto a quelle di chi usa i futures per proteggersi dagli imprevisti movimenti dei prezzi, che poi sarebbe la loro finalità originaria. Il denaro serve per la compravendita e il versamento dei margini di garanzia, generalmente meno onerosi nel caso di chi fa hedging, cioè chi protegge la propria attività, e più costosi per chi opera da speculatore. E poi serve la merce da consegnare a chi decida di esercitare il diritto normalmente riservato al possessore di un future di acquisto.
Oggi invece il petrolio non si consegna. All'Ice di Londra, per esempio, chi ha un contratto di vendita sul Brent (il greggio di riferimento nord-europeo) potrebbe anche decidere di portarlo a scadenza e consegnare la merce. Quindi ci sono decine di petroliere cariche che girano per gli oceani (consumando combustibile ricavato dal petrolio vero) in cerca di una destinazione. Quale migliore dimostrazione dello scollamento tra mercato borsistico e mercato reale? Il problema è che anche i depositi verso cui dirigersi sono virtuali - ma almeno per il Brent europeo l'Ice prevede l'opzione della compensazione monetaria mentre per i future che si scambiano sul Wti (il greggio americano), la consegna fisica non è nemmeno contemplata. Sugli scambi over-the-counter, fuori listino e privi regole, praticamente si è perso ogni controllo.
Anche sulla piazza di New York le norme sono molto blande. Chi volesse consegnare il greggio Wti potrebbe farlo, ma solo a Cushing, in Oklahoma, dove la capienza è di una ventina di milioni di barili, 50 volte meno degli scambi giornalieri che si verificano al Nymex. Oltretutto i margini speculativi (più alti) non vengono mai versati. Chi non ha un'attività che giustifichi un determinato volume di operazioni di copertura, può comunque operare tramite uno dei grandi soci della Borsa stessa, evitando il maggior onere finanziario e non rischiando niente. Una roulette truccata praticamente irresistibile per le (solite) grandi banche d'affari che stanno accumulando profitti da capogiro. Il deputato democratico Bart Stupak ha puntato il dito contro Goldman Sachs e Morgan Stanley, accusandole di manipolare artificiosamente le quotazioni. Niente di più facile, e tutto alla luce del sole. Appena l'analista della Goldman Sachs, Arjun Murti, ha parlato di 200 dollari al barile entro due anni, i prezzi sono schizzati alle stelle. Motivo? La profezia si avvera da sola se, a sorreggerla, c'è una tale potenza finanziaria: puntare su un'altra carta sarebbe semplicemente suicida.
Del resto, uno che ci capisce, in una recente audizione ha fornito la sua candida spiegazione al Senato americano: «Ci sono tutti i segnali di una bolla, ma non scoppierà tanto presto. Quanto ai margini speculativi, alzarli potrebbe scoraggiare qualcuno, ma sarebbe inutile». Si chiamava George Soros.

mercoledì 11 giugno 2008

Quattro milioni di vittime adesso chiedono giustizia

Quattro milioni di vittime adesso chiedono giustizia

di Livio Senigalliesi

Il Manifesto del 10/06/2008

Cento milioni di litri di una miscela altamente tossica a base di diossina, prodotta anche da Monsanto e Dow Chemical, furono usati dagli Stati uniti per defoliare le foreste del «Sentiero di Ho Chi Minh» e colpire così i Vietcong con bombe al napalm sganciate dai B-52

Nguyen Van Lahn giace da 22 anni su una stuoia in una stanza buia come una caverna e dalla sua bocca sempre spalancata escono urla. Gli hanno legato le mani con uno straccio per evitare che si graffi e la madre Le Thi Mit lo accarezza cercando in ogni modo di calmarlo. Siamo nel folto della giungla, nel villaggio di Cam Nghia, Provincia di Quang Tri, appena a sud della Zona Demilitarizzata che durante la guerra divideva il Vietnam del Nord da quello del Sud. Ci si arriva percorrendo una strada di terra rossa che si arrampica tra le colline coperte da una vegetazione lussureggiante. Il sole e la natura circostante rendono la passeggiata gradevole ma giunti alla meta, la situazione diventa di colpo angosciante. Nguyen Van Lahn ha un fratello più piccolo, Van Truong di 16 anni, che striscia verso la soglia della baracca e guarda atterrito gli estranei che hanno invaso la sua solitudine domestica. Porta sempre una mano sugli occhi, come se non volesse vedere e continua a rivoltarsi su stesso senza trovare pace.
La guerra del Vietnam si è conclusa nel 1975 ma i fratelli Nguyen, nati dopo la fine del conflitto, ne sono ancora vittime. La malattia mentale da cui sono afflitti e le deformità fisiche sono conseguenza dell'Agente Arancio, l'erbicida dall'alto contenuto di diossina che gli aerei Usa hanno fatto piovere tra il 1961 e il 1971 sul delta del Mekong e nella zona degli Altopiani Centrali ai confini col Laos.

DAGLI AEREI UNA NUVOLA GIALLASTRA
Cento milioni di litri di una miscela altamente tossica furono usati per defoliare le foreste lungo il «Sentiero di Ho Chi Minh», rifugio dei Vietcong. Lo scopo dell'operazione «Ranch Hand» era distruggere la foresta, individuare il nemico e colpirlo con bombe al napalm e ad alto potenziale sganciate dai B-52.
Le Thi Mit, madre dei fratelli Nguyen, ha 58 anni ed un volto distrutto dalle sofferenze di una vita fatta di dolore e povertà. Ricorda i tempi della guerra: «Gli aerei passavano più volte spargendo una nuvola giallastra dall'odore acre. Ci sentivamo soffocare. Gli occhi lacrimavano. Dopo alcuni giorni le foglie degli alberi iniziavano a cadere. Nessuno ci aveva avvisato della pericolosità della sostanza e per anni abbiamo continuato a bere l'acqua dei pozzi e a mangiare i prodotti della terra. Si trattava di sopravvivere». Alla fine della guerra i coniugi Nguyen ebbero un figlio, Van Phu. Morì all'età di quattro anni a causa delle malformazioni. Poi arrivarono i suoi fratelli, anche loro malati. Stessi sintomi. La loro mente è distrutta. Non parlano, non sentono. Non possono stare nè seduti nè in piedi. Non chiedono mai nulla, nemmeno da mangiare. Dice Le Thi Mit: «Viviamo di un piccolo sussidio mensile del governo. Mio marito Van Loc lavora nei campi e così riusciamo a mangiare. I ragazzi li imbocco, uno dopo l'altro. Così da più di vent'anni. Ma questa non è vita. Vi ringrazio di essere venuti. E' necessario che tutto il mondo sappia».
Il dramma dei fratelli Nguyen non è un caso isolato. I numeri sono impressionanti. Secondo le stime diffuse dalla Croce Rossa Vietnamita sono 4 milioni le persone che dal termine del conflitto subiscono gli effetti dell'Agent Orange. Cinquecentomila sono i casi più gravi curati in centri specializzati come il Tu Du Hospital di Ho Chi Minh City,una struttura moderna costruita agli inizi anni '90. Attualmente accoglie 60 bambini vittime dell'Agente Arancio provenienti da varie provincie.

ABBANDONATI ALLA NASCITA
Il 90% dei bambini affetti vengono abbandonati alla nascita dalle famiglie e passano tutta la vita nell'ospedale. Per i casi più gravi non c'è speranza di miglioramento e sono condannati ad una lunga degenza. Per gli altri si tenta un recupero che permetta loro di vivere una vita quasi normale e di svolgere un lavoro. Miss Truong Thi Ten, una delle infermiere specializzate di maggior esperienza, ci guida alla visita del reparto iniziando da una sorta di 'dark room' dove vengono conservati in flaconi di formalina i feti nati morti o deceduti subito dopo la nascita a causa delle gravi malformazioni.
Abbiamo davanti agli occhi una strage silenziosa che continua dagli anni Settanta e che miete ogni anno migliaia di vittime innocenti che non hanno nulla a che fare con la guerra combattuta dai loro padri o dai nonni più di 30 anni fa. Girando tra le corsie s'incontrano bambini di ogni età. Vengono dalle aree del delta del Mekong, dalla Provincia di Kontum e dalle zone ai confini col Laos e la Cambogia.
Recenti prelievi effettuati sulla popolazione delle zone affette, sulle vittime, gli animali e la falda acquifera confermano che la concentrazione della diossina continua ad essere altissima. A causa del disastro ecologico, la contaminazione continua anche ai nostri giorni attraverso il ciclo alimentare. La diossina, assunta attraverso il cibo o il latte materno, entra in circolo, raggiunge gli organi bersaglio e provoca tumori o mutazioni del Dna, una catena di infinite sofferenze dal devastante impatto sociale.
Nguyen Duc e Viet giunsero al Tu Du Hospital appena nati, 24 anni fa. I due gemelli provenivano dal distretto di Sa Thay, provincia di Kontum, uno dei luoghi più contaminati dal micidiale erbicida. Uniti all'altezza della pelvi, un bacino, due gambe, un pene, all'età di 8 anni vennero operati e divisi. Duc ebbe un destino più favorevole. Grazie alle cure superò gli handicap fisici, riuscì a studiare e ad inserirsi nello staff dell'ospedale. Il fratello Viet tutt'ora vegeta letteralmente nel letto, curato dalle infermiere e dalla madre Lam Thi di 52 anni. Nell'aula adibita allo studio incontro una giovane che scrive col piede: Pham Thi Thuy Linh, ha 12 anni ed è nata senza braccia. Scrive e lavora al computer usando i piedi. Ha una scrittura molto ordinata, bellissima. Se si troveranno i soldi per le protesi il suo futuro sarà diverso.
La catastrofe ambientale e sociale è ancora evidente in alcune aree rurali altamente inquinate dalla diossina come la Valle di A-Luoi, ad ovest di Huè, nei pressi della frontiera col Laos.
Qui la vita degli abitanti - gruppi minoritari di etnia Pa Co - è molto difficile.
Un grande cartello all'entrata del villaggio di Dong Son ricorda il pericolo di contaminazione: vietato coltivare e bere l'acqua dei pozzi. «E' proibito portare anche gli animali al pascolo. Viviamo del solo contributo dello Stato» dice Quynh Bay, un ex-combattente. «Questa è una zona maledetta, non c'è futuro. Dai tempi della guerra la terra è malata e ogni famiglia ha almeno un bambino disabile». Sua figlia, la piccola Ho Thi Nga, di 7 anni, non parla, non sente, si regge a mala pena sulle gambe.
A Bien Hoa, centinaia di chilometri più a sud, stessa sofferenza. Da qui partivano gli aerei Usa impegnati nell'operazione «Ranch Hand». Tutta l'area è tuttora pesantemente contaminata. Così pure il vicino Lago di Dong Nai dove gli aerei scaricavano i residui di erbicidi rimasti nei serbatoi a fine missione. Ed i risultati si possono constatare visitando il locale «Centro per i bambini vittime della diossina». Su una popolazione di 500.000 abitanti ci sono 1.000 vittime di gravi malformazioni e lesioni cerebrali irreversibili. Il costo umano, sociale ed economico è altissimo. Per le famiglie, dove i figli sono visti come forza-lavoro, dover mantenere tre o quattro bimbi gravemente malati e non autosufficienti è insostenibile. A questo segue il dramma dell'abbandono delle stesse vittime e l'emarginazione sociale.
Il Vietnam è un Paese in forte espansione economica. Guarda al futuro ma deve fare i conti con questa pesante eredità.

QUERELATE 36 IMPRESE USA
La questione di fondo resta quella delle responsabilità. Una svolta si è avuta con la creazione ad Hanoi, il 10 gennaio 2004, dell'Associazione vietnamita delle vittime dell'agente arancio/diossina. Non appena creata, l'associazione delle vittime ha presentato alla corte di giustizia del distretto di New York una querela contro le 36 imprese che hanno fabbricato l'agente arancio per l'esercito americano. Ci sono voluti 40 anni. Perché si è atteso così tanto?
Tra le società, le più note sono Monsanto e Dow Chemical. Le motivazioni giuridiche sono molte: violazioni delle leggi internazionali, crimini di guerra, fabbricazione di prodotti pericolosi, danni sia involontari che intenzionali, arricchimento abusivo, ecc. I querelanti richiedono danni e interessi per le lesioni personali subite, i morti, le nascite di bambini malformati ed anche per la necessaria decontaminazione dell'ambiente. Per ora, il ricorso, esaminato solo dal punto di vista dell'ammissibilità, è stato rigettato dal tribunale. I querelanti hanno subito presentato ricorso in appello: il loro obiettivo è non solo ottenere riparazione per le sofferenze subite, ma anche vedere la comunità internazionale, e in particolare gli Stati Uniti, riparare ad una scandalosa dimenticanza della storia «ufficiale». Perché al di là delle vittime e delle industrie chimiche, la questione delle conseguenze dell'«agente arancio» concerne prima di tutto e soprattutto due stati, gli Stati uniti e il Vietnam, avendo il primo commesso un crimine di guerra, il secondo essendo stato colpito nella sua popolazione e nella sua terra. Si pone dunque il problema della validità del diritto umanitario e della pressante necessità di riparare i danni di guerra. Questione di grande attualità visti i conflitti distruttivi e sanguinosi in corso in Iraq e Afghanistan in cui gli Usa hanno fatto largo uso di armi non convenzionali.
La signora Nguyen Thi Hong di 47 anni è tra le vittime dell'agente arancio che si appella alla Corte Usa decisa a chiedere ricorso. E' una veterana di guerra, ha combattuto nella giungla nella provincia di Quang Tri, è stata ferita ed ha perso una mano. Ricorda di aver respirato più volte l'aria avvelenata dalla nube arancione ma dice con orgoglio: «Abbiamo sofferto e vinto. Ma il peggio è venuto dopo. Ho avuto 4 figli tutti affetti dalla diossina. Il veleno sta ancora nel nostro sangue. Sono stata operata più volte di cancro e la mia pelle è piena di ulcere. Ogni cura è inutile. Quando finirà questo inferno?».
Ancora oggi, pochissimi fra i turisti del Museo dei Crimini di guerra di Saigon sanno che quei due feti deformi sotto formalina, nella teca circondata dalle foto in bianco e nero di Larry Burrows, non fanno parte di un passato da archiviare con i suoi orrori, ma del presente.

sabato 7 giugno 2008

«Agrocarburanti, un disastro su cui Usa e Ue speculano»

«Agrocarburanti, un disastro su cui Usa e Ue speculano»

di Stefano Liberti

Il Manifesto del 05/06/2008

Secondo l'ex relatore Onu per il cibo Jean Ziegler, il «biofuel» è un crimine contro l'umanità. Il suo successore De Schutter è anche più cattivo

Nominato nel marzo scorso relatore speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione, il belga Olivier de Schutter si è trovato immediatamente alle prese con una crisi di dimensioni planetarie. Succeduto allo svizzero Jean Ziegler, che aveva definito la produzione di agro-combustibili «un crimine contro l'umanità» e aveva richiesto una moratoria di cinque anni sulla produzione di etanolo e bio-diesel, questo giovane professore universitario non appare meno tenero nei confronti del cosiddetto «oro verde».
Qual è l'impatto reale degli agro-carburanti sulla crisi alimentare?
Esistono diversi tipi di agro-carburanti. Al di là della distinzione classica tra i cosiddetti agro-carburanti di prima e seconda generazione, bisogna anche evidenziare le differenze tra i vari agro-carburanti di prima generazione: c'è l'etanolo tratto dalla canna da zucchero in Brasile, quello tratto dal mais negli Stati uniti, l'olio estratto dalla colza in Europa e il bio-diesel tratto dall'olio da palma prodotto prevalentemente nel sud-est asiatico. Questi agro-carburanti hanno un diverso impatto ambientale e presentano un diverso grado di competizione con la produzione alimentare. L'etanolo brasiliano, per esempio, ha un miglior rapporto energetico degli altri ed è decisamente meno nocivo per l'ambiente. Detto questo, la cosa che trovo più preoccupante è il fatto che gli Usa e la Ue abbiano annunciato obiettivi precisi per l'aumento dell'utilizzo degli agro-carburanti nei prossimi anni, soprattutto nel settore dei trasporti. Questi annunci hanno conseguenze disastrose: alimentano la speculazione finanziaria. Mandano agli investitori il segnale chiaro che i prezzi delle terre e delle materie prime agricole continueranno a salire. Io faccio un appello urgente sia alla ue che agli Usa affinché rinuncino a questi obiettivi-soglia.
Oltre agli obiettivi-soglia esiste anche il problema delle sovvenzioni pubbliche che gli Stati uniti assicurano ai produttori di etanolo...
Sono varie le motivazioni che avanzano gli Stati uniti per sviluppare l'etanolo tratto dal mais. La prima, di ragione ambientale, è puramente pretestuosa, perché il bilancio ambientale della produzione di etanolo dal mais è negativo, ossia la produzione di questo tipo di etanolo consuma più energia di quanta ne generi. C'è poi una ragione di carattere geo-politico, perché Washington non vuole dipendere dagli idrocarburi fossili provenienti dal Medioriente. Infine, cosa non meno importante, c'è l'esigenza di ricompensare una lobby agricola - quella del Midwest - che è molto forte. Ogni anno negli Stati uniti 11 milioni di dollari di sovvenzioni pubbliche sono destinati alla produzione di etanolo.
Quello dell'etanolo nel Midwest americano è solo un caso esemplare. Non crede che in generale le sovvenzioni che i paesi del Nord garantiscono ai loro agricoltori siano una delle ragioni che hanno messo a rischio la sovranità alimentare nel Sud del mondo?
Le cifre sono effettivamente impressionanti: ogni anno i paesi del cosiddetto Nord del mondo destinano 320 miliardi di dollari in sovvenzioni alle loro produzioni agricole. Queste sovvenzioni hanno portato al fallimento di migliaia di agricoltori del Sud, soprattutto nell'Africa sub-sahariana, che non hanno accesso a simili aiuti pubblici. Nel corso di questa conferenza alcuni paesi in via di sviluppo, soprattutto potenze agricole emergenti come il Brasile o l'Argentina, hanno ribadito queste accuse e chiesto che il problema venga affrontato. C'è una pressione molto forte sugli Stati uniti, l'Unione europea e il Giappone perché facciano concessioni in questo senso nel corso dei negoziati commerciali di Doha nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Io credo che questo summit della Fao sia una tappa importante per una effettiva realizzazione del ciclo di sviluppo di Doha, anche se a questo proposito alcune ong hanno avanzato preoccupazioni rispetto a quella che definiscono una liberalizzazione ancora più spinta del commercio agricolo.
Non ritiene in effetti che una liberalizzazione maggiore del commercio agricolo, voluta tanto dalla Wto quanto dalla Fao, possa favorire le grandi multinazionali dell'agro-business?
Esiste questo rischio. Come esiste il rischio che una maggiore liberalizzazione del commercio agricolo possa spingere ancora di più verso monocolture destinate all'esportazione, a detrimento non solo della biodiversità ma anche dei piccoli produttori. È per questo che una delle prime iniziative che ho preso da quanto sono entrato in carica come relatore speciale è stata contattare la Wto per fare una missione presso di loro e cercare di valutare in modo imparziale e obiettivo l'impatto sul diritto dell'alimentazione del ciclo di sviluppo di Doha.

Il mondo in mano a multinazionali sempre più grandi

Il mondo in mano a multinazionali sempre più grandi

di Galapagos

Il Manifesto del 06/06/2008

Aumentano le dimensioni, cresce la globalizzazione delle attività e si allarga il «gap fra la produttività (valore aggiunto pro-capite) e il costo del lavoro che rimane su livelli minimi, in particolare in Italia, ma soprattutto nell'area russo-asiatica. Queste le principali tendenze di lungo periodo emerse dall'indagine di R&S, il Centro Studi di Mediobanca, sulle multinazionali del settore manifatturiero, energetico, telecomunicazioni e utility. Per quanto riguarda l'Italia, R&S sottolinea che sono poche, in generale piccole, con una scarsa spesa per la ricerca e la tecnologia e crescono relativamente meno rispetto a quelle europee, nordamericane e giapponesi.
Quelle veramente importanti sono solo Eni, Enel e Fiat, di cui le prime due sono a controllo statale, mentre solo Fiat fa capo ad azionisti privati. Tra le multinazionali italiane è comprese Telecom che entra a far parte dell'indagine avendo superato il 10% delle esportazioni all'estero (uno dei criteri di selezione della campionatura dell'indagine). A proposito di Enel, il Centro Studi di Piazzetta Cuccia, rileva come il gruppo energetico italiano nel nel 2007 si è collocato al terzo posto fra le utility più grandi del mondo con un attivo totale di 95,6 miliardi di euro. L'Enel ha recuperato due posizioni rispetto al 2006 in seguito all'acquisizione (conclusa nell'ottobre 2007) del 45,62% del capitale di Endesa. Al top delle atility rimane la francese Edf con un attivo totale di 176,5 miliardi.
Il contributo al fatturato aggregato europeo delle grandi imprese italiane è del 7% contro il 23% di Germania e Gran Bretagna e il 17% della Francia. La produttività (il valore aggiunto pro-capite) è la più bassa in Europa, così come lo è anche il livello del costo unitario del lavoro. Si registrano altresì bassi margini in tutti i settori manifatturieri, ad eccezione del comparto energetico che macina invece profitti notevoli. Al contrario, italiane evidenziano una sempre maggiore componente di debito bancario che supera i livelli europei.
Ai vertici delle maggiori multinazionali si collocano quelle giapponesi. La Toyota primeggia nel 2007 fra le imprese industriali più grandi al mondo, con un totale dell'attivo di 209,2 miliardi di euro, seguita dalla britannica Royal Dutch Shell (179,4) e dalla russa Gazprom (177,7). Se invece si tiene conto della capitalizzazione di Borsa, a primeggiare è la compagnia petrolifera americana Exxon-Mobil (347,7 miliardi di euro) che quest'anno, però, cederà il primo posto alla cinese Petrochina (Cnpc) che capitalizza alla Borsa di Shangai 466 miliardi.
Lo studio di R&S offre anche una analisi di quanto accaduto nell'ultimo decennio che vede presenti sul globo 342 multinazionali (17 in Italia). Tra il 1997 e il 2006, le utility hanno visto un aumento del totale dell'attività del 103%, le tlc sono cresciute mediamente del 78%, mentre le imprese industriali hanno piazzato un aumento del 59%. «Globalizzazione» è la parola d'ordine delle multinazionali: hanno continuato nel periodo la delocalizzazione produttiva e diversificato i mercati di sbocco.

venerdì 6 giugno 2008

Così si fabbrica la crisi del cibo

Così si fabbrica la crisi del cibo

Il Manifesto del 6 giugno 2008, pag. 12

di Walden Bello

Quando lo scorso anno decine di migliaia di persone in Messico manifestarono contro l’aumento del 60 per cento sul prezzo delle tortillas, molti analisti diedero la colpa ai biocarburanti. Per via delle sovvenzioni governative Usa gli agricoltori americani utilizzavano sempre di più i campi di grano per la produzione dell’etanolo anziché per gli alimenti, e questo fece lievitare il prezzo del frumento. Il fatto che il grano venisse trasformato in biocarburante anziché in tortillas fu senz’altro una delle cause che fecero schizzare i prezzi alle stelle, sebbene la speculazione sul biocarburante richiesta dai mediatori internazionali possa avere avuto un ruolo più determinante.



Uno studio realizzato dalla Fao (delle Nazioni Unite) su quattordici paesi ha rilevato che la quantità di cibo importato tra il 1995 e il 1998 era nettamente superiore al periodo 1990-1994. Il fatto non destò alcuna sorpresa finché uno dei più importanti obiettivi della Convenzione sull’agricoltura del Wto (Organizzazione mondiale del commercio) fu quello di aprire i mercati nei paesi in via di sviluppo così da poter assorbire il surplus di produzione nei paesi del nord. E quindi, come disse nel 1986 il ministro dell’agricoltura americano John Block: «L’idea che i paesi in via di sviluppo si possano sostentare autonomamente è un concetto anacronistico. Essi potrebbero assicurarsi una migliore nutrizione facendo affidamento sui prodotti agricoli americani, che nella maggior parte dei casi hanno un prezzo più basso».



Quello che Block non disse è che il prezzo contenuto dei prodotti americani era determinato dalle sovvenzioni che diventavano ogni anno più corpose nonostante il Wto avesse il compito di controllarle. Dai 367 miliardi di dollari nel 1995, l’ammontare totale delle sovvenzioni all’agricoltura erogate dai governi dei paesi sviluppati è cresciuto fino a raggiungere nel 2004 i 388 miliardi dì dollari. Sin dalla fine degli anni Novanta le sovvenzioni hanno inciso sul 40 per cento del valore della produzione agricola nell’Unione Europea e per il 25 per cento negli Stati Uniti. I fautori del libero mercato e i difensori delle esportazioni sottocosto possono apparire su posizioni opposte, ma le politiche che sostengono portano al medesimo risultato: la globalizzazione capitalistica dell’agricoltura.



TRA MONSANTO E CARREFOUR

I paesi in via di sviluppo si stanno via via integrando in un sistema dove la produzione della carne e del grano diretta all’esportazione è dominata da grosse industrie agricole come quelle gestite dalla multinazionale tailandese Cp e dove la tecnologia è continuamente aggiornata dai progressi dell’ingegneria genetica realizzati da ditte come la Monsanto. E l’eliminazione delle barriere tariffarie ed extra tariffarie sta facilitando la nascita di catene di punti vendita di prodotti agricoli a livello mondiale dove i consumatori di ceto medio-alto fanno il gioco di colossi commerciali quali Cargill e Archer Daniels Midland e di ipermercati come Teseo (Inghilterra) e Carrefour (Francia).



Nell’organizzazione di questo mercato globale c’è poco spazio per le centinaia di milioni di poveri che vivono nelle città o nelle campagne. Questi sono confinati in gigantesche favelas di periferia dove si trovano a combattere con costi alimentari spesso molto più alti rispetto a quelli dei supermercati, o vivono in risicate realtà rurali, intrappolati in attività agricole marginali e sempre di più vittime della fame. E così, all’interno di una stessa nazione, la carestia dei ceti emarginati coesiste spesso con la prosperità di quelli integrati nella globalizzazione.



Questo non è semplicemente lo sgretolamento dell’autosufficienza e della sicurezza nel processo dell’alimentazione ma è ciò che l’africanista Deborah Bryceson di Oxford chiama «de-ruralizzazione» - l’eliminazione di una modalità produttiva che fa della realtà rurale un terreno congeniale all’accumulazione intensiva di capitali.



Questa trasformazione rappresenta un trauma per centinaia di milioni di persone, poiché la produzione agricola non è un’attività meramente economica, è uno stile di vita atavico, una cultura spodestata o emarginata, che in India ha spinto i contadini al suicidio. Nello stato dell’Andhra Pradesh, i contadini che si sono suicidati sono aumentati da 233 nel 1998 a 2.600 nel 2002; nel Maharashtra, i suicidi si sono triplicati, (la 1.083 nel 1995 a 3.926 nel 2005. Possiamo dire che 150.000 contadini indiani si sono tolti la vita.



Il crollo dei prezzi dovuto al libero mercato e alla perdita del controllo sul grano a favore delle grosse aziende biotecnologiche è parte di un problema complesso. L’attivista della giustizia globale, Vandana Shiva, dice: «Nell’epoca della globalizzazione il coltivatore (o coltivatrice) della terra sta perdendo la sua identità sociale, culturale ed economica di persona che produce.



Un contadino diventa ora un ‘consumatore’ del costosissimo grano e degli ancora più costosi prodotti chimici venduti da forti multinazionali grazie al potere dei proprietari terrieri e dei finanziatori locali».



La de-ruralizzazione è ad uno stato avanzato in America Latina e in Asia. E se la Banca Mondiale dice il vero, l’Africa sta viaggiando nella stessa direzione. Come fanno giustamente notare la Bryceson e le sue colleghe in un recente articolo del 2008, il rapporto sullo sviluppo mondiale che tratta per esteso l’agricoltura in Africa, nel continente è in corso un progetto di trasformazione dell’agricoltura basata sull’attività rurale ad un’industria agricola su vasta scala. Comunque, come in altri paesi oggi, i banchieri passano da una sfiducia latente a una manifesta opposizione. Al tempo della colonizzazione, negli anni Sessanta, l’Africa era una rete di export alimentare. Oggi importa il 25 per cento del suo fabbisogno; quasi ogni paese rappresenta una rete di importazione alimentare. Fame e carestia sono diventate un fenomeno ricorrente, che negli ultimi tre anni ha visto scoppiare l’emergenza cibo nel Como d’Africa, nel Sahel e nell’Africa Centrale e Meridionale.



Ad aggravare l’impatto negativo dell’adeguamento strutturale si aggiungevano le inique regole economiche dell’Europa e degli Stati Uniti. La liberalizzazione ha permesso ai paesi europei esportatori di manzo di mandare in rovina gli allevatori dell’Africa occidentale e meridionale. Con le loro sovvenzioni legittimate dal Wto i coltivatori americani misero sul mercato mondiale il cotone a un prezzo che andava dal 20 al 55 per cento del costo di produzione, generando così il fallimento degli agricoltori dei paesi sopra menzionati.



Secondo le stime dell’Oxfam, il numero di africani del sub Sahara che vivevano con meno di un dollaro al giorno era quasi raddoppiato fino a raggiungere i 313 milioni tra il 1981 e il 2001 (il 46 per cento dell’intero continente). Il ruolo che ebbe l’adeguamento strutturale nella creazione della povertà era duro da negare. Come ammise il responsabile dell’economia africana per la Banca Mondiale: «Non pensavamo che i costi umani di questi programmi sarebbero stati così elevati, e che il ritorno economico avrebbe avuto un processo così lento».



UNA STRATEGIA ALTERNATIVA

Le organizzazioni contadine del mondo sono diventate più combattive nella loro resistenza alla globalizzazione dell’industria agricola. E’ per la pressione dei coltivatori che i governi del sud del mondo hanno rifiutato un più libero accesso ai loro mercati agricoli ed hanno richiesto un taglio netto alle sovvenzioni all’agricoltura da parte di Stati Uniti ed Europa, facendo sì che Doha Round del Wto mettesse fine alle negoziazioni.



Gli agricoltori hanno creato una rete internazionale; una delle più attive è quella chiamata Via Campesina (strada di campagna). Questa, non solo cerca di far fuori il Wto dal settore agricolo e si oppone ad un modello di agricoltura industriale capitalistica globalizzata; propone anche una nuova strategia di alimentazione alternativa. Che vuol dire innanzi tutto il diritto di un paese a stabilire i termini della propria produzione e consumo di prodotti alimentari, ma soprattutto a mantenere le distanze dalle regole del commercio globale stabilite da istituzioni come il Wto.



Questo significa anche consolidare la forza dei piccoli proprietari terrieri proteggendoli dai danni di un sistema di importazione a basso costo; significa prezzi più convenienti per agricoltori e pescatori; significa l’abolizione di tutte le sovvenzioni dirette e indirette all’esportazione. Significa inoltre l’eliminazione delle sovvenzioni interne che hanno provocato l’insostenibilità del settore agricolo.



La realtà di Via Campesina è anche chiamata a mettere la parola fine al regime dei Trip, che permette alle corporazioni di brevettare le semenze. Via Campesina si oppone all’agrotecnologia basata sull’ingegneria genetica e pretende una riforma agraria. In contrasto ad una monocultura globale integrata, Via Campesina offre la visione di un’economia agricola internazionale composta da varie nazioni che commerciano tra di loro dando priorità al fabbisogno interno del paese.



Considerato una volta la reliquia dell’era preindustriale, ora il mondo contadino rappresentano l’opposizione ad un’agricoltura industriale capitalistica, ‘fatto che lo potrebbe consacrare alla storia. Questo mondo è diventato ciò che Carlo Marx descriveva come «una classe che rappresenta la coscienza politica di un popolo», anche andando contro le sue teorizzazioni che ne pronosticavano la fine. Nella crisi alimentare i contadini sono in prima linea ed hanno alleati e sostenitori. Loro non entrano di nascosto e in punta di piedi nella lotta contro la de-ruralizzazione, i cui sviluppi nel ventunesimo secolo stanno dimostrando che la panacea del capitalismo industriale agricolo è un incubo.



Nella crescente crisi ambientale dove le disfunzioni sociali della vita urbana industrializzata si vanno accumulando e l’industrializzazione dell’agricoltura crea una maggiore precarietà alimentare, le organizzazioni del movimento agricolo hanno una sempre maggiore rilevanza non solo per gli agricoltori ma per tutti coloro che sono minacciati dalle catastrofiche conseguenze che una visione capitalistico-globalizzata potrebbe avere sul settore produttivo, sulla comunità e sulla vita stessa

NOTE

Traduzione di Silvana Pedrini

giovedì 5 giugno 2008

«Agrocarburanti, un disastro su cui Usa e Ue speculano»

«Agrocarburanti, un disastro su cui Usa e Ue speculano»

Il Manifesto del 5 giugno 2008, pag. 2

di Stefano Liberti

Nominato nel marzo scorso relatore speciale dell’Onu per il diritto all’alimentazione, il belga Olivier de Schutter si è trovato immediatamente alle prese con una crisi di dimensioni planetarie. Succeduto allo svizzero Jean Ziegler, che aveva definito la produzione di agro-combustibili «un crimine contro l’umanità» e aveva richiesto una moratoria di cinque anni sulla produzione di etanolo e bio-diesel, questo giovane professore universitario non appare meno tenero nei confronti del cosiddetto «oro verde».



Qual è l’impatto reale degli agro-carburanti sulla crisi alimentare?

Esistono diversi tipi di agro-carburanti. Al di là della distinzione classica tra i cosiddetti agro-carburanti di prima e seconda generazione, bisogna anche evidenziare le differenze tra i vari agro-carburanti di prima generazione: c’è l’etanolo tratto dalla canna da zucchero in Brasile, quello tratto dal mais negli Stati uniti, l’olio estratto dalla colza in Europa e il bio-diesel tratto dall’olio da palma prodotto prevalentemente nel sud-est asiatico. Questi agro-carburanti hanno un diverso impatto ambientale e presentano un diverso grado di competizione con la produzione alimentare. L’etanolo brasiliano, per esempio, ha un miglior rapporto energetico degli altri ed è decisamente meno nocivo per l’ambiente. Detto questo, la cosa che trovo più preoccupante è il fatto che gli Usa e la Ue abbiano annunciato obiettivi precisi per l’aumento dell’utilizzo degli agro-carburanti nei prossimi anni, soprattutto nel settore dei trasporti. Questi annunci hanno conseguenze disastrose: alimentano la speculazione finanziaria. Mandano agli investitori il segnale chiaro che i prezzi delle terre e delle materie prime agricole continueranno a salire. Io faccio un appello urgente sia alla Ue che agli Usa affinché rinuncino a questi obiettivi-soglia.



Oltre agli obiettivi-soglia esiste anche il problema delle sovvenzioni pubbliche che gli Stati uniti assicurano ai produttori di etanolo...

Sono varie le motivazioni che avanzano gli Stati uniti per sviluppare l’etanolo tratto dal mais. La prima, di ragione ambientale, è puramente pretestuosa, perché il bilancio ambientale della produzione di etanolo dal mais è negativo, ossia la produzione di questo tipo di etanolo consuma più energia di quanta ne generi. C’è poi una ragione di carattere geo-politico, perché Washington non vuole dipendere dagli idrocarburi fossili provenienti dal Medioriente. Infine, cosa non meno importante, c’è l’esigenza di ricompensare una lobby agricola - quella del Midwest - che è molto forte. Ogni anno negli Stati uniti 11 milioni di dollari di sovvenzioni pubbliche sono destinati alla produzione di etanolo.



Quello dell’etanolo nel Midwest americano è solo un caso esemplare. Non crede che in generale le sovvenzioni che I paesi del Nord garantiscono ai loro agricoltori siano una delle ragioni che hanno messo a rischio la sovranità alimentare nel Sud del mondo?

Le cifre sono effettivamente impressionanti: ogni anno i paesi del cosiddetto Nord del mondo destinano 320 miliardi di dollari in sovvenzioni alle loro produzioni agricole.



Queste sovvenzioni hanno portato al fallimento di migliaia di agricoltori del Sud, soprattutto nell’Africa sub-sahariana, che non hanno accesso a simili aiuti pubblici. Nel corso di questa conferenza alcuni paesi in via di sviluppo, soprattutto potenze agricole emergenti come il Brasile o l’Argentina, hanno ribadito queste accuse e chiesto che il problema venga affrontato. C’è una pressione molto forte sugli Stati uniti, l’Unione europea e il Giappone perché facciano concessioni in questo senso nel corso dei negoziati commerciali di Doha nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Io credo che questo summit della Fao sia una tappa importante per una effettiva realizzazione del ciclo di sviluppo di Doha, anche se a questo proposito alcune ong hanno avanzato preoccupazioni rispetto a quella che definiscono una liberalizzazione ancora più spinta del commercio agricolo.



Non ritiene in effetti che una liberalizzazione maggiore del commercio agricolo, voluta tanto dalla Wto quanto dalla Fao, possa favorire le grandi multinazionali dell’agro-business?

Esiste questo rischio. Come esiste il rischio che una maggiore liberalizzazione del commercio agricolo possa spingere ancora di più verso monocolture destinate all’esportazione, a detrimento non solo della biodiversità ma anche dei piccoli produttori. E per questo che una delle prime iniziative che ho preso da quanto sono entrato in carica come relatore speciale è stata contattare la Wto per fare una missione presso di loro e cercare di valutare in modo imparziale e obiettivo l’impatto sul diritto dell’alimentazione del ciclo di sviluppo di Doha.

mercoledì 4 giugno 2008

Le tante strade creative contro il global warming

Le tante strade creative contro il global warming

Il Manifesto del 4 giugno 2008, pag. 11

di Massimo Arcangeli

Già il Medioevo prossimo venturo di Roberto Vacca, più di trent’anni fa, ci ha messo in guardia contro il pericolo di un collasso dei «sistemi di produzione e distribuzione di energia, dei trasporti, delle comunicazioni, degli approvvigionamenti di acqua, di eliminazione dei rifiuti, di trattamento delle informazioni»; di qui la concreta possibilità, proseguiva lo scienziato, dell’innesco di un «processo catastrofico, che paralizzerebbe il funzionamento delle società più sviluppate conducendo alla morte milioni di persone».



C’è una relazione perversa fra la ribellione campana all’apertura di dieci discariche che risolvano (provvisoriamente) l’emergenza rifiuti e il ritorno all’energia nucleare annunciato dal ministro Scajola: l’umanità vive ormai al di sopra delle possibilità che la terra può offrirle; la velocità e l’intensità con cui mette mano alle, sue risorse (in alcuni paesi, come la Cina e l’India, gli aumenti del consumo energetico degli ultimi anni sono esponenziali) supera ormai la capacità del pianeta di rinnovarle e rigenerarsi.



I combustibili fossili (carbone, gas naturale, petrolio e relativi derivati), risultato di trasformazioni della materia organica in varie forme di carbonio che si sono prodotte in milioni di anni, vanno rapidamente esaurendosi e non sono molti i casi in cui si è pensato di ricorrere seriamente a energie alternative rinnovabili: quella geotermica, che potremmo utilizzare su ampia scala anche in Italia - considerata la presenza sul nostro suolo di una notevole attività eruttiva, e memori dell’impianto realizzato già all’inizio del Novecento nella pisana Larderello, famosa per i suoi soffioni boraciferi - e è la prima fonte di rifornimento energetico in Islanda (si trova però nella californiana The Geysers la centrale più importante del mondo); quella eolica, la più antica fra le energie rinnovabili, che sfrutta la potenza del vento; quella fotovoltaica, assai poco concentrata e attualmente molto più costosa degli idrocarburi - fra i cui vantaggi vi è proprio la «compattezza», che restituisce alti valori in termini di rapporto fra energia e volume -, ma per l’importante proprietà di riconvertire in energia termica o elettrica il calore emanato dal sole in grado di rivelarsi un’importante scommessa per il futuro; quella mareomotrice, ricavata dagli spostamenti della massa d’acqua prodotta dal fenomeno delle maree (l’esperimento più noto e interessante è l’installazione di un apposito impianto in Bretagna, fra Saint-Malo e Dinard, addirittura degli anni Sessanta); quella generata dai biocombustibili, vari prodotti vegetali (mais, soia, barbabietole, ecc.) che già alcuni paesi, come il Giappone e gli Stati uniti, coltivano ad hoc per produrre quantità contenute di energia elettrica.



Un mondo che si trovasse improvvisamente a mancare delle fonti energetiche fossili dovrebbe rinunciare agli spostamenti in auto e in treno, in nave e in aereo, non potrebbe più illuminare né riscaldare modernamente le proprie abitazioni (negli Stati uniti il 50 per cento circa dell’energia elettrica dipende dal carbone), nelle quali i comuni elettrodomestici smetterebbero di funzionare, non avrebbe più la possibilità di utilizzare macchinari nel lavoro industriale e agricolo, cesserebbe di comunicare e trasmettere informazioni a enormi distanze grazie alle nuove tecnologie; tornerebbe, in una parola, a condizioni premoderne.



Un rischio paventato da molti, ma agli occhi del giornalista e attivista politico inglese George Monbiot anche una preziosa occasione per giocare intelligentemente d’anticipo. Se vogliamo combattere il riscaldamento globale in modo serio, sostiene nel suo recentissimo Calore - più di quanto non abbia proposto di fare Al Gore, premio Nobel per la pace -, lasciamo a casa l’automobile e preferiamole i mezzi pubblici di trasporto o andiamo in bicicletta o a piedi, facciamo i nostri acquisti direttamente da casa (via internet), isoliamo termicamente le nostre abitazioni trasformandole in ecologiche passivhouses, evitiamo di oltrepassare la soglia fissata da futuri, lungimiranti governi per il consumo energetico (gli eccessi ricadrebbero sulle nostre tasche), teniamoci alla larga dai supermercati e torniamo all’autoproduzione e all’autoconsumo della sana e ritirata vita di campagna di una volta; il global warming potrebbe altrimenti segnare la nostra prossima fine: «se entro il 2030 i paesi ricchi non taglieranno le emissioni di anidride carbonica del 90 per cento la temperatura salirà di 2 gradi. E 2 gradi è la classica goccia che fa traboccare il vaso: oltre, i principali ecosistemi iniziano a impazzire». Al bando soprattutto gli spostamenti in volo, praticamente inutili e sempre più inquinanti per l’aumento del traffico aereo; pensiamo soltanto, ha osservato Monbiot, che ciascuno dei passeggeri di un volo da Londra a New York produce mediamente una quantità di CO2 (1,2 tonnellate) equivalente all’energia che dovrebbe consumare in un anno se il suo paese decidesse di ridurre del 90 per cento le emissioni del micidiale biossido di carbonio.



Intanto amministratori lungimiranti tentano strade «creative» per risolvere il problema energetico; incentivando per esempio lo sfruttamento della «energia grigia», quella necessaria per realizzare un qualunque manufatto: un edificio di cinque piani o una bottiglietta di Coca Cola. Se si rispolverasse il «vuoto a rendere», si bandissero finalmente i sacchetti della spesa in plastica, si sostituissero materiali da costruzione a basso tasso di energia grigia (il legno) a altri che ne richiedono molta di più (il cemento) potremmo forse sperare di tenere testa anche alle alleanze perverse: l’ultima, per tornare al nucleare, è quella fra l’oncologo Umberto Veronesi e il cardinale Renato Raffaele Martino. Il primo ha scritto su Repubblica che sposare l’atomo è una scelta «inevitabile» e che l’energia nucleare è «una fonte non inquinante e sicura dal punto di vista degli effetti sulla salute»; il secondo, in un’intervista a Radio Vaticana, ha dichiarato: «Poste le esigenze della massima sicurezza per l’uomo e per l’ambiente, e sancito il divieto dell’uso ostile della tecnologia nucleare, perché precludere l’applicazione pacifica della tecnologia nucleare?» Non bastava la rinnovata Santa alleanza fra trono e altare… Le vie del Signore sono davvero infinite.