venerdì 6 giugno 2008

Così si fabbrica la crisi del cibo

Così si fabbrica la crisi del cibo

Il Manifesto del 6 giugno 2008, pag. 12

di Walden Bello

Quando lo scorso anno decine di migliaia di persone in Messico manifestarono contro l’aumento del 60 per cento sul prezzo delle tortillas, molti analisti diedero la colpa ai biocarburanti. Per via delle sovvenzioni governative Usa gli agricoltori americani utilizzavano sempre di più i campi di grano per la produzione dell’etanolo anziché per gli alimenti, e questo fece lievitare il prezzo del frumento. Il fatto che il grano venisse trasformato in biocarburante anziché in tortillas fu senz’altro una delle cause che fecero schizzare i prezzi alle stelle, sebbene la speculazione sul biocarburante richiesta dai mediatori internazionali possa avere avuto un ruolo più determinante.



Uno studio realizzato dalla Fao (delle Nazioni Unite) su quattordici paesi ha rilevato che la quantità di cibo importato tra il 1995 e il 1998 era nettamente superiore al periodo 1990-1994. Il fatto non destò alcuna sorpresa finché uno dei più importanti obiettivi della Convenzione sull’agricoltura del Wto (Organizzazione mondiale del commercio) fu quello di aprire i mercati nei paesi in via di sviluppo così da poter assorbire il surplus di produzione nei paesi del nord. E quindi, come disse nel 1986 il ministro dell’agricoltura americano John Block: «L’idea che i paesi in via di sviluppo si possano sostentare autonomamente è un concetto anacronistico. Essi potrebbero assicurarsi una migliore nutrizione facendo affidamento sui prodotti agricoli americani, che nella maggior parte dei casi hanno un prezzo più basso».



Quello che Block non disse è che il prezzo contenuto dei prodotti americani era determinato dalle sovvenzioni che diventavano ogni anno più corpose nonostante il Wto avesse il compito di controllarle. Dai 367 miliardi di dollari nel 1995, l’ammontare totale delle sovvenzioni all’agricoltura erogate dai governi dei paesi sviluppati è cresciuto fino a raggiungere nel 2004 i 388 miliardi dì dollari. Sin dalla fine degli anni Novanta le sovvenzioni hanno inciso sul 40 per cento del valore della produzione agricola nell’Unione Europea e per il 25 per cento negli Stati Uniti. I fautori del libero mercato e i difensori delle esportazioni sottocosto possono apparire su posizioni opposte, ma le politiche che sostengono portano al medesimo risultato: la globalizzazione capitalistica dell’agricoltura.



TRA MONSANTO E CARREFOUR

I paesi in via di sviluppo si stanno via via integrando in un sistema dove la produzione della carne e del grano diretta all’esportazione è dominata da grosse industrie agricole come quelle gestite dalla multinazionale tailandese Cp e dove la tecnologia è continuamente aggiornata dai progressi dell’ingegneria genetica realizzati da ditte come la Monsanto. E l’eliminazione delle barriere tariffarie ed extra tariffarie sta facilitando la nascita di catene di punti vendita di prodotti agricoli a livello mondiale dove i consumatori di ceto medio-alto fanno il gioco di colossi commerciali quali Cargill e Archer Daniels Midland e di ipermercati come Teseo (Inghilterra) e Carrefour (Francia).



Nell’organizzazione di questo mercato globale c’è poco spazio per le centinaia di milioni di poveri che vivono nelle città o nelle campagne. Questi sono confinati in gigantesche favelas di periferia dove si trovano a combattere con costi alimentari spesso molto più alti rispetto a quelli dei supermercati, o vivono in risicate realtà rurali, intrappolati in attività agricole marginali e sempre di più vittime della fame. E così, all’interno di una stessa nazione, la carestia dei ceti emarginati coesiste spesso con la prosperità di quelli integrati nella globalizzazione.



Questo non è semplicemente lo sgretolamento dell’autosufficienza e della sicurezza nel processo dell’alimentazione ma è ciò che l’africanista Deborah Bryceson di Oxford chiama «de-ruralizzazione» - l’eliminazione di una modalità produttiva che fa della realtà rurale un terreno congeniale all’accumulazione intensiva di capitali.



Questa trasformazione rappresenta un trauma per centinaia di milioni di persone, poiché la produzione agricola non è un’attività meramente economica, è uno stile di vita atavico, una cultura spodestata o emarginata, che in India ha spinto i contadini al suicidio. Nello stato dell’Andhra Pradesh, i contadini che si sono suicidati sono aumentati da 233 nel 1998 a 2.600 nel 2002; nel Maharashtra, i suicidi si sono triplicati, (la 1.083 nel 1995 a 3.926 nel 2005. Possiamo dire che 150.000 contadini indiani si sono tolti la vita.



Il crollo dei prezzi dovuto al libero mercato e alla perdita del controllo sul grano a favore delle grosse aziende biotecnologiche è parte di un problema complesso. L’attivista della giustizia globale, Vandana Shiva, dice: «Nell’epoca della globalizzazione il coltivatore (o coltivatrice) della terra sta perdendo la sua identità sociale, culturale ed economica di persona che produce.



Un contadino diventa ora un ‘consumatore’ del costosissimo grano e degli ancora più costosi prodotti chimici venduti da forti multinazionali grazie al potere dei proprietari terrieri e dei finanziatori locali».



La de-ruralizzazione è ad uno stato avanzato in America Latina e in Asia. E se la Banca Mondiale dice il vero, l’Africa sta viaggiando nella stessa direzione. Come fanno giustamente notare la Bryceson e le sue colleghe in un recente articolo del 2008, il rapporto sullo sviluppo mondiale che tratta per esteso l’agricoltura in Africa, nel continente è in corso un progetto di trasformazione dell’agricoltura basata sull’attività rurale ad un’industria agricola su vasta scala. Comunque, come in altri paesi oggi, i banchieri passano da una sfiducia latente a una manifesta opposizione. Al tempo della colonizzazione, negli anni Sessanta, l’Africa era una rete di export alimentare. Oggi importa il 25 per cento del suo fabbisogno; quasi ogni paese rappresenta una rete di importazione alimentare. Fame e carestia sono diventate un fenomeno ricorrente, che negli ultimi tre anni ha visto scoppiare l’emergenza cibo nel Como d’Africa, nel Sahel e nell’Africa Centrale e Meridionale.



Ad aggravare l’impatto negativo dell’adeguamento strutturale si aggiungevano le inique regole economiche dell’Europa e degli Stati Uniti. La liberalizzazione ha permesso ai paesi europei esportatori di manzo di mandare in rovina gli allevatori dell’Africa occidentale e meridionale. Con le loro sovvenzioni legittimate dal Wto i coltivatori americani misero sul mercato mondiale il cotone a un prezzo che andava dal 20 al 55 per cento del costo di produzione, generando così il fallimento degli agricoltori dei paesi sopra menzionati.



Secondo le stime dell’Oxfam, il numero di africani del sub Sahara che vivevano con meno di un dollaro al giorno era quasi raddoppiato fino a raggiungere i 313 milioni tra il 1981 e il 2001 (il 46 per cento dell’intero continente). Il ruolo che ebbe l’adeguamento strutturale nella creazione della povertà era duro da negare. Come ammise il responsabile dell’economia africana per la Banca Mondiale: «Non pensavamo che i costi umani di questi programmi sarebbero stati così elevati, e che il ritorno economico avrebbe avuto un processo così lento».



UNA STRATEGIA ALTERNATIVA

Le organizzazioni contadine del mondo sono diventate più combattive nella loro resistenza alla globalizzazione dell’industria agricola. E’ per la pressione dei coltivatori che i governi del sud del mondo hanno rifiutato un più libero accesso ai loro mercati agricoli ed hanno richiesto un taglio netto alle sovvenzioni all’agricoltura da parte di Stati Uniti ed Europa, facendo sì che Doha Round del Wto mettesse fine alle negoziazioni.



Gli agricoltori hanno creato una rete internazionale; una delle più attive è quella chiamata Via Campesina (strada di campagna). Questa, non solo cerca di far fuori il Wto dal settore agricolo e si oppone ad un modello di agricoltura industriale capitalistica globalizzata; propone anche una nuova strategia di alimentazione alternativa. Che vuol dire innanzi tutto il diritto di un paese a stabilire i termini della propria produzione e consumo di prodotti alimentari, ma soprattutto a mantenere le distanze dalle regole del commercio globale stabilite da istituzioni come il Wto.



Questo significa anche consolidare la forza dei piccoli proprietari terrieri proteggendoli dai danni di un sistema di importazione a basso costo; significa prezzi più convenienti per agricoltori e pescatori; significa l’abolizione di tutte le sovvenzioni dirette e indirette all’esportazione. Significa inoltre l’eliminazione delle sovvenzioni interne che hanno provocato l’insostenibilità del settore agricolo.



La realtà di Via Campesina è anche chiamata a mettere la parola fine al regime dei Trip, che permette alle corporazioni di brevettare le semenze. Via Campesina si oppone all’agrotecnologia basata sull’ingegneria genetica e pretende una riforma agraria. In contrasto ad una monocultura globale integrata, Via Campesina offre la visione di un’economia agricola internazionale composta da varie nazioni che commerciano tra di loro dando priorità al fabbisogno interno del paese.



Considerato una volta la reliquia dell’era preindustriale, ora il mondo contadino rappresentano l’opposizione ad un’agricoltura industriale capitalistica, ‘fatto che lo potrebbe consacrare alla storia. Questo mondo è diventato ciò che Carlo Marx descriveva come «una classe che rappresenta la coscienza politica di un popolo», anche andando contro le sue teorizzazioni che ne pronosticavano la fine. Nella crisi alimentare i contadini sono in prima linea ed hanno alleati e sostenitori. Loro non entrano di nascosto e in punta di piedi nella lotta contro la de-ruralizzazione, i cui sviluppi nel ventunesimo secolo stanno dimostrando che la panacea del capitalismo industriale agricolo è un incubo.



Nella crescente crisi ambientale dove le disfunzioni sociali della vita urbana industrializzata si vanno accumulando e l’industrializzazione dell’agricoltura crea una maggiore precarietà alimentare, le organizzazioni del movimento agricolo hanno una sempre maggiore rilevanza non solo per gli agricoltori ma per tutti coloro che sono minacciati dalle catastrofiche conseguenze che una visione capitalistico-globalizzata potrebbe avere sul settore produttivo, sulla comunità e sulla vita stessa

NOTE

Traduzione di Silvana Pedrini