sabato 20 marzo 2010

Scontro su Gerusalemme Est

l’Unità 16.3.10
Scontro su Gerusalemme Est
No di Netanyahu agli Usa
La Casa Bianca spinge per bloccare le 1600 nuove case nella parte orientale della città Santa
L’ambasciatore israeliano a Washington: «Crisi molto grave, ha dimensioni storiche»
Il premier israeliano tira dritto. Israele non fermerà il piano di nuove abitazioni a Gerusalemme Est condannato dagli Usa, dall’Onu e dalla Ue. Obama avrebbe chiesto l’alt. Da Netanyahu arriva un altro no
di Umberto De Giovannangeli

La crisi scoppiata nelle relazioni strategiche tra Israele e Stati Uniti in seguito all’annuncio di un nuovo e molto controverso piano di edilizia ebraica a Gerusalemme Est «è molto grave» e ha «dimensioni storiche». Parola di Michael Oren, ambasciatore dello Stato ebraico a Washington. Secondo quanto riportano i siti web israeliani, sabato sera Oren ha convocato
i consoli generali israeliani per una conference call di emergenza, dicendo loro che i rapporti tra Israele e Usa stanno attraversando il loro peggior momento dal 1975. In quell’anno l’allora segretario di Stato Henry Kissinger minacciò un totale «riesame» delle relazioni degli Usa con Israele e il congelamento degli aiuti militari in seguito al rifiuto di quest’ultimo di accettare un piano di ritiro delle sue forze armate nel Sinai.
La crisi attuale è invece deflagrata lo scorso martedì, quando, nel bel mezzo della visita del vice presidente americano Joe Biden a Gerusalemme il cui scopo era quello di promuovere il rilancio del processo di pace tra israeliani e palestinesi -, il ministero dell’Interno israeliano ha annunciato la costruzione di 1.600 nuove case a Gerusalemme
Est, scatenando l’ira dei palestinesi e mettendo in grande imbarazzo lo stesso Biden.
L’IRA DI HILLARY
Dopo la dura condanna della segretaria di Stato Hillary Clinton, l’altro ieri è stata la volta del consigliere del presidente Obama, David Axelrod, il quale ha affermato senza mezzi termini che la decisione israeliana di autorizzare la costruzione delle nuove case a Gerusalemme Est è stata un «affronto» e un «insulto». Washington non si accontenta delle «scuse» del primo ministro israeliano, Netanyahu. Gli Usa avrebbero chiesto a Israele di rinunciare del tutto al suo piano di costruzione di 1.600 nuove unità abitative a Gerusalemme Est., alla base della crisi diplomatica tra i due Paesi. La richie-
sta, confermano a l’Unità fonti diplomatiche a Tel Aviv, è perentoria: Washington chiede al premier Netanyahu la totale cancellazione del piano.
Lo scontro si allarga. La decisione di Israele di costruire nuovi alloggi a Gerusalemme Est «è illegale e mette in pericolo l’accordo provvisorio per i negoziati indiretti israelo-palestinesi», afferma dal Cairo la responsabile della diplomazia Ue, Catherine Ashton. «La posizione dell’Ue è chiara: gli insediamenti costituiscono un ostacolo per la pace e minano la possibilità di costituire due Stati», dice Ashton incontrando il segretario della Lega Araba, Amr Moussa. «Lady Pesc» ha poi definito «negativa» la decisione di Israele di inserire siti religiosi e culturali sul territorio palestinese nel patrimonio israeliano: «Porterà effetti contrari a quelli voluti». «Nell’ambito della soluzione dei due Stati, il nostro obiettivo è la creazione di quello palestinese in Cisgiordania, che includa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, sulla base dei confini del 1967”, aggiunge Ashton. La responsabile della diplomazia europea ha sottolineato anche che il «blocco di Gaza è inaccettabile».
«Israele è e resterà un alleato strategico degli Stati Uniti, ma attendiamo una sua risposta formale» in merito ai nuovi insediamenti a Gerusalemme Est”, afferma in serata il portavoce del Dipartimento di Stato americano Philip Crowley. A tutti replica, sia pur indirettamente il premier Netanyahu. Il primo ministro israeliano ripete che i progetti di costruzione di alloggi a Gerusalemme Est «andranno avanti» anche per il futuro, sottolineando che questa è la politica di tutti i governi del Paese da 42 anni. «Le costruzioni a Gerusalemme, come in ogni altro luogo continueranno, secondo quella che è stata la consuetudine negli ultimi 42 anni», taglia corto Netanyahu.
Le sue parole non sorprendono la dirigenza palestinese. Netanyahu «non è interessato a raggiungere la pace e mira anzi a distruggere ogni sforzo», commenta Nemer Hammad, consigliere per i rapporti con i media del presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Secondo Hammad, la reazione di Washington «questa volta è stata seria», come «serio è stato l’imbarazzo causato dal governo israeliano».

mercoledì 17 marzo 2010

Scontri e feriti per l’apertura di una sinagoga a fianco della Spianata delle moschee

l’Unità 17.3.10
Scontri e feriti per l’apertura di una sinagoga a fianco della Spianata delle moschee
Irritata con Israele la Casa Bianca. Obama detta le sue tre condizioni. Mitchell rinvia la visita
Gerusalemme, il giorno dell’ira Torna la rivolta dei sassi
Barricate, scontri, pietre, proiettili di gomma... Decine i feriti. Gerusalemme s’infiamma nel «Giorno della collera». Obama preme su Israele, Ban Ki-moon si appella alla moderazione, ma la situazione è esplosiva.
di Umberto De Giovannangeli

La «Giornata della collera» infiamma Gerusalemme. Scontri, caccia all’uomo, lacrimogeni, barricate...Malgrado uno spiegamento di tremila agenti, concentrati nelle aree di maggiore attrito, centinaia di giovani palestinesi si sono scontrati con la polizia israeliana in assetto antisommossa, nel quadro della «Giornata della Collera» proclamata dal movimento islamico israeliano contro l’espansione della presenza ebraica nella parte araba di Gerusalemme, all’indomani dell’inaugurazione di una grande sinagoga appena restaurata nell’antico quartiere ebraico della Città Vecchia.
SCONTRI RIPETUTI
Per buona parte della giornata è stato un susseguirsi di disordini, tumulti e sassaiole, sebbene di portata circoscritta,che sono scoppiati in diversi quartieri arabi in prossimità della Città Vecchia (Wadi Joz, Ras El Amud, Issawiya, Abu Tor) e alla periferia della città. La polizia ha risposto col lancio di granate assordanti, candelotti lacrimogeni e sparando proiettili di gomma. All’interno delle mura della Città Vecchia, ai cui accessi vigilavano forze di polizia, la partecipazione di popolo ai disordini è tuttavia apparsa se non inesistente, almeno molto ridotta. Forte la presenza di polizia nell’area adiacente la Spianata delle Moschee, principale focolaio di passioni religiose e nazionalistiche, dove gli agenti hanno fatto uso di granate assordanti contro gruppi di manifestanti. Manifestazioni di giovani palestinesi si sono svolte anche in divere località in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Qui le manifestazioni, indette da Hamas, hanno avuto un carattere più di massa con proclami alla lotta armata contro Israele e a una terza intifada. Secondo l’Autorità nazionale palestinese (Anp) il bilancio degli scontri è di un centinaio di manifestanti feriti o contusi e di 67 persone fermate dalla polizia. Quest’ultima ha confermato il numero di fermati e lamenta il ferimento lieve di 15 agenti, uno raggiunto da colpi di arma da fuoco. Il capo della polizia David Cohen ha annunciato che il massiccio spiegamento di forze dell’ordine durerà almeno fino a venerdì prossimo.
Gli incidenti coincidono con l’ennesima fase di stallo dei tentativi di rilancio dei negoziati israelo-palestinesi, tornati in alto mare, come conferma il rinvio della prevista visita nella regione del mediatore americano George Mitchell, dopo il recente via libera del governo israeliano di Benyamin Netanyahu ad altri 1600 alloggi in un insediamento ebraico di Gerusalemme est (Ramat Shlomo). Commentando gli incidenti, il deputato arabo israeliano Ahmed Tibi ha accusato il governo Netanyahu di aver provocato le tensioni con gesti «irresponsabili». Avvertendo che, se non ci saranno colpi di freno, la «terza intifada» evocata da Hamas stavolta potrebbe diventare realtà. Il negoziatore palestinese Saeb Erekat definisce «esplosiva» la situazione e accusa Netanyahu: «Sta giocando col fuoco».
LE CONDIZIONI DI OBAMA
Per rilanciare il processo di pace in Medio Oriente, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha posto tre condizioni ad Israele. Secondo il Washington Post, che lo scrive citando fonti ufficiali Usa, le condizioni sono: una marcia indietro sui nuovi insediamenti a Gerusalemme est annunciati provocando una crisi con Washington quando il vicepresidente Joe Biden era in visita ufficiale in Israele; un gesto significativo e sostanziale nei confronti dei palestinesi e una dichiarazione pubblica che accetti l’inclusione nei negoziati di tutte le questioni centrali, tra cui lo statuto di Gerusalemme. Le tre condizioni di Obama, di cui le autorità Usa non parlano ufficialmente, erano state illustrate venerdì dalla segretaria di Stato Usa Hillary Clinton a Netanyahu in una burrascosa telefonata di circa tre quarti d’ora. Siamo impegnati in consultazioni molto attive con gli israeliani sulle misure (da prendere) per manifestare il loro impegno nei confronti del processo di pace», dichiara la responsabile della diplomazia Usa. Hillary Clinton ha aggiunto che Washington ha «un impegno assoluto a difesa della sicurezza di Israele. Abbiamo un legame stretto ed indistruttibile tra Israele e gli Stati Uniti». Un appello a «mantenere calma e moderazione» a Gerusalemme è stato lanciato da Ban Ki-moon. Per avviarsi verso una risoluzione giusta di questo conflitto, è necessario che tutte le parti mantengano calma e moderazione», ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite aprendo una conferenza stampa al Palazzo di Vetro.

martedì 16 marzo 2010

Acqua pubblica, sabato 20 in piazza

l’Unità 16.3.10
Acqua pubblica, sabato 20 in piazza

È fissata per il prossimo sabato a Roma la manifestazione per la ripubblicizzazione dell’acqua. Il corteo partirà da piazza della Repubblica alle 14.00 e terminerà alle 19.00 a piazza Navona dove sono previsti gli interventi finali.
Sullo stop alle politiche di privatizzazione, che hanno avuto il loro apicecon l’approvazione del decreto Ronchi lo scorso novembre, e sulla necessità di una forte, radicata e diffusa
campagna nazionale, un vastissimo fronte in queste settimane si è aggregato al Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua: dalle associazioni dei consumatori alle associazioni ambientaliste, dal mondo cattolico e religioso al popolo viola, dai movimenti sociali al mondo sindacale, alle forze politiche. Con la manifestazione partirà anche la campagna referendaria. Tre quesiti per togliere l’acqua dalle mani dei privati.

sabato 13 marzo 2010

È crisi tra Israele e gli Stati Uniti «Sigillata» la Cisgiordania

l’Unità 13.3.10
È crisi tra Israele e gli Stati Uniti «Sigillata» la Cisgiordania
di Umberto De Giovannangeli

L’appello del patriarca di Gerusalemme: l’occupazione alimenta la violenza
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Da Gaza alla Cisgiordania. Ovvero: una vita da sigillati. Israele ha chiuso per 48 ore la frontiera con la Cisgiordania «per motivi di sicurezza». L’ordine è del ministro della Difesa. Resterà fino alla mezzanotte di oggi.

Le autorità israeliane hanno anche proibito agli uomini di età inferiore ai 50 anni di assistere alla preghiera del venerdì nella moschea al Aqsa di Gerusalemme. Il deflusso dalla moschea è avvenuto pacificamente, ma ci sono stati tafferugli nella zona araba della Città santa, dove la polizia ha lanciato granate stordenti e ha fermato quattro giovani che lanciavano pietre. Incidenti anche a Ramallah e in varie località della Cisgiordania.
La tensione tra i palestinesi è molto alta dopo la decisione del governo israeliano di autorizzare la costruzione di 1.600 case per i coloni a Gerusalemme est che ha portato al congelamento da parte dell’Anp dei colloqui indiretti che avrebbe dovuto avviare in questi giorni con Israele. Il blocco è una misura eccezionale, e da molti anni non si imponeva se non in periodi festivi. Dopo le 48 ore di blocco, si terrà un’ulteriore riunione al ministero della Difesa israeliano per valutare la situazione. Per 48 ore, la gente di Cisgiordania vivrà l’incubo che da tanto più tempo attanaglia i palestinesi di Gaza: l’incubo, reale, di vivere in una immensa prigione a cielo aperto. «L’occupazione militare dei territori palestinesi è dura, arrogante, ha paura degli altri e di se stessa, priva della libertà e dei diritti. Alimenta la violenza e persegue l’umiliazione. Nessun popolo potrebbe accettare un’occupazione simile»: lo denuncia al settimanale Vita il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal. «La comunità internazionale deve intervenire chiede il patriarca di Gerusalemme soprattutto l’Europa deve fare qualcosa, deve avere il coraggio di dire la verità». Un coraggio che fatica a mostrarsi.
LA LETTERA NON RICUCE
Terminata la visita di tre giorni a Gerusalemme del vicepresidente Joe Biden, una profonda crisi di fiducia si è aperta nelle relazioni fra Stati Uniti ed Israele. Il segretario di stato americano Hillary Clinton ha ammonito il premier israeliano Benjamin Netanyahu che l’annuncio della costruzione di nuove abitazioni a Gerusalemme Est costituisce «un segnale profondamente negativo» nei rapporti bilaterali tra Washington e il governo israeliano. Quello portato dalla Segretaria di stato Usa è un affondo tanto più significativo perché Hillary Clinton è ritenuta la più «filoisraeliana» dell’amministrazione Obama. Altro che «strappo ricucito»: «Questa azione contraria allo spirito della visita di Biden tuona Clinton ha minato la fiducia nel processo di pace e nell’interesse dell’America». Per il quotidiano Maariv il presidente Obama ha reagito «con collera» nell’apprendere dell’annuncio del nuovo rione ebraico a Gerusalemme est durante la visita di Biden. Secondo il giornale, «Se finora Obama prendeva con un grano di sale le dichiarazioni del premier Benyamin Netanyahu, adesso semplicemente non crede più ad alcuna sua parola».
Per il quotidiano Yediot Ahronot Netanyahu è stato «davvero colto di sorpresa» dall’annuncio; eppure è egualmente responsabile dell’incidente diplomatico con Biden «perché sostiene associazioni di coloni estremisti» che cercano di alterare i delicati equilibri demografici a Gerusalemme est. Altri analisti rilevano che le incomprensioni fra Usa ed Israele riguardano anche l’atteggiamento da assumere di fronte alla «minaccia iraniana». Le sanzioni prefigurate da Biden per Teheran appaiono a Gerusalemme non soddisfacenti, fanno trapelare fonti governative.

martedì 2 marzo 2010

«L’Intifada dei luoghi sacri è battaglia per il futuro»

l’Unità 2.3.10
«L’Intifada dei luoghi sacri è battaglia per il futuro»
Il rettore dell’Università Al Quds: la rivolta contro il piano israeliano non è fondamentalismo I palestinesi senza Stato difendono l’identità
di Umberto De Giovannangeli

Per una nazione senza Stato, la difesa della propria identità e dei luoghi che l’incarnano acquista una duplice valenza: po-
litica e simbolica. Non si tiri in ballo il fondamentalismo islamico per spiegare le proteste che si stanno propagando da Hebron a Gerusalemme. Alla base vi è un misto di rabbia e dignità di coloro che si aggrappano al passato per difendere il loro futuro». Ad affermarlo è una colomba palestinese: Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est, considerato, a ragione, il più autorevole intellettuale palestinese.
Professor Nusseibeh, nel suo libro “C’era una volta un Paese. Una vita in Palestina” (Il Saggiatore, 2009), lei chiede: «Al cuore del conflitto israelo-palestinese non c’è forse proprio l’incapacità di immaginare la vita dell’”altro”»?
«Credo fortemente in questo assunto. E mi ritrovo molto in una riflessione che i più grandi scrittori israeliani consegnarono ad un appello all’opinione pubblica e ai governanti d’Israele: c’era scritto che per Israele sarebbe stato meno doloroso cedere delle terre che riconoscere che la creazione del loro Stato nasceva da una ferita inferta al popolo palestinese. È profondamente vero. Per questo considero la colonizzazione culturale non meno grave dell’espropriazione di terre. La pace è innanzitutto riconoscere l’esistenza dell’altro, della sua storia, della sua identità. Riconoscere quanto fosse sbagliata l’affermazione che la «Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra». Questo, naturalmente, vale anche per noi palestinesi verso Israele. Nel libro riflettevo sul fatto che io ero cresciuto a non più di 30 metri dal luogo in cui Amos Oz aveva trascorso l’infanzia. Quando pensavo all’assenza di arabi nelle esperienze giovanili di Oz, ero costretto a riflettere anche sul modo in cui ero stato cresciuto. Cosa sapevano i miei genitori del suo mondo? Sapevano dei campi di sterminio? Le due parti, ciascuna immersa nella propria tragedia, non erano indifferenti, se non addirittura ostili, alle esperienze dell’altro»? Queste domande a quali conclusioni l’hanno portato?
«A insistere sull’importanza del dialogo dal basso, capace di coinvolgere le università, le scuole, insegnanti e studenti palestinesi e israeliani. La conoscenza dell’”altro” è il miglior antidoto contro il “virus” della demonizzazione».
Questo virus è rintracciabile nella decisione del governo di Benyamin Netanyahu di includere fra i luoghi del patrimonio storico ebraico da tutelare anche due santuari che si trovano in Cisgiordania (la Tomba di Rachele di Betlemme e la Tomba dei Patriarchi di Hebron) considerati Luoghi santi anche per l’Islam?
«Direi proprio di sì. Ed è un virus che nulla ha a che vedere con ragioni di sicurezza, e molto, invece, con una visione messianica che la destra nazionalista israeliana ha d’Israele. Una visione totalizzante che non ammette che un altro popolo rivendichi in Palestina diritti inalienabili, che sono propri di una nazione in cerca di Stato. Una nazione che non rinuncia alla sua storia».
La Tomba dei Patriarchi; la Tomba di Rachele; il Muro del pianto; la Spianata delle Moschee... Cos’è la religione nella tormentata Terrasanta?
«Da entrambi i lati del Muro, la religione è strumento di politica: ma che sia l’Isacco della Torah o l’Ismaele del Corano, Dio impedisce a Abramo di sacrificare suo figlio. È questo il comandamento più vero, quello più disatteso...».
Cosa la spaventa di più dei fondamentalismi che scuotano la sua terra? «È l’assolutizzazione del loro pensiero; l’assenza nel loro vocabolario, etico e politico, di parole come dialogo, compromesso, rispetto. È la bramosia di possesso assoluto. È concepire chi dissente come un traditore».
Nel suo libro “Contro il fanatismo”, Amos Oz fa l’elogio della parola compromesso come “sinonimo di vita”. E afferma che il contrario di compromesso “è fanatismo, morte”. «Condivido, con un’aggiunta:se la pace è un incontro a metà strada, oggi è Israele a dover compiere il tratto maggiore. Perché è il più forte a doversi liberare di un’illusione».
Quale, professor Nusseibeh?
«Quella di poter imboccare una scorciatoia militare – intesa non solo come pratica ma anche come cultura militarista – per risolvere d’imperio la questione palestinese. E lo dice uno che si è battuto a viso aperto contro la deriva armata della seconda Intifada. Fare i conti con la storia significa anche riconoscere da parte israeliana che la ragione principale del sangue versato in questi anni è nell’occupazione dei Territori. Perciò ai miei amici israeliani ripeto sempre che una pace giusta con noi palestinesi non è una gentile concessione che ci fanno ma il più serio investimento che possano fare sul loro futuro».
C’è ancora spazio per una pace fondata su due Stati? «Questo spazio si riduce man mano che si riduce lo spazio territoriale su cui l’ipotetico Stato di Palestina dovrebbe sorgere. In fondo, il disegno perseguito da Netanyahu è lo stesso di molti suoi predecessori: trascinare il negoziato alle calende greche e nel frattempo svuotarlo di ogni significato concreto. Come? Trasformando gli insediamenti in vere e proprie città. E poi dire: come posso cancellarle? Alla fine vorrebbero che i palestinesi si accontentassero di uno Stato-francobollo. E se dovessimo rifiutare, ecco pronta l’accusa: vedete, sono incontentabili».
A proposito di compromessi: tra i nodi da sciogliere c’è quello del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi... «Israele riconosca che questo è un problema politico e non “umanitario”. Risarcisca innanzitutto la loro storia, ammetta che c’è un fondamento alla Nakba (Catastrofe, così i palestinesi ricordano l’inizio della cacciata dai loro villaggi il 15 maggio 1948, ndr) invece di cancellarla dai libri di scuola degli studenti arabi israeliani. È questa la premessa per trovare un compromesso».