venerdì 28 novembre 2008

Inaccettabile un ex mister MCDonald's alla cultura

Inaccettabile un ex mister MCDonald's alla cultura
Viviana Devoto
E-Polis Milano 27/11/2008

Un ex manager McDonald`s alla guida dei musei italiani nominato dal ministro della Cultura allo scopo di «salvaguardare il patrimonio artistico».
«Non conosco Mario Resca e non so chi abbia spinto per questa nomina. Dico solo che certe competenze non siano interscambiabili. Se domani mi offrissero la poltrona da governatore della Banca d`Italia la rifiuterei, nonostante un cospicuo stipendio sotto gli occhi. Sono un storico dell`arte».
Salvatore Settis, presidente del consiglio nazionale dei beni
culturali e direttore della Normale di Pisa, non ama i guizzi mediatici, ma le sue parole contro il futuro super-manager nominato da Bondi nella bozza di una proposta di legge che mira a rivoluzionare il sistema museale hanno acceso lo scontro prima che sulle poltrone, sulle competenze («come può uno che si è occupato di cheeseburger gestire l`intero patrimonio museale italiano?»). A Milano per presentare il libro (edito in Italia da Skira) La crisi dei musei di Jean Clair, ex direttore del Musée Picasso e della Biennale di Venezia del Centenario, ha aperto una discussione sul ruolo dell`arte in Europa e in Italia.
II ministro Bondi definisce Mario Resca «uno dei più affermati manageritaliani».
Sul tavolo c`era anche il nome del direttore dei Musei vaticani Antonio Paolucci. Non credo che debba essere un manager a gestire il patrimonio artistico italiano.
Quello che si contesta non è solo la scelta del nome ma l`intera proposta di legge: quali sono le competenze del manager? E le funzioni del ministro? Si parla di prestiti. Con quali criteri verranno fatte delle concessioni? Ma la mia domanda è: potrebbe mai un ex direttore dei musei vaticani occuparsi di McDonald`s?
Considera "allarmante" il fatto che nemmeno uno dei musei italiani figuri nella lista dei dieci più visitati al mondo?
Se concepiamo l`istituzione museo come una qualunque altra azienda potremo pensare di chiudere anche le scuole, è una mia proposta, anche se a quello già ci stiamo arrivando. Il punto è che un museo non deve essere "redditizio". Il numero non è ciò che dà spessore alla cultura.
Un team di sovrintendenze e di tecnici del ministero dovrebbe affiancare Resca.
Questa è stata una delle assicurazioni del ministro, soltanto verbali. Non sono contenute nel decreto legge: per questa ragione in rappresentanza del consiglio nazionale dei beni culturali abbiamo rifiutato labozza. La figura del super-manager è delineata in un ruolo così ambiguo da non lasciare margini di ragionamento. Che Bondi ripensi all`intero decreto.
Quale dovrebbeessere il ruolo dei musei in Italia?
Io credo che i musei, i luoghi d`arte debbano dialogare con la città. Dovremmo pensare aquesti spazi come a nodi urbani, l`Italia non è un museo: è un luogo vivo. Non pensare all`arte solo per la "tutela": i musei non devono essere trasformati in cimiteri delle opere né come miniere di petrolio, assoggettati a una continua rincorsa al denaro. Bisognerebbe che si investisse in modo da trasformare i luoghi dell`arte come luoghi di coscienza del cittadini, altrimenti tutto è perduto.
Prospettive? La priorità dovrebbe essere quella di investire sull`interesse, quindi sui servizi, come ad esempio nei tanti piccoli musei diffusi sul territorio, autentica ricchezza culturale del nostro Paese. Francia e Italia hanno entrambe una responsabilità perché entrambe hanno contribuito a costruire il concetto di patrimonio culturale.
Questa legge ritorna a un vecchio concetto di tutela che non aveva alcuna normativa: lo ripeto non trasformiamo i nostri musei in un luogo di morti dell`arte, mettendo tutto sotto una teca.
Ha pensato di dimettersi?
Non è tra le mie intenzioni. A luglio avevo presentato sulle colonne del Sole 24 ore i dati sulla crisi museale. Ci fu una bufera, adesso non oso fare previsioni. Resca ha detto che il Louvre ad Abu Dhabi è un suo modello. I musei americani
a volte già vendono le loro opere chiamandola de-accessione. È unafase in cui tende acadere quel principio di dicotomia tra opere in venditae opere museali.

martedì 25 novembre 2008

Emergenza Gaza Nella Striscia civili allo stremo. La denuncia delle organizzazioni umanitarie

l’Unità 25.11.08
Emergenza Gaza Nella Striscia civili allo stremo. La denuncia delle organizzazioni umanitarie
Cisgiordania murata. La regione ridotta in tanti ghetti. Il mondo assiste impotente
Il dramma dei palestinesi assediati, divisi e senza Stato
di Unberto De Giovannangeli

Il 29 novembre l’Onu ha indetto la Giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. L’Unità dà voce a un popolo senza diritti, raccontandone speranze e tragedie. Partendo dall’assedio di Gaza.
Una nazione senza Stato. Un popolo tradito dalle sue leadership, abbandonato dai «fratelli» arabi, assediato (a Gaza) e costretto a vivere nei tanti ghetti a cui è stata ridotta la Cisgiordania. È la Palestina oggi. Il dramma di un popolo si consuma nell’impotenza manifesta della comunità internazionale e in uno scontro di potere interno che rischia di trasformarsi in una devastante guerra civile. Il 29 novembre l’Onu celebra la giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. Solidarietà è anche mantenere viva l’attenzione su un dramma in atto. Il dramma degli «ingabbiati» di Gaza e dei «murati» della Cisgiordania.
LA GABBIA DI GAZA
È l’emergenza tra le emergenze. I pressanti inviti delle Nazioni Unite hanno spinto Israele a riaprire parzialmente la frontiera con la zona controllata da Hamas per permettere il passaggio dei beni di prima necessità. Di fronte all’aggravarsi della crisi umanitaria, il governo di Gerusalemme ha concordato il lasciapassare per un numero limitato di convogli. Dal 4 novembre, quando un’incursione di Tsahal nel territorio aveva provocato una ripresa degli attacchi di Hamas, è la seconda volta che le autorità israeliane hanno permesso la revoca del blocco. Una misura, però, giudicata troppo timida e quasi inutile dagli organismi che operano nella zona. Una quarantina di camion di alimenti, «non sono sufficienti», lamenta Christofer Gunness, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati della Palestina (Unrwa).
«Come animali in gabbia». Così si descrivono gli abitanti della Striscia di Gaza: senza corrente elettrica, senza scorte alimentari, senza latte per i propri figli. Voci da Gaza. Racconti disperati. Richieste di aiuto che non devono cadere nel vuoto. «Non ne possiamo più, mi sembra di essere un animale in gabbia», afferma Khalil Barakat, 50 anni, che vive nella colonia di Al Shati. «Ho paura per la vita di mio figlio, ha solo 11 mesi», riferisce Intizar, una giovane mamma, «siamo senza corrente elettrica e giro tutto il giorno per trovare del cibo per il mio bambino. Sono stata in alcuni negozi e non ho trovato nulla, tutto deserto». La donna racconta che è diventato impossibile trovare alcuni prodotti «come il latte, la carne, i pannolini...».
LA TESTIMONIANZA DI AMIRA
A Gaza è tornata anche Amira Hass, corrispondente del quotidiano israeliano «Haaretz» nei Territori. Amira aveva vissuto a Gaza negli anni Novanta. «In primo luogo mi ha colpito la miseria», dice la reporter. «Rispetto al passato - annota Amira Hass - la povertà mi fa impressione». «Le misure che aggravano le sofferenze della popolazione civile della Striscia di Gaza sono inaccettabili e devono cessare immediatamente», dichiara sottosegretario generale dell’Onu John Holmes.
GAZA O HAMASLAND?
Assediati da Israele, il milione e mezzo di palestinesi della Striscia fanno i conti con le conseguenze, disastrose, della resa dei conti armata tra Hamas e Al Fatah. È l’altra faccia della tragedia palestinese: quella di uno scontro politico-militare che non ha fine. Da Ramallah, parla il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Il rais insiste sulla necessità di difendere la unità del popolo palestinese di fronte ai «golpisti di Gaza», cioè Hamas. Se costoro pensano di poter decidere per il popolo intero, esclama con foga, «si illudono,si illudono, si illudono». Dopo aver espugnato con la forza (nel giugno 2007) comandi centrali, commissariati e campi profughi essi vorrebbero ora «creare un regime separatista nella nostra amata Gaza» lamenta Abu Mazen.
«È lui il golpista, succube di Israele», ribatte Mahmud al Zahar, leader dei «duri» di Hamas.

lunedì 17 novembre 2008

Scontro Londra-Israele sui prodotti dei coloni. Gli inglesi vogliono etichettarli come «illegali»

Corriere della Sera 16.11.08
Scontro Londra-Israele sui prodotti dei coloni. Gli inglesi vogliono etichettarli come «illegali»
E' già pronta una campagna pubblicitaria simile a quella contro l'apartheid del Sudafrica bianco
di Francesco Battistini

GERUSALEMME — Barzelletta del mercato: «Le olive più economiche le trovi il venerdì pomeriggio a Mahane Yehuda, alle bancarelle degli ebrei; le più buone, il sabato mattina alla Porta di Damasco, alle bancarelle degli arabi; le più ammaccate, tutto l'anno nei supermarket di mezza Europa». Ammaccate. Perché sono le olive dei Territori. Raccolte a suon di botte fra coloni israeliani e contadini palestinesi. I primi impegnati da settimane, e senza complimenti, a impedire il lavoro dei secondi. Queste olive, come gran parte della frutta e della verdura della Cisgiordania, sono fra le poche fonti di guadagno dei palestinesi. Da anni, finiscono sui banconi inglesi, tedeschi, francesi con l'etichetta «prodotto nella West Bank» e l'indicazione della località. Ora qualcuno, nello specifico il governo di Londra, pensa che l'etichetta non basti più. E quelle ammaccature vadano spiegate meglio, distinguendo i «veri » prodotti palestinesi da quelli degl'insediamenti israeliani. E in quest'ultimo caso, informare i consumatori con scritte politicamente più corrette. Tipo: «Attenzione, il prodotto viene da territori occupati illegalmente da Israele ».
C'è poco da ridere. La guerra delle olive e delle etichette sta inacidendo i rapporti fra governi. Qualche giorno fa Tzipi Livni, la ministra degli Esteri, ha chiesto chiarimenti, perché l'idea di marcare l'ortofrutta degli insediamenti avrebbe incontrato il favore del premier in persona, Gordon Brown, e a Londra si sta studiando una legge con le ong, le associazioni dei commercianti e dei consumatori, tutti d'accordo nel boicottare i prodotti «made in the settlements». E' già pronta una campagna pubblicitaria, simile a quella contro l'apartheid, quando l'opinione pubblica inglese veniva diffidata dall'acquistare esportazioni del Sudafrica bianco. «L'iniziativa è un serio e concreto problema nelle relazioni fra i due Paesi — dice un diplomatico israeliano a Haaretz — e può determinare anche una crisi».
Ron Prosor, ambasciatore negli Stati Uniti, ha approfittato d'un incontro col ministro degli Esteri inglese, David Miliband, per protestare: etichettare in quel modo la produzione agricola dei coloni equivale a un boicottaggio contro Israele e un tentativo d'influenzarne la politica. «Per ora siamo solo a una proposta della sinistra inglese — si giustifica una fonte diplomatica britannica — ed è comunque una misura di maggiore trasparenza che può tornare utile anche al governo israeliano». La posizione di Downing Street è precisa: l'Onu e la Ue hanno stabilito che gli insediamenti sono illegali, le importazioni da Israele godono dal 2000 di dazii privilegiati, ergo i nostri consumatori non possono accettare che i loro soldi vadano a legittimare l'occupazione dei Territori.
L'etichetta sarebbe qualcosa di più d'un regime fiscale differenziato. «E perché non hanno mai messo quella scritta sulle importazioni da tutti i Paesi che non rispettano le risoluzioni Onu?», protestano i diplomatici israeliani: «E' stato Ehud Olmert, nel 2005 ministro del Commercio, a introdurre sui prodotti dalla Cisgiordania l'obbligo d'indicare città, villaggio, zona industriale».
Non basta, replicano gli inglesi: la semplice scritta «prodotto a Masua» o a Netiv Hagdid non spiega con esattezza che quella verdura, quel frutto vengono da un insediamento illegale. E Londra, come gran parte della comunità internazionale, è convinta che non si stia facendo più nulla per smantellare le colonie, nonostante Shimon Peres abbia condannato la settimana scorsa le aggressioni ai palestinesi nella raccolta delle olive e il governo israeliano, due settimane fa, abbia minacciato la mano pesante coi coloni. «Abbiamo sopportato la guerra delle rose, non ci spaventa quella degli ortaggi », è l'ironia british.
Anche perché le olive sono solo l'antipasto. Altre, le questioni aperte fra i due Paesi: dalle pesanti accuse di crimini di guerra al ministro Shaul Mofaz, rimbalzate qualche mese fa, al discusso ruolo di Tony Blair inviato nel Medio Oriente. Pochi giorni, e Miliband arriva a Gerusalemme. Tzipi l'aspetta. Spremi spremi, qualcosa uscirà.

venerdì 14 novembre 2008

Usa, ne uccide più l’overdose di farmaci che di droghe

l’Unità 13.11.08
Usa, ne uccide più l’overdose di farmaci che di droghe
di Roberto Rezzo

Ne uccide più la ricetta dello spacciatore di strada. Uno studio appena pubblicato rivela che le morti per abuso di medicinali venduti in farmacia hanno superato alla grande quelle dovute a droghe illegali.
Secondo uno studio della Medical Examiner Commission della Florida dall'analisi di 168.900 autopsie risulta che le specialità che agiscono sul sistema nervoso centrale - regolarmente registrate a prontuario - hanno provocato tre volte il numero dei decessi causati da cocaina, eroina e anfetamine messe insieme. «L'abuso ha raggiunto proporzioni epidemiche - assicura Lisa McElhaney, sergente di polizia specializzata nel settore - È come un'esplosione».
Nel 2007, l'abuso di cocaina ha provocato 843 decessi, quello di eroina 121, anfetamine 25, zero per marijuana, per un totale di 989 morti. Nello stesso periodo 2.328 persone sono state uccise da antidolorifici come Vicodin e Oxycontin e 743 da ansiolitici come Valium e Xanax, per un totale di 3.071 morti. L'alcol risulta essere stata la causa di morte in 466 casi, ma la sua presenza è stata identificata in 4.179 cadaveri. E mentre rispetto al 2006 le morti per eroina sono aumentate del 14%, quelle per antidolorifici venduti in farmacia hanno registrato un balzo del 36 per cento.
La Florida è considerata all'avanguardia nelle statistiche sulle morti per droga. Il boom edilizio di Miami all'inizio degli anni '80 è stato finanziato dal narcotraffico. Facendo guadagnare alla città il soprannome di Regina della coca. Dal suo porto transita la maggior parte delle 300 tonnellate di coca che - secondo le ultime stime Onu - vengono utilizzate ogni anno negli Usa. Circa la metà dell'intero consumo mondiale. Questo studio conferma i dati pubblicati in un precedente rapporto della Drug Enforcement Agency (Dea) a Washington. Negli ultimi sei anni il numero di persone che abusa di ansiolitici e antidolorifici è aumentato dell'80% raggiungendo i 7 milioni. Sono molti più di quelli che abusano di coca, eroina e anfetamine di contrabbando messi insieme. E secondo i dati pubblicati da Drug Abuse Warning Network, il numero di ricoveri per overdose da oppiacei semi sintetici come l'Oxycontin sono aumentati negli ultimi 10 anni del 153%, mentre quelli in seguito da assunzione eccessiva di metadone del 390%.
La tendenza dei medici a prescrivere liberamente farmaci che dovrebbero essere usati in casi eccezionali e per un periodo limitato di tempo si spiega almeno in parte con le pressioni esercitate dall'industria farmaceutica. Negli Stati Uniti tutte le sostanze prescrivibili possono essere pubblicizzate. La spesa promozionale per una singola specialità come l'Oxycontin è triplicata dal 1996 e il 2001, per stabilizzarsi attorno ai 30 milioni di dollari l'anno. Eddie Howard, farmacista di Sonora in California, senza bisogno di leggere nessun rapporto, si era accorto da un pezzo dell'aumento di questo tipo di ricette. E ammette di provare un certo disagio: «A volte ho l'impressione di essere diventato uno spacciatore a norma di legge».
Quanto all'idea che una sostanza acquistata in farmacia sia per forza più sicura - anche per sballare - si tratta di un mito da sfatare. Gli esperti spiegano che il problema sta proprio nella forma con cui viene commercializzato il principio attivo. In genere queste sostanze sono micro incapsulate in un involucro gastroresistente o miscelate ad altri ingredienti con un procedimento industriale per ritardarne l'assorbimento nell'organismo. E assicurare un'attività prolungata nel tempo che consente di ridurre il numero di pastiglie da inghiottire. Ma chi di queste sostanze fa un uso ricreativo, per ottenere subito l'effetto desiderato, deve assumere una dose eccessiva che finisce per rimanere in concentrazione stabile per un periodo sino a 24 ore. Rimanendo così vittima di una specie di overdose a catena.

martedì 11 novembre 2008

Casale, soldi per dimenticare i morti dell'amianto

Casale, soldi per dimenticare i morti dell'amianto

Liberazione del 11 novembre 2008, pag. 4

di Claudio Jampaglia
«Ce n'è di gente, eh...». Tanti come sempre. Stipati in una sala senza più ossigeno per parlare di un fantasma. Della morte. Dell'amianto. Di 1600 vittime accertate dal 1965 per asbestosi, tumore polmonare, mesotelioma pleurico. 1600 morti certe, moltissime ancora da catalogare e tanta gente che si ammala ogni anno, che ha paura. Oggi questa gente segnata da 50 anni di relazione con la fibra killer che dava lavoro, veniva regalata per isolare i tetti, per farsi i vialetti del giardino, deve decidere. Sulla bilancia c'è il processo più importante della storia delle vittime della fibra killer in Europa, da un lato, e il denaro, poco e dannato, che uno degli uomini sul banco degli accusati ha proposto per i lavoratori della sua ex-fabbrica l'Eternit, dall'altro.
Valeria ha 22 anni, la settimana scorsa si è laureata. Era contenta ma non ha potuto condividere con chi avrebbe più voluto la sua gioia. Suo padre. Di cui non ha ricordi. Solo una gigantografia in camera. Papà è morto a 33 anni. Di mesotelioma, quando ancora quella parola non era nelle teste di tutti. Quando Valeria è nata l'Eternit chiudeva. E oggi la polvere della fabbrica non riempie più l'aria. E' stata abbattuta. Ma Casale è costretta a confrontarsi tutti i giorni col suo fantasma. Perché l'amianto è un killer a tempo. Implacabile e casuale. Incubazione: 20-40 anni. Decorso: sei-otto mesi. Esito unico: morte. Un tumore maledetto. Non si è ancora salvato nessuno. Cure non ce ne sono. "Malattia professionale", si ammala solo chi ha respirato la fibra killer, riguardava troppe poche persone per investirci. Ma da anni un malato su quattro è un cittadino e basta. E'chi ha vissuto in mezzo all'aria, alla polvere. Le stime di Medicina Democratica parlano di 4mila morti all'anno per malattie legate all'esposizione. E la curva epidemiologica raggiungerà il suo apice nel 2025.
Il salone ribolle come una pentola di fagioli. Si discute. Scettici. Non c'è una famiglia a Casale che non abbia una vittima. «Non cediamo all'illusione, è una fregatura. Dobbiamo avere ancora poca pazienza», dice un altro. «E poi io che ho l'asbestosi - dice un signore sulla sessantina - se adesso prendo i soldi e domani mi ammalo di mesotelioma non posso più rivendicare nulla». Ha ragione. Purtroppo. Ma l'offerta del signor amianto, Stephan Schmidheiny (miliardario, vive in Costa Rica ed è un noto esperto di sostenibilità ambientale e non è un'ironia), è fatta così. «Un'offerta unilaterale che loro definiscono "filantropica"», spiega Bruno Pesce, il capostipite di questa gente testarda. Già segretario della Cgil locale e animatore da 26 anni con Nicola Pondarno e Romana Blasotti dell'Associazione famiglie esposti amianto. «All'inizio ci aveva proposto una transazione collettiva», ricorda Pesce. Ma nel gennaio scorso, dopo aver messo sul tavolo 75 milioni di euro è arrivato il conto ai casalesi: rinunciare collettivamente a qualsiasi pretesa legale in ogni grado e luogo. L'assemblea cittadina la definì «una provocazione». Anche perché loro con le cause sono riusciti in 25 anni a portare il tema alla ribalta. A riconoscere l'esposizione, la morte, a risarcire 1711 ex lavoratori e loro familiari (con pene dai 6 mesi ai tre anni per i vertici aziendali e un risarcimento di 7 miliardi di lire). E adesso in ballo c'è molto di più.
Dal 2001 la procura di Torino si interessa alle vittime Eternit grazie a oltre 2mila richieste di risarcimento. Il procuratore si chiama Raffaele Guariniello e ha chiesto il rinvio a giudizio per Schmidheiny e il precedente azionista di controllo (un barone belga da sempre socio della famiglia) per disastro doloso e inosservanza volontaria delle misure di sicurezza, con l'aggravante della morte. Profondo penale. Al rinvio a processo manca ancora un po'. Il giudice deve avvisare le quasi 3mila parti lese. E allora la difesa passa all'attacco. Via comunicato stampa. Fino a 60mila euro ai lavoratori Eternit (e solo a loro) in fabbrica dal 1973 (anno dal quale Schmidheiny si assume evidentemente la responsabilità della direzione aziendale). Il massimo per un morto, in proporzione per la "sola" malattia, la metà se lavorava anche prima del 1973 nell'azienda, il 20% se la vittima di tumore polmonare era un fumatore. Tutta la documentazione a carico di chi ci accetta i soldi. Radiografie, pirometrie, esami istologici compresi. Anche se molti morti del passato non potranno esibirli (non si facevano). In cambio cosa vuole Schmidheiny? Sempre lo stesso. Niente causa. Niente parte civile. Chiusa la vicenda.
E' il modo per separare le vittime. Poi che il signor Schmidheiny paghi davvero lo deciderà lui. E qui arriva l'ultima e più subdola polpetta avvelenata della storia. Perché Schmidheiny chiede che sia l'Associazione delle vittime a gestire con lui le pratiche di chi chiederebbe i soldi. Uno smacco. Che ha fatto sudare sangue freddo a Pesce, Pondrano, Blasotti e a tutta l'associazione. Di questo si è discusso ieri. Con tantissimi saluti e interventi istituzionali di sostegno, con la testimonianza dell'Associazione francese vittime amianto, i rappresentanti di altre vertenze italiane (Reggio Emilia, Bagnoli) e un lungo applauso con tutta la sala in piedi per lo striscione delle Rsu della Thyssenkrupp di Torino.
Parla il figlio di Niels Liedholm, trasferito qua 30 anni orsono col padre. Terra e vigne. Ha appena perso la moglie di mesotelioma. Non era una lavoratrice Eternit e dice: «Non accettate che dividano i lavoratori dai cittadini. Non cedete. Non è giusto». Le voci sono più o meno queste. Ma chi ha bisogno?
«Se qualcuno vuole aderire daremo la copertura legale», spiega Pesce. Sindacati e Associazioni si caricheramnno pure questa. E chi firma con lo svizzero, sarà chiamato a costituirsi almeno parte civile con il barone belga. La tutela per l'associazione è di tutti. Comunque. Sergio Bonetto, da vent'anni avvocato dell'associazione lo dice calorosamente «non intendiamo fermarci finché ci sarà la possibilità di fare qualcosa, per la giustizia e per i risarcimenti». E adesso ci siamo quasi. «Siete liberi di decidere ciò che meglio sentite. Ma siamo arrivati qua solo grazie al lavoro dell'associazione. Facciamo in modo di non disunirci, di lavorare con l'associazione». La proposta crea confusione. Divide. Ma se qualcuno vuole accettarla individualmente avvocati e associazione sono lì. Ora è il momento delle scelte collettive. Si vota per alzata di mano: non aderiamo alla loro richiesta di cogestire le domande di risarcimento. Unanimità. Impegno a mantenere rapporto con sindacati e associazioni nelle decisioni.Unanimità.
Si accendono le fiaccole. Ci si incolonna, i bambini, i nonni, in un fiume di gente. Un marcia silenziosa, con gli striscioni che dicono "Eternit, fermiamo la strage" e "Giustizia, ricerca, bonifica". Sono i tre obiettivi della lotta. Uniti si è vinta la bonifica, Casale è un esempio internazionale. Si è vinta l'apertura di un centro ricerca sul mesotelioma legato all'esperienza ventennale dell'ospedale locale. Da poco c'è anche una legge regionale - fortemente seguita e voluta da Alberto D'Ambrogio, consigliere Prc, casalese e vittima a sua volta (il padre) - che impone prevenzione, bonifica, registro degli esposti anche civili, finanziamenti per la ricerca. E per la giustizia? Si deve camminare ancora. Uniti.

giovedì 6 novembre 2008

«No all'asfalto sul sito archeologico di Puianello»

«No all'asfalto sul sito archeologico di Puianello»
La Gazzetta di Reggio 04/11/2008

QUATTRO CASTELLA. I ritrovamenti archeologici a Puianello, che rischiano di essere «asfaltati» dalla nuova variante alla statale 63, stanno sollevando reazioni a dir poco indignate. Il Polo civico (Forza Italia-Alleanza nazionale) parla di amministrazione comunale «superficiale e pressapochista»; puntano il dito contro gli «inquilini» del municipio anche Legambiente e gli Amici della Terra. «Non possiamo credere - dicono Legambiente Val d’Enza e Amici della Terra in un comunicato congiunto - che possa ritenersi autorizzabile il passaggio della tangenziale su un sito di duemila anni fa, particolarmente importante e significativo per la sua estensione e per le potenzialità che lo stesso puà riservare se solo si volessero approfondire gli studi e anche gli scavi archeologici». Insomma, dito abbassato per un progetto che sembra un nuovo schiaffo al territorio e alla cultura. Se arriverà l’autorizzazione, insistono gli oppositori, vorrà dire che «la salvaguardia dell’asfalto e degli interessi economici» vince su tutto, compresa la nostra storia. Legambiente e Amici della Terra tirano in ballo il codice dei beni culturali (legge nazionale) che prevede «che intorno a scavi archeologici venga posta un’area di tutela indiretta per preservare il contesto in cui il sito archeologico è inserito» però «nella nostra provincia che si fa? Si mette sopra una strada che annienterà tutto, il ricordo, la storia, il valore culturale che dovrebbero invece essere salvaguardati perchè patrimonio collettivo». E giù un’altra bordata: e tutto questo succede mentre in altre sedi si fa un gran parlare di nuove opportunità turistiche, cultura del paesaggio. E così «è incredibile apprendere che alcune modifiche al tracciato si faranno, ma solo per rispondere a dei problei evidenziati da alcuni residenti, che a questo punto sono da ritenersi i veri soggetti della tutela, perchè al contrario la nostra storia millenaria può essere cementificata che tanto a nessuno interessa». Altra bordata contro gli amministratori pubblici: «E come la mettiamo con “la Bella Provincia” e con la tutela del paesaggio e con la promozione dl turismo? E si badi bene che per “scostare” la strada dal sito millenario. esistono le più ampie possibilità di variare il tracciato, perché siamo in piena campagna». Quindi la stoccata finale: «Ci auguriamo - conclude la nota - che il sindaco Beggi e la Provincia si attivino perché dagli “slogan” si passi ai fatti, perché alle belle parole (che non costano nulla) seguano i comportamenti che comportano lavoro, impegno, voglia di realizzare qualcosa di davvero concreto, passando finalmente ai fatti dal vuoto dei proclami.) e facciano quanto è per loro sicuramente possibile, vale a dire tutelare la nostra storia». Di certo la storia non finisce qui.