lunedì 27 aprile 2009

Il momento d'oro delle "rinnovabili"

Il momento d'oro delle "rinnovabili"

La Repubblica - Affari e Finanza del 27 aprile 2009, pag. 41

Antonio Cianciullo

Alternative o rinnovabili? Pulite o a basso impatto ambientale? O forse sostenibili? Per le fonti chiamate a sostituire i combustibili fossili gli aggettivi si accavallano in maniera alle volte confusa. E, visto che ormai il conto alla rovescia per mandare in pensione la famiglia del petrolio è scattato, vale la pena provare a chiarire i termini della questione. Cominciamo dalla sostenibilità, un concetto non sempre chiaro perché non sempre chiaro è ciò che si vuole sostenere e a che prezzo. La traduzione francese, durable, dà forse meglio l`idea centrale: qualcosa che deve resistere nel tempo, che va pensata e organizzata per non esaurirsi nell`attimo breve di una fase industriale, ma che al contrario sia capace di garantire all`intera società sicurezza, affidabilità e comfort. E ancora: pulite o a basso impatto ambientale? In realtà nessuna attività umana organizzata è a impatto zero. Ad esempio si dice che il nucleare non comporta emissione di gas serra, ma non è così. In effetti nessuna fonte energetica ha zero emissioni in senso assoluto in quanto la costruzione delle infrastrutture, il funzionamento, la produzione del combustibile (che nel caso delle rinnovabili non c`è) e lo smantellamento prevedono l`uso di combustibili fossili e dunque le emissioni di CO2. In particolare l`estrazione del minerale e la fabbricazione del combustibile sono le voci che maggiormente incidono nelle emissioni di CO2. «Si tratta di un elemento importante perché le riserve di uranio utilizzate saranno sempre più energivore man mano che si useranno minerali a minore percentuale di uranio spiega Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia - Se produrre un chilowattora a gas naturale nel caso migliore comporta l`emissione di circa 350 grammi di anidride carbonica e una centrale a carbone di nuovo tipo circa 760 grammi, i vecchi impianti tipo il Sulcis 1000 grammi, il nucleare comporta una media di circa66grammi diC02. Meno ma non proprio zero. Per il fotovoltaico una recente indagine dà un valore medio di 40 g CO2 per chilowattora, mentre con l`eolico si scende a 5-9 grammi per chilowattora prodotto». Dunque l`impatto zero non esiste ma le differenze restano molto alte. Così come evidente è la differenza tra le fonti alternative ai combustibili fossili e quelle rinnovabili. Tra le alternative va incluso il nucleare che ha un ciclo di vita legato a un elemento, l`uranio, che ha scorte limitate (solo nel caso dei reattori autofertilizzanti, al plutonio, si supererebbe questo vincolo, ma quasi ovunque i rischi legati a questa tecnologia vengono considerati eccessivi). Mentre le rinnovabili sono in grado di rigenerare costantemente il loro potenziale energetico. L`Europa ha scelto di provare a lanciare l`intero pacchetto delle fonti alternative, ma finora i costi economici e ambientali (l`irrisolto problema delle scorie, la minaccia terroristica, il rischio di incidenti di portata potenzialmente catastrofica) legati alla scelta nucleare hanno fatto sì che un trend di crescita velocissimo abbia premiato le rinnovabili. «Prendiamo due paesi, la Spagna e la Germania: negli ultimi anni le rinnovabili hanno dato un contributo pari a 25 centrali nucleari e la crescita continua a un ritmo alto, l`equivalente di alcune centrali nucleari all`anno», ha osservato Pietro Perlo, direttore e senior scientist del Centro ricerche Fiat, al Solar Revolution Summit che si è tenuto a Roma nei giorni scorsi. A fine 2008, ha aggiunto Wolfgang Palz, presidente del World Council for Renewable Energy, l`eolico era arrivato a 120 gigawattora, di cui 25 installati nel 2008: una potenza 40 volte superiore della nuova potenza nucleare installata a partire dal 2005. La corsa delle rinnovabili è trainata da alcuni paesi leader ma tende a diffondersi. Ed è sorprendente misurare la capacità di crescita anche in presenza di scelte governative poco favorevoli: negli Usa, nell`ultimo anno della presidenza Bush, il 2008, sono stati installati 8,3 gigawatt di eolico. Rilevante anche l`espansione del fotovoltaico: confrontando i diagrammi di crescita si nota come stime considerate da molti osservatori eccessivamente ottimiste sono state regolarmente battute dal mercato aumentato a un tasso più veloce delle stime. Nel 2008 il fotovoltaico è arrivato globalmente a quota 15 gigawatt, di cui oltre un terzo installati nel corso dell`anno. Come nota Assolterm, l`associazione italiana del solare termico, anche l`altra faccia del solare, i pannelli per fornire acqua calda agli edifici, ha di fronte un`enorme crescita potenziale. Nel mondo oggi ci sono 300 milioni di persone che dispongono di questi pannelli solari, che assicurano una resa economica certa ormai da anni: se si diffondessero diventando comuni come un qualsiasi elettrodomestico si potrebbe creare un mercato molto più ampio di quello esistente sia nei paesi industrializzati che in quelli poveri dove ampie aree non sono servite dalla rete elettrica. Complessivamente, secondo i calcoli di Palz, il business delle rinnovabili ha raggiunto nel 2008 il valore di 214 miliardi di dollari: 45 di colico, 35 di solare fotovoltaico, 10 di solare termico, 30 di idroelettrico di piccola taglia, 3 di geotermico, 91 di biomasse (dal biogas ai combustibili per trasporto). In Italia, nonostante le incertezze che riguardano le politiche di incentivo, alla fine del 2008 si è arrivati a 3,7 gigawatt di eolico (terzo posto in Europa), pari a 63 chilowattora per mille abitanti (undicesimo posto in Europa), con una crescita nel 2008 pari a 1 gigawatt (terzo posto in Europa, sesto nel mondo). Ma oltre all`Europa ormai i paesi in prima fila nel campo delle rinnovabili sono molti. Agli Stati Uniti di Obama e al Giappone, tradizionale leader nel campo del solare, si è aggiunta la Cina che conta la maggiore industria mondiale nel campo del fotovoltaico, ha il record di solare termico e il più alto tasso di crescita dell`eolico.

domenica 26 aprile 2009

Spunti islamici anticrisi nei forzieri di Dubai

il Riformista 26.4.09
Spunti islamici anticrisi nei forzieri di Dubai
di Stefano Feltri

SOLUZIONI. Dal crollo delle torri al crollo di Wall Street: le due crisi sono legate. E forse la finanza di Allah può aiutare a superare entrambe.
Loretta Napoleoni. Economista, vive a Londra.

E se fosse tutto collegato? Se l'undici settembre 2001 (crollano le torri gemelle) e il 15 settembre 2008 (crolla la banca d'affari Lehman Brothers), cioè le due catastrofi che hanno segnato il nuovo millennio fossero legate? Sembrano domande da teoria del complotto. Se le pone Loretta Napoleoni, nel suo ultimo libro appena uscito, "La morsa" (Chiarelettere, 186 pp., 13,60 euro). Economista, specializzata prima in finanza e poi, con un dottorato, in terrorismo e con una carriera da analista e consulente sui loro legami, editorialista del Guardian, di Internazionale e di una decina di altre testate, la Napoleoni sostiene che Al Quaeda e i salvataggi pubblici delle banche al collasso siano parte della stessa storia.
Quando Lyndon Johnson decise di aumentare lo sforzo in Vietnam ricorse alla leva fiscale. Cioè aumentò le tasse. George Bush si è affidato invece alle azioni del presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, che tagliava i tassi di interesse ogni volta che la Borsa ne aveva bisogno, consentendo al dollaro di restare debole, esportando inflazione ma favorendo il boom del credito e dei consumi da esso finanziati negli Stati Uniti. «Dopo l'undici settembre la politica dei tassi bassi fa comodo anche e soprattutto al governo americano che nel giro di due anni si trova invischiato in due guerre [...] rende i buoni del Tesoro più competitivi rispetto a quelli dell'industria privata. La politica deflazionista di Greenspan, dunque, finanzia prima il benessere illusorio della globalizzazione e poi la guerra contro il terrorismo. Ecco spiegata l'origine della crisi del credito», scrive la Napoleoni.
Le mosse successive degli Stati Uniti nella psicosi terroristica del 2001 hanno ricadute finanziarie. Dopo la notizia che quindici dirottatori su diciannove vengono dall'Arabia Saudita, gli investitori sauditi in America cominciano a temere ripercussioni e il blocco dei capitali: un fiume di 700 miliardi di dollari esce dagli Stati Uniti nei mesi dopo il crollo delle torri. Soldi che verranno reinvestiti altrove e in parte andranno anche a finanziare il terrorismo visto che la legge che, tra l'altro, doveva bloccare i flussi illegali di denaro, il Patriot Act, intercetta soltanto 200 milioni. Per capire dove finiscono tutti quei capitali basta vedere Dubai, una delle capitali degli Emirati arabi uniti: invasa dai petrodollari che prima finivano a Wall Street, nella città-stato si gonfia una bolla immobiliare che ora è appena scoppiata, un boom finanziario che porta nel 2005 alla creazione di un Nasdaq (uno dei due indici più famosi della Borsa di New York) anche sul listino di Dubai, e consente ai fondi sovrani controllati dalla famiglia regnante di diventare delle potenze finanziarie capaci di condizionare anche le Borse occidentali investendo parte delle proprie risorse proprio là da dove erano fuggite, nel capitale delle grandi banche al collasso come Citigroup o Merrill Lynch. Investimenti che si sono poi rivelati disastrosi, perché il valore dei titoli di quelle società ha continuato a scendere, spesso fin quasi ad azzerarsi. Una parte del denaro che arriva negli Emirati arabi e negli altri paradisi fiscali della regione contribuisce al decollo della finanza islamica a cui ora - secondo la Napoleoni - anche la finanza occidentale dovrebbe ispirarsi per cambiare e diventare più solida dopo la crisi.
«Finora il modello di successo a Wall Street è stata Goldman Sachs, una banca d'affari che funziona come una setta, dove è fortissimo l'elemento tribale dell'appartenenza. Lehman Brothers invece era un'organizzazione meno rigida, più aziendale. Ed è fallita. Il Governo americano ha deciso di non salvarla, e sicuramente nella scelta ha pesato molto il fatto che il segretario al Tesoro fosse Henry Paulson, che è il vero artefice della moderna Goldman, storica rivale di Lehman», dice la Napoleoni davanti a una spremuta d'arancia, in un bar dei Parioli, a Roma, parlando con il Riformista. E ancora: «Goldman ha convinto altre istituzioni come il gruppo assicurativo Aig a investire in strumenti speculativi come i credit default swap, si è comportata come un hedge fund e poi, quando è andata in crisi, è stata subito aiutata dallo Stato con prestiti che ora sta per restituire, sostituendoli con obbligazioni vendute ai privati ma garantite dallo stato, con il risultato che ancora una volta così si nasconde il rischio e si scaricano gli oneri sui contribuenti». Loretta Napoleoni, nella sua prima vita professionale, ha lavorato nella finanza, per le banche d'affari, se si fosse laureata quindici anni dopo forse si sarebbe trovata a progettare derivati. Non ha niente di personale contro Goldman, ma è il simbolo di una finanza che si è gonfiata alimentandosi di prodotti di cui non capiva la natura («Ha ragione Giulio Tremonti, certi derivati andrebbero vietati»), illudendosi che il rischio fosse svanito e che nessuno si sarebbe fatto carico delle eventuali perdite che in casi rari ma non impossibili, come si è visto, erano potenzialmente catastrofiche: «Tutto questo con la finanza islamica non sarebbe successo».
Tra il 2001 e il 2006 i titoli islamici commerciati nel mercato secondario, cioè scambiati tra investitori che ne determinano un prezzo secondo logiche di domanda e offerta, passa da quasi zero a oltre 45 miliardi di dollari, stima l'agenzia di rating Moody's. L'insieme di pratiche, transazioni e contratti finanziari conformi alla shari'a, la legge coranica, cresce di almeno il 10 per cento all'anno, anche se nell'insieme continuano a valere meno dell'uno per cento del totale. Nel volume "Economia e finanza islamica" (il Mulino, 146 pp., 8,80 euro), l'economista Rony Hamaui e Marco Mauri, banchiere attivo nel settore, raccontano l'ascesa della finanza di Allah che dal 1963, quando è nata la prima banca islamica moderna in Egitto, al 2001 è rimasta in letargo. I capitali rimpatriati dopo la grande fuga dai mercati occidentali diventano il carburante per stimolare l'evoluzione di un sistema finanziario in cui il tasso di interesse all'occidentale (remunerazione del rischio di credito e compensazione del costo di privarsi del capitale investito per il tempo del prestito) non esiste. Il principio è quello della condivisione dei profitti: i soldi non si depositano su un conto corrente, ma si investono in una banca che li farà girare, e il depositante verrà remunerato con gli eventuali utili e soffrirà le perdite. Controindicazione: i costi di monitoraggio salgono, il risparmiatore dovrà vigilare sempre sulle scelte della banca per controllare che non sprechi i sui soldi, mentre quello occidentale deve solo aspettare di ricevere gli interessi (in teoria: abbiamo visto in questa crisi che non è affatto così semplice). La politica monetaria non ha quindi il potere di gonfiare le bolle con tassi troppo bassi o di scoppiarle alzandoli per contenere l'inflazione e l'economia islamica è (almeno nei modelli degli economisti, nella realtà sussidi e tasse introducono distorsioni) priva di quei cicli che, come ha spiegato Charles Kindleberger, fanno oscillare il sistema finanziario occidentale tra grandi sviluppo e recessioni sanguinose.
Visto che tutto si fonda sull'investimento diretto, nella finanza islamica non si rischia di eccedere con la leva finanziaria, non si cade nella tentazione dei leveraged buyout, fusioni e acquisizioni fatte con soldi altrui, perché il rischio è sempre condiviso e non si può impacchettarlo e rivenderlo fino a diluirlo in tutto in sistema come si è fatto negli Stati Uniti. Scrivono Hamaui e Mauri che, a differenza del risparmiatore occidentale che vuole essere adeguatamente remunerato per rimandare nel tempo il consumo, «il buon musulmano vuole massimizzare il suo benessere non solo su questa terra, ma anche nell'aldilà, comportandosi secondo i dettami di Allah». L'orizzonte è talmente lungo che il consumatore islamico non si indebita per comprare oggi ciò che non può permettersi, e infatti il credito al consumo conforme alla shari'a praticamente non esiste. I capitali arrivati nel Golfo negli ultimi anni hanno stimolato i banchieri di Allah a sviluppare complessi contratti che rispettino questa lista di principi offrendo rendimenti concorrenziali rispetto ai prodotti tradizionali. C'è un problema: i prodotti finanziari islamici non sono standaridizzati, perché ognuno deve ottenere l'approvazione di un consiglio di saggi che ne verifica il rispetto delle norme coraniche, quindi è difficile confrontarli e fissarne il giusto prezzo (stesso problema per i derivati invendibili che languono nei bilanci delle banche tradizionali). «É questo il punto di forza del sistema islamico: esiste un controllo etico di tutti i prodotti», dice Loretta Napoleoni. Nonostante i tentativi di organismi come l'Accounting and Auditing Organisation for Islamic Financial Institutions in Bahrein o l'International Financial Service Board (Malesia), il settore resta molto frammentato.
Orizzonte di lungo periodo, controllo etico delle remunerazioni dei manager e degli strumenti finanziari, emancipazione dalle oscillazioni del ciclo economico, maggiore evidenza al rischio e più responsabilità sia per chi finanzia che per chi è finanziato: le ricette proposte ai vertici internazionali, a partire dal G20, assomigliano già molto ai principi fondanti della finanza islamica.

venerdì 24 aprile 2009

Puglia: Ulivi secolari, legge antipredoni. Multe sino a 250mila euro per i ladri di alberì monumentali

Puglia: Ulivi secolari, legge antipredoni. Multe sino a 250mila euro per i ladri di alberì monumentali
GIULIANO FOSCHINI
19/07/2006, La Repubblica, Bari

SINO a trentamila euro per il danneggiamento o l'esproprio di ciascun albero. Duecentocinquantamila per l'espianto di un uliveto. Dovranno pagare tanto tra qualche mese i predoni della Puglia, coloro che espiantano gli ulivi secolari per rivenderli al nord. È pronto infatti la nuova legge regionale per "La tutela e la valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali della Puglia": l'assessore all'Ambiente, Michele Losappio, presenterà oggi il disegno (a breve l'approvazione in giunta) dopo un lungo periodo di concertazione con gli agricoltori e le associazioni ambientaliste. Le finalità della legge — si legge al primo punto — «è quella di tutelare e valorizzare gli alberi di ulivo monumentali, anche isolati, in virtù della loro fun-zione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica». Per questo è vietato «il danneggiamento, l'abbattimento, l'espianto e il commercio degli ulivi monumentali». Il carattere di monumentalità verrà riconosciuto alla pianta se ha un tronco superiore a un metro e l'altezza di almeno di un metro e trenta. Caso a sé fanno gli alberi «con una forma scultorea del tronco con conseguente notevole valore estetico-paesaggistico». Il carattere di monumentalità potrà attribuirsi «soltanto agli uliveti che presentano una percentuale minima del 60 per cento di piante monumentali». A vigilare ci sarà una commissione tecnica: toccherà a loro formulare pareri sulla metodologia di rilevazione, ed esprimere parere obbligatorio e vincolante sull'abbattimento e spostamento degli alberi. L'elenco degli ulivi dovrà essere predisposto dalla giunta entro 180 giorni dall'entrata in vigore della legge. Saranno distribuite schede per la raccolta dati e informazioni dettagliate sugli alberi: singoli cittadini, associazioni, organizzazioni ed enti pubblici potranno comunque segnalare l'esistenza di ulivi e uliveti monumentali.
Per compiere queste procedure ci vorrà però del tempo: sei mesi almeno. Questo passaggio della legge ha fatto storcere il naso ad alcune associazioni ambientaliste che pure hanno partecipato alla formazione del testo. La paura è che in questo periodo, in mancanza di sanzioni, i commercianti di ulivi diano un'accelerata brusca al business con conseguente distruzione del paesaggio. Rassicurazione a questi timori arrivano dall'articolo 15 del testo che prevede che «nel periodo intercorrente la pubblicazione della legge e l'ufficializzazione dell'elenco degli ulivi monumentali è vietato su tutto il territorio regionale il danneggiamento, l'abbattimento, l'espianto e il commercio». Non sono però chiare le sanzioni a cui saranno sottoposti chi contravviene alla legge: le multe, si legge nel testo, partiranno soltanto a partire dalla pubblicazione dell'elenco degli ulivi. E saranno salate: da un minimo di tremila euro a un massimo di trentamila per ogni pianta interessata, sino a un massimo di 250mila. Gli importi che arriveranno dalle sanzioni dovranno essere utilizzati per gli scopi di tutela e di valorizzazione previsti dalla legge: il lancio del marchio "Olio extravergine degli ulivi secolari" e un progetto di promozione turistica e agricola delle piante più antiche. A vigilare che la legge venga rispettata saranno il corpo forestale dello Stato, le Polizia provinciali, le guardie di Caccia e pesca e le guardie Ecologiche volontarie.

mercoledì 22 aprile 2009

Con la scusa della paura: distratti da Al Qaeda derubati da Wall Street

l’Unità 22.4.09
Il terrore e la crisi
Con la scusa della paura: distratti da Al Qaeda derubati da Wall Street
di Loretta Napoleoni

Esperta di terrorismo internazionale

Suicidio economico. Mettere in ginocchio l’economia Usa e quella mondiale è stata la follia della guerra al terrorismo

Terrorismo ed economia: ecco i temi più dibattuti degli ultimi anni. E se tra loro esistesse una relazione che va ben oltre le prime pagine dei giornali? Se la guerra contro il terrorismo, inaugurata da George W. Bush all’indomani dell’11 settembre, avesse in qualche modo contribuito alla crisi del credito? Si tratta d’interrogativi sconcertanti, che recentemente molti si pongono.
L’amministrazione Bush riceve da Bill Clinton un piccolo surplus e Barack Obama - che sale al potere nel mezzo della peggiore recessione del dopoguerra - eredita un debito pubblico di 10mila miliardi di dollari, pari al 70 per cento del Prodotto interno lordo americano, o meglio, al 18 per cento dell’economia mondiale. Dove sono finiti tutti quei soldi? Due guerre ancora in corso e un sistema di sicurezza ambiziosissimo, quanto inconsistente, prosciugano le finanze dello Stato e proiettano l’America tra i paesi con il debito pubblico più alto al mondo.
Tutto questo non sarebbe successo fino a vent’anni fa, quando i conflitti si pagavano con l’erario pubblico anziché con la politica dei bassi tassi d’interesse. Come dimenticare la storica decisione di Lyndon Johnson, negli anni Sessanta, di aumentare la pressione fiscale per far fronte agli alti costi della guerra nel Vietnam? Manovra necessaria e al tempo stesso profondamente impopolare. A nessuno, infatti, piace finanziare di tasca propria la macchina militare, anche se l’obiettivo è distruggere un super terrorista come Osama bin Laden o sbarazzarsi dell’arcidittatore Saddam Hussein. A chi si domanda perché queste guerre in Iraq e in Afghanistan, che sembrano interminabili, non abbiano suscitato un movimento d’opposizione simile a quello che pose fine a quella del Vietnam, si può rispondere che finché la spesa militare non tocca direttamente il nostro portafoglio o intacca la nostra libertà, costringendoci ad andare al fronte, i conflitti armati restano virtuali, vissuti esclusivamente attraverso il filtro dei media.
La paura del terrorismo. Neppure gli attentati terroristici a Madrid e a Londra, ambedue legati al conflitto iracheno, ci hanno fatto sentire quest’ultimo abbastanza vicino da coinvolgerci. Persino la minaccia del terrorismo, dunque, ci tocca solo di striscio, quando le immagini di sangue e morte fanno capolino sui nostri teleschermi o quando i politici le usano per spaventarci.
Dopo l’attentato di novembre 2008 a Mumbai, il ministro degli Esteri italiano dichiara che il vero pericolo non è l’economia ma il terrorismo. Giornali e telegiornali italiani rincarano la dose ricordando che sette connazionali sono intrappolati negli alberghi occupati dai terroristi. E l’Italia è presa nella morsa della paura del fondamentalismo islamico al punto da scambiare due mitomani marocchini per super terroristi. Il motivo è altrettanto ridicolo: inculcavano nei figli di due anni il culto di Osama bin Laden e sognavano di far esplodere con ordigni inesistenti un supermercato di periferia.
La paura del terrorista è uno strumento molto efficace per distrarre l’attenzione del cittadino occidentale dal caos economico degli ultimi vent’anni e dalla crisi che sta facendo sprofondare il capitalismo in una nuova Grande depressione. Tristemente, il legame tra eversione ed economia non è circoscritto a questa manipolazione: la guerra contro il terrorismo dei neoconservatori americani ha infatti contribuito alla crisi del credito. Come? Per rispondere rivisitiamone le fasi più salienti.
Il crollo del Muro di Berlino inaugura la politica del credito facile e a buon mercato. Alan Greenspan, a capo della Federal Reserve (Fed), ne è l’artefice. La deflazione agevola il processo di globalizzazione, o meglio, la colonizzazione del mondo da parte della finanza occidentale. Lo Stato retrocede dall’arena economica e lascia al mercato finanziario il compito di gestire il grosso dell’economia. E Alan Greenspan diventa più potente del presidente Clinton. È lui che tiene le fila dell’economia mondiale, la cui crescita sembra inarrestabile. Ogni qualvolta le crisi economiche bussano alla porta del villaggio globale - da quella del rublo fino alla minirecessione americana del 2000 - Greenspan taglia i tassi. Si tratta di una strategia folle perché, lungi dal risolvere i problemi strutturali della globalizzazione, posticipa lo scoppio della crisi aumentandone la portata. (...)
Gli anni Novanta e gran parte degli anni 2000 sono caratterizzati dall’abbondanza perché vissuti all’insegna del credito facile e a buon mercato; consumi, investimenti, tutto cresce e nessuno ha voglia di criticare uno Stato che ha creato tutta questa cuccagna. L’euforia nasconde però una realtà ben diversa: uno dei cardini del contratto sociale - secondo cui lo Stato deve rispondere ai cittadini di come gestisce il loro denaro - si sta incrinando.
Due guerre e molti debiti. Dopo il 2001 la politica dei tassi d’interesse bassi fa comodo al governo americano che nel giro di due anni si trova invischiato in due guerre che l’amministrazione aveva anticipato sarebbero state lampo e quindi a basso costo. In realtà, questi conflitti pesano gravemente sulla spesa pubblica.
L’indebitamento sul mercato finanziario attraverso la vendita dei buoni del tesoro permette di evitare l’impopolare manovra fiscale del presidente Johnson, e cioè aumentare le tasse agli americani. Ma la raccolta del denaro non è facile, lo Stato deve competere con il settore privato, ecco perché l’amministrazione Bush fa preme sulla Federal Reserve per mantenere oltremisura la politica dei tassi d’interesse bassi. Questa infatti rende i buoni del tesoro americani più competitivi rispetto a quelli dell’industria privata. Cina e Giappone diventano i maggiori sottoscrittori del debito pubblico statunitense. (...)
La politica deflazionista di Greenspan, dunque, finanzia prima il benessere illusorio della globalizzazione e poi la guerra contro il terrorismo. Ecco spiegata l’origine della crisi del credito. Ma se Greenspan crea la bolla durante gli anni Novanta, il finanziamento di due guerre dopo l’11 settembre prima la gonfia e poi la fa esplodere. L’abbattimento dei tassi, subito dopo la tragedia, innesca il perverso meccanismo dei mutui subprime e inflaziona i prezzi del mercato immobiliare in America e nel resto del mondo; dà vita, insomma, alla spirale dell’indebitamento delle banche. Le statistiche mostrano che dal 2001 al 2007 i prezzi degli immobili registrano, un po’ dovunque, una crescita eccezionale.
Chi paga questa follia. Naturalmente, a fare le spese di questa follia economica è la popolazione americana che per quindici anni è tenuta all’oscuro delle crisi del mercato globale e per altri sette ignora che Pechino e Tokyo finanziano le guerre “ideologiche” dei neoconservatori, mentre Washington accumula un debito pubblico da Paese in via di sviluppo. E sono ancora i cittadini americani che si sobbarcano tutto il debito delle banche: sebbene incrinato, il contratto sociale è ancora in piedi, e chi risponde degli errori dei politici è la popolazione. Così quando la bolla esplode, nel settembre 2008, e quando la recessione è alle porte all’inizio del 2009, per salvare le banche e mantenere in piedi due guerre, Washington usa i soldi dei contribuenti, quei pochi nell’erario pubblico e quelli ancora da raccogliere, pignora insomma la ricchezza delle future generazioni. Anche il contribuente del villaggio globale paga questi errori. Gli Stati Uniti sono la locomotiva economica del mondo, così la conflagrazione a Wall Street trascina l’intero pianeta nella crisi economica.

martedì 21 aprile 2009

La posta in gioco con i talebani. Il corpo delle donne

il Riformista 21.4.09
La posta in gioco con i talebani. Il corpo delle donne
di Ritanna Armeni

La legge era stata fatta per ottenere alle prossime elezioni presidenziali il voto degli sciiti ed era stata ben accolta anche dai talebani. Se vuol essere rieletto il presidente afghano non può non cedere alle loro richieste e accettare le loro violenze e le loro prevaricazioni.
La cronaca è ormai piena di donne uccise perché hanno tentato di ribellarsi al dominio maschile e familiare o perché volevano andare a scuola.
Ed è solo di ieri la notizia che i talebani hanno ammazzato in Pakistan, al confine con l'Afghanistan, un uomo e una donna colpevoli di avere una relazione fuori dal matrimonio. E poi hanno mandato il video a una televisione.
Ma non sono i singoli, seppur frequenti, episodi a destare la maggiore preoccupazione. Questi potrebbero essere i colpi di coda di forze che si stanno arrendendo alla democrazia o la reazione di piccoli gruppi che non vogliono accettare le nuove regole. Quello che davvero preoccupa è la evidente ripresa delle forze fondamentaliste e le conseguenti decisioni dei capi di Stato. Quella di Karzai, appunto, ma anche quella, recente, del presidente del Pakistan. Azif Ali Zardari, marito di Benazir Bhutto (prima donna premier di un Paese islamico) e successore di quel Musharaf accusato di aver mostrato un atteggiamento ambiguo nei confronti dei talebani pur mostrandosi amico degli Usa, ha promulgato un regolamento che reintroduce la sharia nella parte nord ovest del Pakistan. Asianews, uno dei pochi siti che informano in dettaglio sull'avvenimento, raccontava già un mese fa che la legge islamica era stata ripristinata nelle regioni che confinano con l'Afghanistan e che le corti islamiche avevano preso in mano l'amministrazione della giustizia nella Swat Valley. «Con l'entrata in vigore della sharia nel distretto di Malakand - scriveva Asianews - le donne non possono più muoversi da sole, parlare in pubblico e il velo diventa obbligatorio. Le scuole femminili, per lo più legate ai missionari, ma frequentate al 95 per cento da ragazze musulmane, rischiano la chiusura definitiva dopo gli attentati esplosivi negli ultimi mesi che, pur non causando vittime, hanno reso impossibile a circa mille studentesse di frequentare le lezioni». Il governo pakistano, insomma, ha preso atto e ha approvato una situazione che era già in mano ai fondamentalisti promulgando un regolamento che accetta lo stato di fatto. In cambio questi hanno promesso di deporre le armi. Probabilmente non sarà vero. La legge islamica invece - ha informato Asianews - c'è già. E - ricordiamolo - la legge islamica, secondo i fondamentalisti, significa che le donne saranno costrette al matrimonio anche se ancora bambine, alla pena di morte o al carcere se vengono stuprate, alla lapidazione se hanno rapporti fuori dal matrimonio.
Per due volte in pochi giorni le donne sono state oggetto di uno scambio politico. Per due volte due uomini, capi di Stato, hanno barattato voti e accordi in cambio di controllo e violenza da parte degli uomini sul corpo femminile. E questo porta a tre (amare) considerazioni.
La prima. Il corpo delle donne è la vera posta in gioco nella lotta contro i talebani, gli sciiti e il fondamentalismo. Adriano Sofri, già alcuni anni fa, aveva notato come questo, e non il petrolio, fosse il centro dello scontro fra l'islam e l'occidente. Gli islamici, gli islamici poveri e senza potere, aveva scritto, quelli che non avevano da perdere che le loro catene, potevano però - se avesse vinto l'occidente infedele - perdere le loro donne, la loro proprietà, l'unica di cui potevano disporre. E questo li rendeva particolarmente efferati e subalterni al terrorismo. Oggi proprio per rassicurarli e per combattere il terrorismo - questo l'orribile paradosso al quale stiamo assistendo con indifferenza - non si ha alcun dubbio a consegnare loro il dominio sulle donne. E a confermare che su di loro gli uomini mantengono il diritto di vita e di morte.
La seconda. I talebani, e con loro le forze tribali di quell'area del mondo che ha un rapporto conflittuale con l'occidente, hanno guadagnato terreno. Anzi stanno vincendo. La guerra in Afghanistan è stata persa sul piano militare e, prima ancora, sul piano della democrazia e dei diritti. Non se ne vuole prendere atto, ma che cosa significano le due leggi promulgate dal presidente pakistano e da quello afgano se non la presa d'atto che la guerra, la guerra delle armi è stata persa? È per questo che si accetta esattamente ciò per cui quella guerra era stata combattuta e a cui la lotta per la democrazia dovrebbe tenacemente opporsi: la schiavitù della popolazione femminile.
La terza. Di fronte all'evidente orribile scambio che avviene in quei Paesi alleati i Paesi occidentali protestano, ma in modo assai poco convinto. Naturalmente condannano la decisione di Zarcari, criticano Karzai ma in fin dei conti non ritengono di poter fare molto. Sembrano pensarla al fondo come Spencer P. Boyer, capo dello staff del presidente Clinton e oggi direttore della sezione diplomazia del Center for American progress, il pensatoio democratico americano che, in una intervista al Riformista sulla reintroduzione della sharia in Afghanistan ha risposto: «Nessun Paese è perfetto».
La condizione di totale subordinazione e schiavitù delle donne di quei Paesi è considerata da un esponente della democrazia occidentale solo "un'imperfezione", qualcosa di non perfettamente giusto, ma non di talmente insopportabile da mettere in discussione le scelte politiche e militari finora compiute. E questo certamente non aiuta le donne di quei Paesi e manda un inquietante messaggio anche alle donne dell'occidente che dice di essere democratico.

martedì 7 aprile 2009

«Su Internet tutta la verità su Tuvixeddu»

«Su Internet tutta la verità su Tuvixeddu»
ANTHONY MURONI
L'Unione Sarda 06/04/2009

Annunciata la pubblicazione su Internet delle migliaia di pagine («solo l’indice ne conta 150») di atti in possesso di Nuova Iniziative Coimpresa: «Affinché la gente che si vuole informare in maniera completa possa farsi un’idea attendibile». Gualtiero Cualbu non molla. Anzi è pronto a rilanciare. Carte e sentenze alla mano, il numero uno di Nuova Iniziative Coimpresa si ribella a chi vorrebbe che la politica continuasse a ostacolare il piano di riqualificazione dei colli di Tuvixeddu e Tuvumannu. E agli ambientalisti che ancora parlano di lotta per la salvaguardia e di rischio cementificazione ricorda che prima dell’accordo di programma «l’area di Tuvixeddu era un immondezzaio a cielo aperto, un luogo dove si spacciava la droga, si praticavano la prostituzione e l’abusivismo, venivano smontate e nascoste auto e moto rubate e i monumenti funebri della necropoli punica venivano saccheggiate dai tombaroli». Pratiche che sono cessate da quando lo stesso Cualbu ha provveduto, a sue spese, a recintare e bonificare l’intera area. ATTACCHI CONTINUI. Ora che è cambiata l’amministrazione regionale e che il nemico Soru è passato a guidare l’opposizione, l’impresa che aveva firmato con Regione, Comune e Soprintendenza l’accordo di programma per la riqualificazione si aspettava di poter riprendere e ultimare i lavori. «E invece ci troviamo a sopportare nuovi attacchi, come se le undici sentenze dei vari tribunali amministrativi che ci hanno dato fin qui ragione fossero carta straccia». «VIA ALL’OPERAZIONE VERITÀ». E allora Cualbu annuncia di voler avviare un’operazione-verità, pubblicando su Internet le migliaia di pagine («solo l’indice ne conta 150») di atti in suo possesso: «Affinché la gente che si vuole informare in maniera completa possa farsi un’idea attendibile ». LE TAPPE DELLA VICENDA. Nel frattempo ripercorre le tappe di una vicenda che per ora non ha consentito a Cagliari di contare sui parchi urbano e archeologico che erano in fase di realizzazione, sull’asse stradale che avrebbe consentito di velocizzare i collegamenti tra le parti est ed ovest della città e sulla valorizzazione della zona di via Sant’Avendrace e via Maglias. «Gli ambientalisti sanno che il piano di riqualificazione prevede che i parchi urbano e archeologico avrebbero consentito di vincolare 210 mila metri quadri contro gli attuali 10.800, su aree cedute dai privati?», si chiede Cualbu. «E sanno che l’asse stradale in costruzione aiuterebbe a decongestionare il traffico di viale Merello, piazza D’Armi, viale San Vincenzo e Porta Cristina?» «NESSUNA SPECULAZIONE». Spesso si è parlato di una presunta speculazione edilizia da parte degli stessi privati, magari nascosta dietro gli interventi di utilità pubblica: «Ma può essere definita tale l’edificazione di 95 mila metri quadri per edifici privati su un totale di 440 mila dell’intera riqualificazione? Si sappia che l’indice di edificabilità è il più basso della città». Ce n’è anche per la precedente Giunta regionale: «Gli ultimi tre anni sono stati surreali», ricorda Cualbu, «ancor più se si pensa che inizialmente il presidente Soru, dopo aver esaminato i progetti, si era detto favorevole all’intervento. Poi è arrivato il voltafaccia ». DALLE CRITICHE AI DECRETI. Furono mesi di attacchi e critiche, fino al decreto regionale del 9 agosto 2006, che bloccò i lavori nell’intera area di Tuvixeddu. Da allora la palla è passata nelle mani dei tribunali amministrativi, che per undici volte hanno dato ragione al gruppo Cualbu e torto a Regione e ambientalisti. «I cagliaritani devono sapere quali sono state le conseguenze degli atti adottati dalla vecchia amministrazione regionale», prosegue: «anzitutto il blocco dei lavori per i parchi e la viabilità, oltre alla perdita di alcuni finanziamenti pubblici, con danni per l’intera comunità. Senza contare quelli ingiustamente causati al privato, che ora sarà costretto a ricorrere al giudice civile per ottenere i risarcimenti». Ora la palla passa alla Giunta Cappellacci: «Speriamo che quanto prima il comitato di sorveglianza dell’accordo di programma garantisca la corretta ripresa delle opere», conclude. «Noi non ci siamo mai sottratti al confronto con il precedente esecutivo regionale e altrettanto faremo con l’attuale, in un clima leale e trasparente, che tenga conto dei diritti di tutte le parti in causa».