domenica 26 aprile 2009

Spunti islamici anticrisi nei forzieri di Dubai

il Riformista 26.4.09
Spunti islamici anticrisi nei forzieri di Dubai
di Stefano Feltri

SOLUZIONI. Dal crollo delle torri al crollo di Wall Street: le due crisi sono legate. E forse la finanza di Allah può aiutare a superare entrambe.
Loretta Napoleoni. Economista, vive a Londra.

E se fosse tutto collegato? Se l'undici settembre 2001 (crollano le torri gemelle) e il 15 settembre 2008 (crolla la banca d'affari Lehman Brothers), cioè le due catastrofi che hanno segnato il nuovo millennio fossero legate? Sembrano domande da teoria del complotto. Se le pone Loretta Napoleoni, nel suo ultimo libro appena uscito, "La morsa" (Chiarelettere, 186 pp., 13,60 euro). Economista, specializzata prima in finanza e poi, con un dottorato, in terrorismo e con una carriera da analista e consulente sui loro legami, editorialista del Guardian, di Internazionale e di una decina di altre testate, la Napoleoni sostiene che Al Quaeda e i salvataggi pubblici delle banche al collasso siano parte della stessa storia.
Quando Lyndon Johnson decise di aumentare lo sforzo in Vietnam ricorse alla leva fiscale. Cioè aumentò le tasse. George Bush si è affidato invece alle azioni del presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, che tagliava i tassi di interesse ogni volta che la Borsa ne aveva bisogno, consentendo al dollaro di restare debole, esportando inflazione ma favorendo il boom del credito e dei consumi da esso finanziati negli Stati Uniti. «Dopo l'undici settembre la politica dei tassi bassi fa comodo anche e soprattutto al governo americano che nel giro di due anni si trova invischiato in due guerre [...] rende i buoni del Tesoro più competitivi rispetto a quelli dell'industria privata. La politica deflazionista di Greenspan, dunque, finanzia prima il benessere illusorio della globalizzazione e poi la guerra contro il terrorismo. Ecco spiegata l'origine della crisi del credito», scrive la Napoleoni.
Le mosse successive degli Stati Uniti nella psicosi terroristica del 2001 hanno ricadute finanziarie. Dopo la notizia che quindici dirottatori su diciannove vengono dall'Arabia Saudita, gli investitori sauditi in America cominciano a temere ripercussioni e il blocco dei capitali: un fiume di 700 miliardi di dollari esce dagli Stati Uniti nei mesi dopo il crollo delle torri. Soldi che verranno reinvestiti altrove e in parte andranno anche a finanziare il terrorismo visto che la legge che, tra l'altro, doveva bloccare i flussi illegali di denaro, il Patriot Act, intercetta soltanto 200 milioni. Per capire dove finiscono tutti quei capitali basta vedere Dubai, una delle capitali degli Emirati arabi uniti: invasa dai petrodollari che prima finivano a Wall Street, nella città-stato si gonfia una bolla immobiliare che ora è appena scoppiata, un boom finanziario che porta nel 2005 alla creazione di un Nasdaq (uno dei due indici più famosi della Borsa di New York) anche sul listino di Dubai, e consente ai fondi sovrani controllati dalla famiglia regnante di diventare delle potenze finanziarie capaci di condizionare anche le Borse occidentali investendo parte delle proprie risorse proprio là da dove erano fuggite, nel capitale delle grandi banche al collasso come Citigroup o Merrill Lynch. Investimenti che si sono poi rivelati disastrosi, perché il valore dei titoli di quelle società ha continuato a scendere, spesso fin quasi ad azzerarsi. Una parte del denaro che arriva negli Emirati arabi e negli altri paradisi fiscali della regione contribuisce al decollo della finanza islamica a cui ora - secondo la Napoleoni - anche la finanza occidentale dovrebbe ispirarsi per cambiare e diventare più solida dopo la crisi.
«Finora il modello di successo a Wall Street è stata Goldman Sachs, una banca d'affari che funziona come una setta, dove è fortissimo l'elemento tribale dell'appartenenza. Lehman Brothers invece era un'organizzazione meno rigida, più aziendale. Ed è fallita. Il Governo americano ha deciso di non salvarla, e sicuramente nella scelta ha pesato molto il fatto che il segretario al Tesoro fosse Henry Paulson, che è il vero artefice della moderna Goldman, storica rivale di Lehman», dice la Napoleoni davanti a una spremuta d'arancia, in un bar dei Parioli, a Roma, parlando con il Riformista. E ancora: «Goldman ha convinto altre istituzioni come il gruppo assicurativo Aig a investire in strumenti speculativi come i credit default swap, si è comportata come un hedge fund e poi, quando è andata in crisi, è stata subito aiutata dallo Stato con prestiti che ora sta per restituire, sostituendoli con obbligazioni vendute ai privati ma garantite dallo stato, con il risultato che ancora una volta così si nasconde il rischio e si scaricano gli oneri sui contribuenti». Loretta Napoleoni, nella sua prima vita professionale, ha lavorato nella finanza, per le banche d'affari, se si fosse laureata quindici anni dopo forse si sarebbe trovata a progettare derivati. Non ha niente di personale contro Goldman, ma è il simbolo di una finanza che si è gonfiata alimentandosi di prodotti di cui non capiva la natura («Ha ragione Giulio Tremonti, certi derivati andrebbero vietati»), illudendosi che il rischio fosse svanito e che nessuno si sarebbe fatto carico delle eventuali perdite che in casi rari ma non impossibili, come si è visto, erano potenzialmente catastrofiche: «Tutto questo con la finanza islamica non sarebbe successo».
Tra il 2001 e il 2006 i titoli islamici commerciati nel mercato secondario, cioè scambiati tra investitori che ne determinano un prezzo secondo logiche di domanda e offerta, passa da quasi zero a oltre 45 miliardi di dollari, stima l'agenzia di rating Moody's. L'insieme di pratiche, transazioni e contratti finanziari conformi alla shari'a, la legge coranica, cresce di almeno il 10 per cento all'anno, anche se nell'insieme continuano a valere meno dell'uno per cento del totale. Nel volume "Economia e finanza islamica" (il Mulino, 146 pp., 8,80 euro), l'economista Rony Hamaui e Marco Mauri, banchiere attivo nel settore, raccontano l'ascesa della finanza di Allah che dal 1963, quando è nata la prima banca islamica moderna in Egitto, al 2001 è rimasta in letargo. I capitali rimpatriati dopo la grande fuga dai mercati occidentali diventano il carburante per stimolare l'evoluzione di un sistema finanziario in cui il tasso di interesse all'occidentale (remunerazione del rischio di credito e compensazione del costo di privarsi del capitale investito per il tempo del prestito) non esiste. Il principio è quello della condivisione dei profitti: i soldi non si depositano su un conto corrente, ma si investono in una banca che li farà girare, e il depositante verrà remunerato con gli eventuali utili e soffrirà le perdite. Controindicazione: i costi di monitoraggio salgono, il risparmiatore dovrà vigilare sempre sulle scelte della banca per controllare che non sprechi i sui soldi, mentre quello occidentale deve solo aspettare di ricevere gli interessi (in teoria: abbiamo visto in questa crisi che non è affatto così semplice). La politica monetaria non ha quindi il potere di gonfiare le bolle con tassi troppo bassi o di scoppiarle alzandoli per contenere l'inflazione e l'economia islamica è (almeno nei modelli degli economisti, nella realtà sussidi e tasse introducono distorsioni) priva di quei cicli che, come ha spiegato Charles Kindleberger, fanno oscillare il sistema finanziario occidentale tra grandi sviluppo e recessioni sanguinose.
Visto che tutto si fonda sull'investimento diretto, nella finanza islamica non si rischia di eccedere con la leva finanziaria, non si cade nella tentazione dei leveraged buyout, fusioni e acquisizioni fatte con soldi altrui, perché il rischio è sempre condiviso e non si può impacchettarlo e rivenderlo fino a diluirlo in tutto in sistema come si è fatto negli Stati Uniti. Scrivono Hamaui e Mauri che, a differenza del risparmiatore occidentale che vuole essere adeguatamente remunerato per rimandare nel tempo il consumo, «il buon musulmano vuole massimizzare il suo benessere non solo su questa terra, ma anche nell'aldilà, comportandosi secondo i dettami di Allah». L'orizzonte è talmente lungo che il consumatore islamico non si indebita per comprare oggi ciò che non può permettersi, e infatti il credito al consumo conforme alla shari'a praticamente non esiste. I capitali arrivati nel Golfo negli ultimi anni hanno stimolato i banchieri di Allah a sviluppare complessi contratti che rispettino questa lista di principi offrendo rendimenti concorrenziali rispetto ai prodotti tradizionali. C'è un problema: i prodotti finanziari islamici non sono standaridizzati, perché ognuno deve ottenere l'approvazione di un consiglio di saggi che ne verifica il rispetto delle norme coraniche, quindi è difficile confrontarli e fissarne il giusto prezzo (stesso problema per i derivati invendibili che languono nei bilanci delle banche tradizionali). «É questo il punto di forza del sistema islamico: esiste un controllo etico di tutti i prodotti», dice Loretta Napoleoni. Nonostante i tentativi di organismi come l'Accounting and Auditing Organisation for Islamic Financial Institutions in Bahrein o l'International Financial Service Board (Malesia), il settore resta molto frammentato.
Orizzonte di lungo periodo, controllo etico delle remunerazioni dei manager e degli strumenti finanziari, emancipazione dalle oscillazioni del ciclo economico, maggiore evidenza al rischio e più responsabilità sia per chi finanzia che per chi è finanziato: le ricette proposte ai vertici internazionali, a partire dal G20, assomigliano già molto ai principi fondanti della finanza islamica.