mercoledì 31 dicembre 2008

La guerra dell'acqua. Quando l'oro azzurro diventa un nemico

La guerra dell'acqua. Quando l'oro azzurro diventa un nemico

di Guglielmo Ragozzino

Il Manifesto del 12/11/2008

Viaggio nelle comunità contadine indigene che hanno visto la propria ricchezza secolare, l'acqua, diventare nera e velenosa per l'azione dell'industria e delle colture industriali, senza che le autorità facessero qualcosa per salvarle

I cittadini del Nicaragua sono convinti che il loro paese sia benedetto da dio quanto alla ricchezza e allo splendore dell'acqua. Sono però disperati perché non hanno saputo conservare per sé e per i figli la loro ricchezza lasciando che qualcuno la rubasse, per venderla, usarla, sporcarla in vario modo. Così l'acqua, da fantastica risorsa, si è trasformata nel suo opposto, un pericolo mortale.
Il viaggio della Carovana comincia in un mondo difficile. Le prime due tappe, sono esperienze di passione e di miseria sofferte da popolazioni povere; due tappe successive riguardano comunità che lottano contro le conseguenze: le malattie e le morti dovute all'acqua malsana, l'acqua nemica. Si comincia da Mateare, pochi chilometri a sud della capitale.
Mateare è un grande comune di trenta o quarantamila abitanti, dispersi in otto o dieci comunità minori. Per esempio una di queste, Brasiles che ci accoglie, ha la fortuna di essere sul bellissimo lago di Managua. I brasilesi ne parlano però, con qualche motivo, come del lago più inquinato del mondo. C'è l'acqua nera che oggi ammorba i pozzi dai quali da tempo immemorabile la popolazione tira la sua acqua, per le necessità domestiche e per l'orto e i campi; c'è l'acqua di scarico delle fabbriche che finisce nella falda, dove confluiscono anche i veleni dell'agricoltura industriale. Sulla strada si vede una fabbrica, moderna di aspetto, «Holcim tessile». Forse è quella di cui parla un documento che la cooperativa locale ci fa leggere. «All'altezza del chilometro 15 e 500 della 'carretera nueva' per Leon, presso l'entrata del cimitero vecchio, a 500 metri dalla carretera, è sorto uno stabilimento a capitali asiatici da parte di imprese locali. E con questo tutte le acque nere della città di Sandino sono sfociate nei terreni comunitari». Il danno maggiore deriva dal fatto che le acque nere non sono trattate; ne consegue un odore fetido, che impedisce alla popolazione dei barrios Sayda Gonzales e los Castros perfino di mangiare in pace.
La comunità ha fatto ricorso al ministero della salute, familiarmente Minsa, e a quello delle risorse naturali e dell'ambiente, Marena. Ma inutilmente: a Mateare «le istituzioni pubbliche non applicano le proprie stesse leggi in difesa del liquido vitale». Così le acque di superficie e profonde si contaminano senza rimedio con tutti i veleni possibili e poi scendono al lago, sotto forma di fango putrido. Le ultime immagini sono una donna che cammina con una gran cesta di bellissimi pesci invitanti, tratti dal lago e più in là, lungo uno scivolo che spezza la fitta vegetazione tra la strada e il lago, un potente fuoristrada che traina fino in acqua un motoscafo da diporto, pilotato da una giovane donna.
La bomba
Il saper fare in tema di acqua spetta sempre più spesso alle donne, anche da queste parti. Una donna di Abangasca, parlando dal palco, elencherà tutte le buone cose che le donne, le mujeres, sanno fare con l'acqua pulita. Nell'elenco al quarto o quinto posto, dopo lavare i panni e i bambini e tenere pulita la casa, c'è un «lavare gli uomini», los barones, che rinvia a saperi comuni e antichi.
La ricerca che la Carovana compie per raggiungere la comunità indigena di Abangasca non è semplice, ma alla fine ha successo, anche con la mediazione di Luigi Partenza del Cospe, e si conclude quando ci viene incontro una donna gigantesca e sorridente, alta almeno tre metri, accompagnata da un altro personaggio, piccolissimo, con imponente giacca da cerimonia che sfiora la terra e una testa di cartone pressato larga almeno un metro. Li accompagna una musica di tamburi, pestati con tutta la forza dei giovani dagli orchestrali dodicenni. Anche la gigantessa e il testone sono, come qualcuno ha già intuìto, mossi e interpretati da due ragazzetti che saltano e ballano a tutta forza, ammirati da una caterva di bambini e bambine che sono seduti, composti e pieni di dignità, sulle sedie dei grandi e degli ospiti attesi. Siamo arrivati al Centro social Ma. Elena Reyes, un edificio senza pareti in un bosco assai ricco, costruito con «l'appoggio solidale» di Cgil-Cisl-Uil di Brescia e del Mlal (Movimientos laicos para America latina). Più in là un campo di calcio dalle porte piccolissime e in discreta pendenza. Le discese vi riusciranno alla grande.
Ci spiegano che quella è la loro terra, dalla notte dei tempi. In seguito l'hanno addirittura ricomprata dalla Corona di Spagna. La contaminazione delle acque per questa comunità passabilmente felice arriva dopo il 1998, l'anno dell'uragano Mitch che sconvolge alla fine di ottobre i paesi del Centroamerica. Gli anni successivi, dal 2000 al 2004, sono anni secchi, tanto che nel 2002 con l'approvazione generale la società S. Antonio applica una bomba, in italiano una pompa, di grandi dimensioni per avere acqua nelle sue coltivazioni, soprattutto la canna. Ma a fianco della bomba grande dell'industria multinazionale c'è anche la bomba piccola, dei poveri, di cui si parla nella scheda. Già nel 2004 cominciano i problemi: La contaminazione dei campi in cui gli indigeni coltivano fagioli e riso e frutta in modo naturale, diventa insopportabile: la coltivazione della canna per produrre zucchero, etanolo, metanolo, liquori (flor de cana: vi dice niente?), cioè l'agricoltura industriale del latifondo, funziona solo con una quantità di prodotti chimici che inquinano acqua, terreni, aria, mare. Ettari ed ettari di mangrovie non ci sono più. Il disastro è poi ancora più intenso quando si brucia quel che resta dopo il taglio della canna e il villaggio indigeno è investito dai fumi. Anche il lavoro promesso non vale. L'inserimento di una sola macchina tagliatrice ha recentemente eliminato 400 lavoratori che però restano in loco e respirano gli stessi fumi di prima. Così parte la prima di molte iniziative legali contro la S.Antonio, con una raccolta pubblica per le spese di 3.000 dollari.
S. Antonio naturalmente fa parte del gruppo di Pellas, il grande proprietario locale. Siccome il progenitore di casa Pellas arrivava da Genova, almeno nella leggenda, proprio come Cristoforo Colombo, gli italiani, i genovesi soprattutto sono visti con sospetto. Sospetto confermato dopo che il capo di casa Pellas è stato nominato, venti giorni fa, console onorario d'Italia a Granada, storica capitale del Nicaragua.