sabato 6 dicembre 2008

L’orrore economico

Viviane Forrester
L’orrore economico
Ponte alle Grazie, Firenze 1997, pagg. 186

Molto spesso accade che il battage massmediale che accompagna l’uscita di un libro e ne decreta il successo sia dovuto allo slogan contenuto nel titolo che veicola il messaggio del testo. E probabilmente il caso del saggio di Viviane Forrester, che è stato un autentico best seller in Francia e ha suscitato echi di vario genere in molti paesi. La Forrester, che è scrittrice di romanzi e critica letteraria di Le Monde «, si è cimentata in un saggio economico con la volontà di scrivere un pamphlet contro la prospettiva di disoccupazione strutturale e di massa che colpisce le liberaldemocrazie occidentali. L’ambizione era chiara:
denunciare con vigore l’illusione, creata dall’industrializzazione, di una società opulenta e al contempo equa in cui lo sradicamento, la povertà e l’esclusione dovrebbero essere fenomeni in via di progressiva sparizione, e sottolineare il fatto che le dinamiche sociali in atto mostrano esattamente una tendenza contraria. Leggendo il titolo, accompagnato per di più da un sottotitolo provocatorio (“Lavoro, economia, disoccupazione: la grande truffa del nostro tempo ») si potrebbe pensare che il libro possa essere accomunato, per la radicalità delle tesi espresse, al graffiante La ragione aveva torto, scritto negli anni Ottanta da Massimo Fini; ma in realtà, al lavoro della scrittrice francese mancano la lucidità e l’ironia di cui è dotato il vivace polemista milanese.
Le cifre sulla disoccupazione non lasciano spazio a dubbi: l’avvento dell’automazione, la globalizzazione dell’economia e la conseguente crescita della produttività per addetto riducono il lavoro meramente esecutivo, specialmente in una fase, come è quella attuale, caratterizzata da debole crescita economica, in cui la produttività aumenta non solo nell’industria, ma anche nei servizi. Alla disoccupazione la Forrester correla in modo lineare l’accentuarsi dei processi di sfaldamento sociale e di destrutturazione del legame sociale che porta vaste fasce di popolazione verso l’esclusione, senza tuttavia proporre osservazioni propositive che, almeno a grandi linee, indichino un progetto alternativo di società. Viene comunque evidenziato con chiarezza l’emergere di una nuova fase del conflitto tra capitale e lavoro: la remunerazione dei fattori della produzione diversi dal lavoro, in particolare del capitale, è progredita molto più velocemente rispetto a quella del lavoro, divenuta addirittura minoritaria nella società. Si tratta di un’evoluzione in senso regressivo, accentuata dalla rottura della correlazione negativa che univa gli aumenti di produttività alla riduzione delle ore lavorative. Il problema è l’unità del mondo del lavoro: l’autrice stigmatizza gli sforzi da lungo tempo intrapresi per montare una parte del paese contro l’altra, dichiarata vergognosamente privilegiata (statali, funzionari di base) senza mai prendere in considerazione quelli che privilegiati lo sono davvro ‘~, ma trascura il fatto che l’allinearsi degli schieramenti politici su due sponde alternative rispetto ai problemi socioeconomici è il modo che i veri privilegiati utilizzano per impedire l’unità dei lavoratori. E naturalmente nessuna delle due fazioni liberali — socialdemocratica o liberista — oggi dominanti ha mai affrontato organicamente le contraddizioni interne al mondo produttivo: i lavoratori dipendenti dei settori esposti alla concorrenza internazionale fronteggiano il doppio pericolo di una remunerazione non allineata all’inflazione a causa dei margini di profitto decrescenti e dei rischi di licenziamento in caso di crisi aziendale. Gli addetti del settore pubblico, coperti da questi rischi e favoriti da un maggiore potere contrattuale, godono indubbiamente di una posizione di privilegio relativo; tuttavia nessuno ha mai proposto di ancorare le retribuzioni di questo personale anche a requisiti oggettivamente meritocratici e di utilizzare il risparmio di risorse così ottenuto per finanziare un fondo a tutela dei rischi sopportati dai dipendenti del settore privato, in specie quelli delle piccole e medie imprese.
Nel libro sono posti in evidenza due dati molto importanti: il peso massmediale e politico assunto dai mercati finanziari e la moda dilagante del modello anglosassone di capitalismo. Sul primo punto la Forrester associa all’impotenza del potere politico, ripiegatosi su un ruolo meramente demagogico e incapace di incidere in modo sostanziale, la potenza dei mercati borsistici erroneamente concepiti come « alveare delle forze vive, sulle quali si appoggiano, in mancanza delle nazioni, i loro governi ». L’illusione e la contraddizione creata dal fulgore dei mercati finanziari, che in molti paesi hanno raggiunto il vertice delle quotazioni proprio in coincidenza con l’avvento al potere di una sinistra liberal molto legata agli interessi del capitale finanziario, sono sotto gli occhi di tutti: euforia dei mercati non significa miglioramento dell’economia reale; anzi. spesso all’espansione dei corsi di mercato, dovuti in gran parte a un calo strutturale dei tassi di interesse. si accompagnano una diminuzione generalizzata dei livelli di consumo (deflazione) e un aumento della sperequazione sociale. E proprio il minimo timore di ripresa dell’inflazione causa forti turbolenze sui mercati finanziari: l’annuncio di aumento dei salari o di una diminuzione del tasso di disoccupazione sono, per l’analista finanziario, fattori potenzialmente pericolosi, da monitorare attentamente. La moda del modello anglosassone è invece dovuta alla (presunta) capacità di creare nuova occupazione grazie al maggior dinamismo economico che la flessibilità del lavoro sarebbe in grado di produrre. Se da un lato è arcinoto che questo modello porta a uno sconcertante ampliamento dell’ineguaglianza dei redditi e di conseguenza ad un incremento del grado di allarme e di insicurezza sociale — e qui si ferma l’analisi della Forrester —, dall’altra si comincia a discutere se questo modello sia anche efficiente nel lungo periodo dal punto di vista economico. Basti pensare al costo che comporta tenere in prigione più del 3% della popolazione (Usa) in una società dove il 24% dei giovani vive al di sotto della soglia di povertà.
La Forrester è fermamente convinta che le nuove tecnologie abbiano ridotto la soglia-limite di impiego disponibile, ma non si esprime in merito alla propota, ormai ampiamente dibattuta in tutta Europa, di retribuzione dell’ammontare di lavoro esistente. Una politica del lavoro solidaristica dovrebbe basarsi sull’idea che il lavoro crea lavoro: per esempio, sappiamo che la necessità di servizi personali e sociali aumenta notevolmente quando le famiglie mancano di tempo; il lavoro aggiuntivo della moglie può avere effetti molto significativi sulla domanda di servizi, tenendo conto del fatto che l’impiego nei servizi ad alta intensità di lavoro coinvolge i meno qualificati, più esposti al rischio di disoccupazione: in Italia, solo il 44% delle mogli è occupato. Ma, al di là degli effetti moltiplicativi che può avere l’entrata di alcune fasce della popolazione nel mondo del lavoro, la questione va posta in termini diversi: come è possibile far fronte all’attuale situazione?
L’unica soluzione concreta e capace di un reale impatto nel lungo periodo sembra consistere nel rimettere in discussione il ruolo del lavoro nella vita, e nel domandarsi come interpretare i fenomeni che stiamo vivendo. L’aumento della produttività e del tenore di vita può spingere sempre più lavoratori dipendenti a scegliere di lavorare meno: il dipendente che accetta una riduzione del salario (contenuta entro il 20%) e si impiega a tempo parziale consente al sistema di orientarsi verso la flessibilità interna del lavoro (che richiede continue trattative) e di opporsi alla flessibilità esterna, vale a dire al licenziamento e alla precarizzazione, che rappresentano una soluzione inaccettabile, che riduce gli esseri umani allo stato di semplice merce. Un’evoluzione in tal senso rappresenta un salto culturale di notevole portata, che, dopo due secoli di enfasi produttivistica, consentirebbe di collocare il lavoro in una dimensione più accettabile e di ovviare alla tragedia della sua mancanza. Una prospettiva non colta dalla Forrester, ma ben presente nelle Trenta tesi per la sinistra proposte da Alain Caillé in un testo che, in buona parte, può rappresentare un manifesto per chi aspira a nuove sintesi capaci di dare una risposta alle troppe inaccettabili insufficienze del liberalismo reale.

Livio Dalle


Da “Diorama Letterario”, marzo 1998, pagine 36-37