giovedì 23 luglio 2009

Perù, la lezione della Selva india

Perù, la lezione della Selva india

Gianni Proiettis

il manifesto del 23/07/2009

Almeno 60 vittime, un numero imprecisato di scomparsi. A più di un mese dalla strage, gli indios della Curva del Diablo ancora fanno i conti. E gridano che la loro lotta non si fermerà

È passato un mese dalla strage con cui il governo di Alan García pensava di mettere fine alle proteste amazzoniche, eppure quella carneficina, di cui a tutt'oggi si ignorano le reali dimensioni, non smette di fare notizia e ha provocato una reazione a catena nella politica e nella società peruviane.
Domenica 5 luglio la Curva del Diablo, che fu il teatro della strage - in nomine omen - si è riempita di gente, migliaia di persone, che hanno affrontato un viaggio di varie ore per partecipare a una sentita e silenziosa commemorazione.
Su una collina che domina la valle del fiume Marañón, in un paesaggio grandioso e desolato in cui predominano le cactacee, le autorità locali e un comitato cittadino hanno piantato una croce bianca con parole di pace e la gente vi ha disposto intorno corone di fiori, lumini e messaggi scritti. A mezzogiorno, sotto un sole spietato, don Jesús, viceparroco di Bagua Chico, pronuncia un discorso di riconciliazione, condanna la guerra fratricida voluta e ordinata da altri. L'allusione al governo è evidente ma il religioso rispetta la consegna, che circola già da qualche giorno, di evitare, almeno per questa occasione, denunce e strumentalizzazioni politiche. Gli abitanti di Bagua Grande e Bagua Chico, due cittadine equidistanti dalla Curva del Diablo, hanno dimostrato una forte solidarietà con i popoli della selva e la loro lotta, iniziata quasi due mesi prima. Una solidarietà che non si era mai manifestata storicamente e che si è rafforzata dopo la repressione omicida ordinata dal governo.
A trenta giorni dalla strage, la ricostruzione dei fatti del 5 giugno si è arricchita grazie a numerose testimonianze ma presenta ancora zone d'ombra che solo una commissione d'inchiesta indipendente potrà chiarire. Quel giorno, il blocco stradale mantenuto dagli indios awajún e wampis per protestare contro i nuovi decreti legge sull'Amazzonia sarebbe stato tolto - non si sa se definitivamente - alle 11 del mattino. Così era stato deciso dai dirigenti della Aidesep, la Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana, in risposta all'ultimatum dato dall'esercito. Ma le forze speciali della polizia (Dinoes), senza aspettare l'ora convenuta, sferrarono un attacco a tenaglia alle 6 del mattino. Mentre due reparti armati si muovevano per circondare i dimostranti, tre elicotteri fecero piovere dal cielo bombe lacrimogene e raffiche di mitra. Ai primi morti, la reazione non si è fatta attendere. Armati solo delle loro tradizionali lance di legno, gli indigeni hanno risposto all'attacco con una forza sorprendente ma al tempo stesso prevedibile, per chi conosce i loro valori e comportamenti.
La cifra di 24 poliziotti uccisi - 9 dei quali erano stati presi in ostaggio in precedenza in una località vicina, alcuni altri sicuramente vittime del «fuoco amico» dall'alto - è comprovata. Ma la stima ufficiale di 10 vittime civili è di gran lunga inferiore alla realtà. Le dichiarazioni di vari testimoni oculari coincidono nel calcolare in almeno 60 i corpi dei civili portati via dagli elicotteri. Le comunità indigene stanno ancora facendo un censimento dei desaparecidos.
I popoli awajún e wampis fanno parte della grande nazione jívaro, di antiche tradizioni guerriere. I loro nonni erano i temuti cacciatori di teste dell'Amazzonia e furono giustamente il coraggio e l'aggressività nel difendere il proprio territorio a mantenerne fuori l'uomo bianco, frustrandone tutti i tentativi di colonizzazione.
Tra l'altro, la selva amazzonica presentava attrattive nel passato solo per i missionari e gli esploratori. È solo in epoca recente che le multinazionali petrolifere, minerarie e agroindustriali ne hanno scoperto l'immenso potenziale economico. Non è affatto esagerato dire che, nel difendere i propri territori ancestrali dall'intromissione e dal saccheggio delle multinazionali, i popoli nativi stanno custodendo il polmone del mondo, vitale riserva biologica e patrimonio di tutta l'umanità. Ma, secondo il presidente Alan García, che non esitò a ricorrere alla strage di centinaia di prigionieri politici nel 1986, all'epoca del suo primo mandato, gli indigeni amazzonici si stanno opponendo al progresso e si comportano come «il cane dell'ortolano», che non mangia e non lascia mangiare. Oltretutto, secondo una sua infelice dichiarazione che mette a nudo il feroce razzismo interno delle società latinoamericane, «non sono cittadini di prima classe» e pertanto non hanno il diritto di opporsi a un saccheggio che lascia loro solo distruzione dell'habitat, inquinamento e deculturazione.
Al di là del cinismo del potere, il sangue dei morti di Bagua non è stato versato invano. Intanto, i decreti che aprivano la svendita lottizzata dell'Amazzonia peruviana alle compagnie multinazionali sono stati cancellati. La situazione di discriminazione e abbandono in cui vivono le popolazioni amazzoniche si è guadagnata l'attenzione internazionale e un posto nell'agenda nazionale. Le rivendicazioni e le lotte di altri settori sociali e di altre regioni geografiche si sono unificate per le manifestazioni nazionali dell'8 e 9 luglio. Stando ai sondaggi più recenti, il presidente Alan García conta ormai sull'approvazione di un rachitico 20 per cento.
Pur avendo annunciato le sue dimissioni dal governo - probabilmente prima della fine del mese - il primo ministro Yehude Simon ha aperto un tavolo di trattative con l'Aidesep, che coordina le più importanti organizzazioni native, e si è incontrato nei giorni scorsi con un centinaio di apu, i capi delle comunità amazzoniche, a Santa Maria de Nieva, un villaggio della selva che non aveva mai ospitato un capo di governo.
Secondo Daysi Zapata, la vicepresidente dell'Aidesep che sostituisce Alberto Pizango, attualmente rifugiato in Nicaragua, «i nostri fratelli venuti dai cinque bacini della regione amazzonica hanno visto che il premier ha ascoltato le nostre richieste e si é impegnato ad accoglierle. In conclusione il governo, dopo tante dichiarazioni sfortunate, si è accorto che anche noi esistiamo, siamo peruviani e abbiamo dei diritti».
I punti accettati dal primo ministro riguardano l'assistenza medica ai feriti, una compensazione economica ai familiari delle vittime, la liberazione di 20 detenuti e la revoca di 84 mandati di cattura, la possibilità di ritorno per Alberto Pizango, la smilitarizzazione della regione. E, ovviamente, la consultazione delle comunità per tutti i progetti che le riguardano, come prevede il trattato 169 della Organizzazione Internazionale del Lavoro, di cui il Perù è firmatario. Yehude Simon ha anche proposto ai rappresentanti dell'Aidesep un incontro a Lima con il presidente Alan García per formalizzare gli accordi.