giovedì 17 aprile 2008

La fame preoccupa i finanzieri

La fame preoccupa i finanzieri

di Francesco Piccioni

Il Manifesto del 15/04/2008

Anche la Banca Mondiale lancia il suo allarme. I prezzi del cibo sono quasi raddoppiati in un anno per colpa di petrolio, biocarburanti («un crimine contro l'umanità», dice l'Onu) e domanda di carne

Quando i dirigenti dei maggiori istituti finanziari internazionali cominciano a preoccuparsi dei poveri significa che la situazione sta diventando ingovernabile. Non c'entra infatti assolutamente nulla la filantropia - che non ha mai abitato da quelle parti - molto, invece, il timore che «la fame» possa muovere popolazioni, travolgere confini, e con ciò stesso equilibri faticosamente costruiti in decenni, creare «instabilità».
Dopo il Fondo Monetario Internazionale anche la Banca Mondiale ha lanciato il suo bravo «allarme». Il problema è quantitativamente posto in modo ineccepibile: più di un miliardo di persone sopravvive con meno di un dollaro al giorno. Ma nel corso degli ultimi anni si è andata riducendo la massa delle persone che potevano contare sull'«agricoltura di sussistenza» (orti familiari o di villaggio, fuori da ogni circuito mercantile), e aumentando quella di quanti possono trovare cibo solo in cambio di denaro. Questa massa spendeva un anno fa il 75% del proprio reddito in generi alimentari (qui, nei paesi avanzati, soltanto il 15%) e si trova ad affrontare un aumento del 75% dei prezzi dei cereali, il piatto-base in qualsiasi paese. Ci vuole assai poco per valicare il limite della fame.
Ma nelle scorse settimane il quadro è stato confermato da una nutrita serie di «rivolte per il pane» in molti paesi poveri o in «via di sviluppo». Non solo la derelitta Haiti, ma anche le Filippine e persino la Tunisia - qui, sulla porta di casa - hanno visto assalti ai supermercati, scontri, arresti, morti e feriti. La marea sta montando. Potrebbero mettersi in moto flussi migratori alla lunga insostenibili. Per questo, chiede la Banca Mondiale, bisogna «alleggerire gli effetti degli choc dei prezzi sui poveri, orientando meglio i programmi di assistenza ed esplorando forme appropriate di sostegno finanziario».
Sulle ragioni dell'aumento dei prezzi le analisi convergono nell'individuare proprio «il mercato» - gestito ovviamente dai paesi più forti - come il principale responsabile. Le politiche agricole sono state infatti fin qui coordinate dall'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), miranti a realizzare una completa «liberalizzazione» del commercio globale. Il «Doha Round» - la serie degli incontri che avrebbe dovuto realizzare questo obiettivo - non ha avuto fin qui successo. E per fortuna, vien da aggiungere. Ma anche così - spiega Jean Ziegler, portavoce delle Nazioni Unite per il diritto all'alimentazione - l'Unione europea sta portando alla rovina l'agricoltura africana finanziando l'esportazione delle eccedenze continentali».
Imputata speciale è la produzione di biocarburanti. Ovvero il sottrarre terreno alla produzione destinata all'alimentazione per aumentare le superfici dedicate ai biocombustibili. Lo stesso Ziegler l'ha definita ieri «un crimine contro l'umanità». Una parte del mondo ambientalista ha la responsabilità di aver avallato per miopia queste scelte, in base alla considerazione - piuttosto «colonialista» - che i biocarburanti avrebbero reso più respirabile l'aria delle nostre città. Peccato che ciò - insieme ovviamente all'aumento del prezzo del petrolio e all'incremento degli allevamenti di bestiame (che richiede più foraggio) - abbia comportato un rapido incremento dei prezzi degli alimentari. Il ragionamento è semplice: le terre emerse non possono aumentare, quelle coltivabili sì - in modo modesto e con difficoltà - solo deforestando ampie zone selvagge. Se da questa superficie finita si sottraggono aree a fini non alimentari, in presenza di una domanda crescente, è persino banale dover constatare che i prezzi non possono che aumentare. E non in modo temporaneo. Le variabili sono determinate in modo ferreo: il costo dell'energia può solo aumentare, la popolazione globale cresce al ritmo di 80 milioni l'anno, le superfici coltivabili sono sempre quelle.
Nonostante in Italia sia un discorso considerato demodé, bisogna ammettere che ci troviamo davanti a una crisi di sistema. La più grave di sempre, perché non c'è più un solo fazzoletto di terra da annettere «alla civiltà». Quella nostra, distruttiva.