mercoledì 30 giugno 2010

Dal Borromini ai suini gli affari improbabili della Beni culturali Spa - Arcus e Ales: centinaia di milioni spesi "in deroga"

Dal Borromini ai suini gli affari improbabili della Beni culturali Spa - Arcus e Ales: centinaia di milioni spesi "in deroga"
ALBERTO STATERA
DOMENICA, 27 GIUGNO 2010 LA REPUBBLICA - Cronaca
L´inchiesta

Fondi per 500 mila euro alla Fondazione Pianura Bresciana per un convegno sulle cinque razze di maiali

Le bietole aleggiano nel ministero di via del Collegio Romano. Resca vuole produrre energia alternativa dalle rape


Dal Borromini ai suini. Dai suini alle bietole. Che male c´è? La «Beni Culturali Spa» non si formalizza tra siti storici, musei, opere d´arte, statue, dipinti, archeologia e porcilaie. E persino campi di bietole per produrre agroenergia, nuova passione del direttore dei Musei Mario Resca. Attraverso le sorelline culturali Arcus Spa e Ales Spa, società pubbliche ma di diritto privato, si tratta di spendere centinaia di milioni di denaro pubblico in deroga, senza controlli di legittimità del Parlamento e della Corte dei Conti, in ossequio alla religione berlusconiana del fare e fare in fretta. Fare che? Soprattutto fare affari.

Come nel modello Protezione Civile Letta-Bertolaso. E come in quello dell´ex ministro Pietro Lunardi, che pare si sia portato via un palazzo nel centro di Roma a un quarto del suo prezzo, complice l´eccellente dominus vaticano Crescenzio Sepe, cardinale nella manica di Papa Wojtyla, ma esiliato subitaneamente a Napoli da Papa Ratzinger.

Per merito degli antichi predecessori Gregorio XV e Innocenzo X, fu il Borromini verso il secondo decennio del 1600 a disegnare la facciata del palazzo di Propaganda Fide a Roma in piazza di Spagna, la cui ristrutturazione a spese dell´Arcus, secondo i magistrati di Perugia avrebbe prodotto per riconoscenza la proprietà di un palazzetto vista Montecitorio all´ex ministro Lunardi, detto El Talpa per la sindrome incontrollabile che ha di progettare, ben retribuito con denaro pubblico, tunnel ferroviari e autostradali in tutta Italia, attraverso le sue società di famiglia. Non si sa bene invece chi fu a mettere in campo i suini, che pure hanno la loro indubitabile valenza culturale. Infatti la società di diritto privato Arcus, posseduta dal Tesoro italiano e controllata dai Beni Culturali, ha finanziato per 500 mila euro la Fondazione Pianura Bresciana per un risolutivo convegno sulle cinque razze autoctone di maiali. Cinque le razze suine? Forse sono anche di più. Ma accontentiamoci e rendiamo grazia al generoso ministero dei Beni Culturali.

Un deputato dell´opposizione, Vincenzo Vita, ha provato a chiedere conto del singolare finanziamento culturale, tra i tanti, al governo. Ma, come al solito, nessuno se lo è filato. La cultura è cultura, mica vorremo imbrigliarla in una storia di maiali. Così come sacrosanti sono i milioni distribuiti al Santuario della Madonna di Pompei, alle monache Clarisse di Santa Rosa, alla Fondazione Aquileia. O all´Università di Padova, dove opera, superba scienziata, la dottoressa Ghedini.

Ghedini? Ghedini chi? Ma sì, è proprio lei, la sorella dall´avvocato onorevole del premier Niccolò Ghedini, l´ex giovane di studio che arrancava un po´ lento, come ricordano i suoi ex colleghi, nell´ufficio del principe del Foro di Padova Piero Longo e che oggi produce a getto continuo leggi dello Stato per conto del premier. Leggi che, con tutta la buone volontà, non passano neanche la prima prova di ragionevolezza e di costituzionalità. È lei, Elena Francesca Ghedini, archeologa, accreditata di scienza ben superiore a quella fraterna, ad assurgere a consigliere del ministro Bondi per le aree archeologiche, al Consiglio superiore dei Beni Culturali e ad ottenere fondi cospicui per le sue legittime esigenze di ricercatrice. Esaudita.

Arcus, fiore all´occhiello di quella che i vecchi funzionari esautorati dei Beni Culturali chiamano il braccio operativo della «Banda Bondi», ha una sorellina che si chiama Ales, che la prossima settimana, si impossesserà di fatto dei servizi museali, governando gli appalti per un business da 100 milioni l´anno, che le aziende operanti nel settore museale giudicano uno scippo. Di nascosto, con un emendamento al decreto sugli enti lirici, il governo ha abrogato la gestione integrata dei 190 musei, che avrebbe consentito l´accesso dei privati ai servizi e che ora lascia tutto nelle mani della Beni Culturali Spa, evoluzione della Protezione Civile Spa bloccata in extremis, pronta per intercettare «in deroga» anche i due miliardi e mezzo di euro di fondi europei per i beni e il turismo culturale.
Grande polmone finanziario dell´Italia berlusconiana del «fare», mondata da ogni controllo di legittimità, in onore di una suprema deroga appaltatrice, per teatri da ricostruire, zone archeologiche da ripulire, siti d´arte da salvare, monumenti da sbiancare, palazzi da ristrutturare, statue da rigenerare, quadri da restaurare, biblioteche da puntellare, musei da gestire, biglietterie, librerie, bar e ristoranti da affidare possibilmente agli amici e agli amici degli amici, la Beni Culturali Spa era pronta, con i buoni uffici di Gianni Letta, a un luminoso destino. Ma incalzato dalle inchieste sui fasti della coppia Lunardi - Sepe, il ministro Bondi, che al ministero impersona il ruolo del passante impegnato da par suo nella poesia e nell´esegesi poetica del Capo, ha bloccato i residui pagamenti per il palazzo di Propaganda Fide e ha appena nominato il nuovo presidente di Arcus. Gli innumerevoli rilievi della Corte dei Conti raccontano di spese per centinaia di milioni a pioggia, in modo opaco, in incarichi e consulenze clientelari e favori vari.

Quasi una scienza, ormai, certificata nella sua sofisticazione dalle gesta del cardinale Sepe e dall´ex ministro Lunardi. El Talpa ha cercato di difendersi con un´intervista - manifesto che dovrà restare nei libri di storia nei secoli dei secoli: «Che male c´è? », si è chiesto. Che male c´è per un uomo di Stato se, di questi tempi, favorisce se stesso e gli amici, approfittando del proprio potere pro tempore? Ma non speriate che le notizie un po´ nefande siano finite qui.

Dobbiamo riferirvi ancora delle bietole che, tra musei e razze suine, aleggiano quotidianamente nel ministero di via del Collegio Romano. Sì, perché il direttore generale del ministero Mario Resca, intimo di Berlusconi, ex amministratore delegato di Mc Donald´s Italia, santificato dal «Foglio» di Giuliano Ferrara in un ditirambo come un superbo benefattore dell´umanità, si è fissato che vuole produrre energia alternativa dalle bietole negli ex zuccherifici italiani. Ma non con i soldi suoi - cosa di cui gli sarebbero tutti grati - ma con quelli pubblici dei bieticoltori (centinaia di milioni, in gran parte fondi europei). I quali, alquanto incavolati, tramite la Coldiretti, spogliata surrettiziamente dei fondi Finbieticola, hanno appena fatto ricorso alla Corte dei Conti. I ricorrenti sperano di vedere presto il deus ex machina della cultura condannato, perché, al di là degli scopi istituzionali, sta distraendo nel progetto di agroenergia tanti soldi loro, in combutta con Giuseppe Grossi, re delle bonifiche ambientali, finito in carcere con l´accusa di aver triplicato i costi della bonifica milanese di Santa Giulia, e Giancarlo Abelli, re della sanità lombarda. In tandem con Resca nelle multiformi attività viene dato anche Salvo Nastasi, giovane capo di gabinetto della Banda Bondi al Collegio Romano e pluricommissario in deroga a teatri e musei. Piccoli potenti crescono.

venerdì 11 giugno 2010

Primo aborto farmacologico, la paziente firma e torna a casa

Primo aborto farmacologico, la paziente firma e torna a casa

Il Messaggero del 11 giugno 2010

Raffaella Troli

Tre giorni di ricovero. E solo negli ospedali che la Asp riterrà idonei, anche in base alla disponibilità di posti letto. La giunta regionale ha approvato un protocollo operativo sull’uso della pillola abortiva Ru486, il presidente Renata Polverini è stata chiara: «Noi da oggi mettiamo in campo i nostri strumenti e credo che le strutture si debbano adeguare». Come a dire: chi va per conto suo, non aspetta che la Regione elabori «un successivo provvedimento che individui le strutture migliori», come hanno fatto al Grassi di Ostia, «se ne assumerà le responsabilità, nel caso succeda qualcosa». «Altri direttori generali - ha rimarcato - hanno atteso la posizione della Regione. Non ci dimentichiamo che parliamo sempre di un aborto, non chirurgico ma chimico, e per questo dobbiamo far riferimento alla legge 194. A questo proposito sono molto carenti i consultori nel Lazio e per questo in consiglio regionale è già stata presentata una riforma, in modo da usarli anche per le donne che chiedono di abortire, magari le convinciamo a non farlo».
Intanto la donna che per prima ha fatto uso della pillola Ru486 nel Lazio si dice «sconcertata da tanto clamore rispetto a una decisione medica, oltre che un momento assolutamente privato. Non mi aspettavo un interesse simile, è la mia vita. Ho preso la decisione dopo essermi consultata con i medici». La donna, assunta la prima dose di Ru486, ha firmato la richiesta di dimissioni. Romana, sotto i 40 anni, è "costretta" a dare spiegazioni: «Non avevo scelta, era la quarta gravidanza, ho avuto tre cesarei». Dopo un’ora è andata via, dai figli che l’aspettavano a casa, ha detto ai medici. «Sabato il suo medico - spiega il direttore sanitario Lindo Zarelli - le prescriverà il farmaco Citotec per l’espulsione dell’embrione, da assumere sabato». Quanto alle critiche aggiunge: «Siamo stati strumentalizzati dalla politica. C’è chi l’ha fatto in un senso e chi nell’altro. La nostra è stata una decisione medica. La signora aveva avuto dei figli e subito interventi all’utero, il trattamento chirurgico sarebbe stato troppo pericoloso. Un caso dunque eccezionale dettato dalle condizioni cliniche. Per il resto ci siamo attenuti alla legge. I politici che stanno esprimendo giudizi farebbero bene, prima di spendere il nostro nome per una battaglia o per un’altra, a consultare almeno chi qui dentro fa il medico e non politica. Sono molto amareggiato».
Parla di «boicottaggio della pillola da parte della Polverini», Giulia Rodano, consigliere regionale di Italia dei valori;
consiglieri regionali della Lista Bonino Pannella-federalisti europei. «Un protocollo segno di equilibrio e decisione», invece per il vicepresidente dei consiglio regionale, Raffaele D’Ambrosio (Udc).
Piuttosto, Claudio Donadio, primario di Ginecologia del San Camillo rileva che «in questi ultimi giorni arrivano donne con strane minacce di aborto in atto, emorragie imponenti e sospette da Citotec, vuol dire che si è sparsa la voce e che qualcuno fuori dal sistema nazionale somministra pozioni fuori controllo. E’ una bomba che gira, ormai. Quanto a noi siamo pronti siamo pronti, abbiamo già riservato due posti letto. Ma non si puo obbligare qualcuno a restare, quello no». La paziente dovrà tornare in ospedale per la seconda somministrazione. Per Donadio è così, invece la signora di Ostia si avvarrà della prescrizione del medico, ha detto lo stesso Zarelli. C’è confusione, perché «sono decisioni prese in urgenza - così la pensa il direttore generale della Asl RmB, Fiori Degrassi credo che più avanti ci sarà una revisione, con serenità bisognerà capire come organizzare tutto al meglio. Una degenza così lunga per prendere due pillole mi sembra una follia ma risponde a quanto prevede la normativa della 194».
(ha collaborato Mara Azzarelli)

mercoledì 9 giugno 2010

«Macché sconfitti. Ora Gaza è sotto gli occhi del mondo»

l’Unità 9.6.10
Intervista a Mairead Corrigan-Maguire
«Macché sconfitti. Ora Gaza è sotto gli occhi del mondo»
Un «lento genocidio». Nulla può giustificare quel che avviene nella Striscia. Quanto a noi, siamo stati vittime di un «rapimento collettivo»
La premio Nobel: mi appello a Obama, faccia tutto quello che può per evitare la guerra. Noi non ci arrendiamo, ritorneremo con altre navi
di Umberto De Giovannangeli

L'avevamo vista a distanza. Con un binocolo. Mentre la Marina militare israeliana «scortava» la “Rachel Corrie” nel porto di Ashdod dopo averla abbordata a largo della Striscia di Gaza. Per qualche secondo eravamo riusciti a stabilire un contatto telefonico: «Stiamo bene, non ci siamo arresi, vogliono liberarsi di noi più in fretta possibile...», poi la linea era caduta. Ma non era «caduta» la determinazione che ha sempre caratterizzato la sua azione, la sua vita, da Belfast al Medio Oriente. Una sfida di libertà. Quella di Mairead Corrigan-Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976, una delle animatrici del «Free Gaza Movement». Ora che ha fatto rientro forzato a Dublino, riusciamo a ristabilire quel contatto interrotto ad Ashdod. Mairead è stanca, provata, ma non rinuncia ai mille impegni in agenda, ai quali strappa qualche minuto per l'Unità. «Voi dice avevate continuato a denunciare quel criminale embargo quando Gaza sembrava non fare più notizia..». Quando le chiediamo come definirebbe ciò che è accaduto a lei e agli attivisti della «Freedom Flotilla», Maguire non ha un attimo di esitazione: «Siamo stati vittime di un rapimento collettivo in acque internazionali. Quello che sta avvenendo a Gaza denuncia è un lento genocidio del popolo palestinese».
Qual è il sentimento prevalente dopo ciò che ha vissuto e subito a largo di Gaza? «Rabbia. Dolore. Indignazione. Ma anche orgoglio e fierezza per ciò che tutti assieme abbiamo portato avanti. Come vede, è un insieme di sensazioni forti, e non poteva essere altrimenti. Ricordo la nostra ultima conversazione: avevamo parlato di Gaza, della sofferenza della sua gente, di una punizione collettiva atroce, contraria a ogni codice etico, oltre che ad ogni norma del Diritto umanitario e alla quarta Convenzione di Ginevra, articolo 33. Ma le parole non bastano più. Occorre dimostrare una solidarietà concreta verso quel popolo. Abbiamo cercato di passare dalle parole ai fatti. Pagandone un prezzo atroce. Ma l'abbiamo fatto e lo rivendichiamo a testa alta...». C'è chi parla di voi della “Freedom Flotilla” come di “sconfitti”...
«Solo chi è imbevuto di una cultura militarista rafforzata da un'altra non meno deleteria cultura, quella dell'impunità, ed è abituato a pensare in termini di rapporti di forza può rivendicare quel crimine. È vero, non siamo riusciti nel nostro obiettivo primario, che era quello di far arrivare alla gente di Gaza gli aiuti umanitari. Quando siamo stati rapiti, perché di ciò si è trattato, dalla Marina israeliana e condotti a forza ad Ashdod, eravamo tristi per non aver raggiunto il nostro obiettivo e pieni di dolore per chi aveva perso la vita. Avevamo generato speranza nella gente di Gaza, la loro delusione era anche la nostra delusione...Ma poi, ci siamo detti che qualcosa d'importante era avvenuto: Gaza e il suo assedio che dura da tre anni erano tornati al centro dell'attenzione mondiale. Su quella prigione a cielo aperto e sui suoi carcerieri erano tornati ad accendersi i riflettori. Nessuno poteva e può dire ancora: non sapevo, non ho visto. Tutti sono chiamati a prendere posizione. E alla gente di
Gaza che ci aspettava per festeggiare, dico una cosa sola: ci riproveremo. Presto». E ai Grandi della Terra cosa si sente di dire, quale appello lancia? «L'embargo non è solo un crimine contro l'umanità. È anche la via per trascinare l'intero Medio Oriente in una nuova, devastante guerra. È tempo di agire. In particolare mi sento di rivolgere un appello al presidente Obama, con cui ho l'onore di condividere un Premio che è anche un impegno di vita: il Nobel per la Pace. Al presidente Obama chiedo di di fare tutto quello che è in suo potere, ed e molto, perché sia posto fine all'assedio per terra, mare ed aria di Gaza. La forza non crea giustizia, non rende più sicuri, ma alimenta solo desiderio di vendetta. È ciò che Israele dovrebbe capire».
Israele continua ad opporsi ad una commissione d'inchiesta internazionale che faccia luce sul blitz sanguinoso contro la “Mava Marmaris”...
«Le autorità israeliane continuano a sentirsi al di sopra della legalità internazionale. Un atteggiamento che dura da troppo tempo. Se ciò è avvenuto è per le coperture internazionali su cui Israele ha potuto contare. Legalità e Giustizia sono parole che devono ritrovare un senso là dove sono state calpestate: a Gaza».
Israele giustifica il blocco di Gaza come difesa da Hamas... «Hamas ha vinto elezioni democratiche nel 2006 e da quel momento è iniziata la politica draconiana di Israele. Resta il fatto che non c'è diritto di difesa che possa minimamente giustificare il lento genocidio del popolo palestinese che si sta consumando a Gaza».
Sullo sfondo sentiamo le voci degli assistenti che richiamano Mairead Maguire ai suoi impegni. Il tempo di un saluto. E di una promessa: «La prossima volta dice la Nobel irlandese ci vedremo a Gaza. Per festeggiare la fine dell'embargo».

martedì 8 giugno 2010

Tav, il manifesto dei comitati: fermate il tunnel

Tav, il manifesto dei comitati: fermate il tunnel
SIMONA POLI
LUNEDÌ, 07 GIUGNO 2010 LA REPUBBLICA - Firenze

La richiesta alla Regione in un documento votato dall´assise della Rete di Asor Rosa

Passare in superficie si può e si deve. E non è vero che sull´Alta velocità a Firenze ormai non si possa più tornare indietro. Il presidente Rossi non ha solo una strada davanti a sé, con chi ha idee diverse parli e discuta prima di confermare decisioni prese ad altri. Il progetto di scavo può ancora essere scongiurato, si impongono scelte diverse e i cittadini hanno il sacrosanto diritto di essere consultati, come sostiene anche l´assessore all´Urbanistica Marson. E´ questa la posizione unitaria della Rete toscana dei Comitati, riunita in conferenza in questi giorni sotto la guida di Alberto Asor Rosa, che all´unanimità ha votato un documento che boccia senza se e senza ma l´ipotesi del sottoattraversamento ferroviario di Firenze. «Siamo convinti della validità dell´alternativa di superficie, indicata da molti dei tecnici e degli accademici che hanno studiato l´impatto del tunnel e che collaborano da sempre con la Rete», sostiene Asor Rosa. «Condividiamo le loro valutazioni sulla pericolosità dell´opera e sulla possibilità di un potenziamento delle linee di superficie con un risparmio sensibile da un punto di vista economico e nei tempi di realizzazione. Il testo approvato nella Conferenza il 5 giugno chiede che siano fermati i lavori di cantierizzazione dell´opera anche in considerazione della totale mancanza di valutazione d´impatto ambientale del progetto di stazione firmato da Foster. Chiediamo anche», aggiunge Asor Rosa, «che sia avviato un serio confronto con i cittadini, realmente partecipato». D´accordissimo, ovviamente, Ornella De Zordo, paladina del passaggio in superficie: «Tutte le realtà attive in Toscana per la difesa del territorio hanno sostenuto le ragioni di chi a Firenze lotta contro lo scempio urbanistico, geologico e del bilancio dello stato opponendosi alla realizzazione del sottoattraversamento dell´Alta velocità», dice a nome di Perunaltracittà. «C´è una piena e condivisa consapevolezza sull´esistenza di studi realizzati da tecnici volontari e dell´Università di Firenze che mettono a nudo i rischi dell´operazione in sotterranea».
La posizione della Rete rinfocola le speranze del Comitato fiorentino contro il sottoattraversamento, che da tempo chiede di aprire un confronto con la Regione e di informare meglio e in modo corretto i cittadini. Uno degli argomenti forti di chi si oppone al tunnel è stato oggetto anche della relazione della professoressa Maria Rosa Vittadini, che durante la conferenza ha parlato di una crisi profonda della politica e della democrazia, evidenziata dal fatto che le infrastrutture pubbliche ormai non vengano più decise a livello politico ma siano diventate «appannaggio esclusivo dei comitati di affari economico-politico». Intanto il Comitato Ex Panificio Militare organizza per giovedì 10 giugno alle 21 un´assemblea pubblica ospitata dalla parrocchia dell´Ascensione, in via da Empoli. Il tema è, nuovamente, il sottoattraversamento.

lunedì 7 giugno 2010

Viaggio nell’Israele dei pacifisti minacciati dai falchi

l’Unità 7.5.10
Viaggio nell’Israele dei pacifisti minacciati dai falchi
A Tel Aviv più di diecimila in piazza Rabin per dire no al blitz militare e chiedere giustizia per i palestinesi di Gaza. Il leader storico Ury Avnery circondato da un gruppo di ultrà. Sternhell: «È un campanello d’allarme»
di Umberto De GIovannangeli

L'altra Israele scende in piazza in nome della verità e della giustizia. Verità sugli attacchi alla «Freedom Flotilla». Giustizia per la popolazione di Gaza sfiancata da tre anni di embargo. Scende in piazza, l'altra Israele. E lo ha fatto in una piazza dedicata al generale, Yitzhak Rabin, che osò la pace con l'Olp di Yasser Arafat e per questo fu assassinato da un giovane zelota dell'ultradestra ebraica. Alza la testa, l'altra Israele. E per questo subisce l'aggressione dei fanatici di «Eretz Israel». È accaduto l'altra notte, a Tel Aviv. In migliaia, più di diecimila, si erano radunati in Piazza Rabin per protestare contro l'occupazione dei Territori palestinesi e contro il blitz israeliano sulla nave turca Mavi Marmara, mentre era diretta a Gaza con aiuti umanitari . Una bella manifestazione, una delle più significative tra quelle organizzate dal variegato arcipelago della sinistra pacifista israeliana, con una adesione di movimenti disparati, da Gush Shalom (Pace Adesso), fino al partito comunista arabo-ebraico Hadash.
Quella protesta suonava come una provocazione per i gruppi oltranzisti israeliani. Le invettive non bastano più. Occorre passare all'intimidazione fisica. Quei pacifisti vanno trattati come traditori. E i «giustizieri» provano a prendersela con un uomo di 87 anni. Il simbolo di un pacifismo irriducibile: Uri Avnery. I dimostranti di destra, racconta Avnery, hanno cercato di disturbare i comizi e qualcuno ha anche lanciato nella folla un candelotto fumogeno. «Forse quel qualcuno sperava di creare panico, ma la nostra reazione è stata compassata», aggiunge Avnery che si trovava, con la moglie, a due metri di distanza. «Al termine della manifestazione, mentre accompagnato da un paio di amici e da mia moglie attraversavo la centrale via Ibn Gvirol per salire in macchina – denuncia il leader pacifista siamo stati circondati da una decina di persone ben organizzate». «Hanno cercato a forza di impedirmi di entrare nella macchina, mentre ci gridavano: “Andate a Gaza, maniaci». Avnery ha avuto la sensazione che presto sarebbero passati anche alla violenza fisica, ma l'intervento tempestivo della polizia lo ha salvato.
«Quando alla Knesset si grida “vattene a Gaza” ad una parlamentare araba israeliana, quando lo stesso veleno dal Parlamento si sparge nelle piazze, allora vuol dire che qualcosa di molto grave sta avvenendo dentro la società israeliana e nelle sue istituzioni», dice a l'Unità Yossi Sarid, fondatore del Meretz (la sinistra sionista), più volte ministro e oggi editorialista di punta del quotidiano Haaretz.
«La cosa più grave è che questi fanatici trovano coperture e giustificazioni tra le forze che oggi governano il Paese. E sapere di essere protetti li rende ancora più aggressivi e pericolosi», aggiunge Yael Dayan, scrittrice, già deputata laburista, figlia dell'eroe della Guerra dei sei giorni: il generale Moshe Dayan. Il clima è pesante. Chi non si adegua viene tacciato di essere una quinta colonna di Hamas nello Stato ebraico. «Questa caccia al pacifista è un campanello d'allarme per tutti coloro, non importa se di sinistra, centro o destra, in Israele hanno a cuore la democrazia», ci dice Zeev Sternhell, lo storico che per aver denunciato la violenza dei coloni è rimasto vittima di un attentato (25 settembre 2008. In questo quadro, incalza Uri Avnery, «il compito della sinistra israeliana in questa fase è di lottare contro il lavaggio del cervello e la propaganda stolta ispirati dai falchi e i razzisti che siedono al Governo».
Il clima di intolleranza l'abbiamo respirato l'altro giorno ad Ashdod, tra una folla di oltranzisti che ha accolto con fischi, urla, invettive l'ingresso nel porto della «Rachel Carrie», la nave della Freedom Flotilla intercettata dalla Marina militare israeliana mentre tentava di raggiungere Gaza. Un clima da Paese in guerra. E chi si sente in guerra non ammette defezioni né accetta voci contrarie. Nella «hit» dell'odio, il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha quasi raggiunto il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «I turchi sono esperti di genocidi, basta vedere cosa hanno fatto agli armeni», sentenzia David Wilder, uno dei capi dei coloni ultrà di Hebron (Cisgiordania). «La lista dei Nemici si allunga di giorno in gior-
no. Questa psicosi dell'accerchiamento si sta trasformando in paranoia. E questo non fa ben sperare per il futuro», osserva preoccupato Amram Mitzna, ex segretario generale e “colomba” laburista. Preoccupazioni condivise dal suo compagno di partito e attuale ministro (Affari sociali), Isaac Herzog : «È tempo di sollevare il blocco (di Gaza), ridurre le restrizioni alla popolazione e cercare altre alternative”, ha affermato ieri nel corso della seduta domenicale dell'esecutivo.
L'altra Israele chiede verità sull' attacco alla Mavi Marmara e sostiene la richiesta di una commissione d'inchiesta internazionale. Ma fa i conti con il no del governo. Benjamin Netanyahu ha bocciato la proposta avanzata dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale sul blitz compiuto dagli incursori della marina israeliana a bordo della Mavi Marmara. A capo della commissione, secondo Ban, sarebbe nominato l'ex premier neozelandese Geoffrey Palmer, e ne farebbero parte anche rappresentanti di Israele, della Turchia e degli Stati Uniti. Aprendo la riunione del Consiglio dei ministri, Netanyahu riferisce di averne parlato direttamente con Ban, al quale ha spiegato che «l'indagine sui fatti dovrà essere svolta in modo responsabile e obiettivo». «Abbiamo bisogno di considerare la questione attentamente, salvaguardando gli interessi di Israele e dell' esercito israeliano», aggiunge il premier che in serata ha riunito il Gabinetto di sicurezza.
Nella seduta di governo, Netanyahu ha detto anche che a bordo della nave turca c'era un gruppo omogeneo, salito a bordo da un porto diverso da quello degli altri passeggeri, senza sottoporsi a ispezioni, ben equipaggiato e «fermamente deciso» a ricorrere ad una violenza organizzata. A dar man forte al premier ci pensa il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman: Israele, afferma Lieberman, è uno Stato sovrano e dunque l'indagine deve essere condotta «con i nostri propri mezzi». E questi mezzi sono stati utilizzati dal Governo israeliano per ordinare in serata l'espulsione in aereo verso l'Irlanda di undici passeggeri della Rachel Corrie. Fra gli espulsi ci sono Mairead Maguire, Premio Nobel per la pace, e Denis Halliday, ex vice segretario generale dell' Onu. In precedenza erano stati espulsi verso la Giordania altri sette passeggeri, di nazionalità malese.

sabato 5 giugno 2010

A Gaza, dove s’impara a sopravvivere senza cibo né acqua

l’Unità 5.6.10
A Gaza, dove s’impara a sopravvivere senza cibo né acqua
Cresce l’attesa mentre si avvicina la nave Rachel Corrie, ultima della Flottilla L’embargo è sempre più stretto. Ora sono vietati anche sapone, cemento persino carta igienica, spazzolini da denti e ceci. Il dramma dei bambini
Umberto De Giovannangeli

Ragazzini. Un milione e mezzo di abitanti, il 54% ha meno di 18 anni
La sete. Il 90% dei pozzi è contaminato, si compra da bere dai privati
La fame. Tra le merci proibite anche pasta, riso datteri e marmellata
Hamas. È ovunque, controlla l’economia dei tunnel e le opere «caritatevoli»
La Flottilla. «Quei morti per noi sono degli eroi sono shahid, martiri»
Shayma, 13 anni: «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, ora non posso studiare»
Muhammad, 7 mesi: «È morto perché con l’embargo non abbiamo strumenti per operare»

Nemmeno al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» in questa prigione sventrata, con le fogne a cielo aperto, con i bambini che giocano a scalare montagne di rifiuti in una gabbia ridotta ad un cumulo di macerie, isolata dal mondo. Il caldo soffocante moltiplica il bisogno di acqua. Quasi un miraggio, un bene divenuto di lusso dopo tre anni di embargo. Perché nella Striscia il 90% dei pozzi è chimicamente contaminato e l'acqua di casa non è potabile, per cui la gente è costretta a comprare acqua da privati. Neanche al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» a Gaza. Di vivere in un paesaggio lunare, fatto di crateri che si susseguono per chilometri. Tra quelle macerie, dentro quei crateri si muove una umanità sofferente che scruta il mare perché dal mare può arrivare la Speranza, sotto forma di navi della libertà, come quelle assaltate dagli uomini rana israeliani l’altra notte.
La realtà di Gaza supera ogni metafora – prigione, gabbia, inferno utilizzata per raccontare di una striscia di terra popolata da un milione e mezzo di persone – 1.527.069 secondo l'ultimo censimento in maggioranza (il 54%) sotto i diciotto anni. Gaza dove –secondo una recente ricerca dell'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi)il numero delle persone che non hanno alcuna sicurezza per l'accesso al cibo e che non dispongono dei mezzi per procurarsi i beni più essenziali come il sapone o l'acqua pulita, è triplicato dall'imposizione del blocco nel giugno 2007. Gaza, dove 300mila rifugiati vivono in condizioni di povertà degradante contro 100mila all'inizio del 2007, con un tasso di disoccupazione tra i più alti al mondo: 41,8%. Gaza, dove il blocco –denuncia la Croce Rossa«continua ad ostacolare gravemente» il trasferimento nella Striscia di attrezzature mediche essenziali, ponendo a rischio le cure immediate e le terapie a più lungo termine di migliaia di pazienti. Gaza, dove il 90% della popolazione dipende dagli aiuti alimentari distribuiti dalle agenzie dell'Onu.
Per entrare all’inferno devi superare a piedi –dopo un meticoloso controllo con fantascientifiche apparecchiature elettroniche da parte israelianail valico di Erez. Sono trecento metri in una terra di nessuno. Lo sguardo abbraccia un orizzonte fatto di macerie. E di bambini. Che camminano tra le rovine degli oltre 4mila edifici distrutti dall’aviazione e dall’artiglieria d’Israele nei 22 giorni dell’operazione «Piombo Fuso»: di quei 4000mila edifici, solo una minima parte sono stati ricostruiti. A Gaza manca il cemento per farlo. Israele ne proibisce l'entrata per timore che serva a ricostruire le infrastrutture di Hamas. Il cemento come mille altre cose: dalla fine di gennaio ci sono restrizioni su carburante, gas per cucinare, materiali per costruire. Poi a febbraio qualcuno ha denunciato che Israele bloccava anche i datteri, le bustine da tè, i puzzle per bambini, la carta per stampare i testi scolastici e la pasta (per Israele non è considerato bene umanitario, solo il riso lo è). Ora nella lista dei materiali proibiti sono entrati anche carta igienica, sapone, spazzolini e dentifricio, marmellata, alcuni tipi di formaggio e i ceci per fare l’hummus. Mancano a Beit Hanoun, a Rafah, Khan Yunis. E ancora: Jabaliya, Bureli, Al Nusayrat, Mughazi, Dayr al Balah, fatiscenti campi profughi trasformatisi in asfissianti centri urbani. Sono trascorsi quasi diciotto mesi da quel 27 dicembre 2008 (inizio dell'offensiva israeliana); 18 mesi dopo, Hamas continua a restare padrone di Gaza. Padrone di una «prigione», ma pur sempre padrone incontrastato.
L'embargo non ha indebolito il movimento islamico. Hamas è ovunque. Nelle organizzazioni «caritatevoli» che dispensano un acconto di cento dollari -un’enormità per chi (oltre 950mila persone) vive sotto la soglia di sopravvivenza– ad ogni famiglia colpita dal fuoco israeliano. Hamas presiede all'«economia dei tunnel», quella che si dipana sottoterra, nella miriade di gallerie che dalla frontiera con l'Egitto (il valico di Rafah riaperto da Mubarak dopo l'assalto alle navi della Freedom Flotilla), fanno arrivare a Gaza merce di ogni tipo. Hamas si è appropriato politicamente delle «Navi della libertà». Almeno diecimila persone hanno partecipato alle manifestazioni organizzate ieri nella Striscia dal movimento islamico contro il blocco israeliano e a sostegno della Freedom Flotilla: a sventolare, per ordine di Hamas, sono bandiere palestinesi e turche. Affianco ai ritratti di sheikh Ahmed Yassin –fondatore di Hamas ucciso dagli israelianicompaiono quelli del «nuovo amico del popolo palestinese», il premier turco Erdogan.
Quello a Hamas è un consenso impastato di rabbia, paura, dolore. Alimentato da una rivendicazione di libertà repressa nel sangue. Per anni Ahmed Al-Jaru aveva sognato il mare, pur vivendo a poche centinaia di metri dalla distesa azzurra. Ma Ahmed e i suoi 9 bambini non potevano arrivarci perché a separarli dal mare c'erano i soldati israeliani che presidiavano uno degli undici insediamenti ebraici nella Striscia. Ora Ahmed e i suoi bambini li incontriamo al vecchio porto di Gaza City. Lui era lì la notte che la festa si è trasformata in tragedia. Era lì assieme a Faisal, Mahmud, Abdel, Zaira, e ad altre migliaia che attendevano la Freedom Flotilla. C'era anche una banda musicale per far festa... Ma a Gaza festeggiare è un sogno irrealizzabile. «Quei pacifisti sono eroi, shahid (martiri), e gli israeliani degli assassini», dice Faisal, 14 anni, il padre ucciso nella seconda Intifada. C'è chi affida il suo pensiero a Internet. È Ola, blogger di Gaza. «Per coloro che pensavano che l'era dei pirati fosse finita... o che rimanesse confinata alla fantasia dei film di Hollywood... Ripensateci. Voi, i martiri della Flotta della Libertà...Gaza voleva accogliervi come vincitori...ma il paradiso vi riceverà come martiri...Le onde del mare e i gabbiani e il tramonto piangono tutti per voi...». «Allah li accolga nel Paradiso degli shahid», le fa eco Yousef, che per sfamare la sua famiglia di undici persone ha ingrossato le fila dell'«esercito» di uomini-talpa che lavorano sottoterra al confine con l'Egitto. Un collega della Tv francese prova a dirgli: non dovete perdere la speranza. La risposta di Yousef è un pugno allo stomaco: «Non possiamo perdere una cosa che non abbiamo».
C'è animazione al porto. Si è sparsa la voce che un’altra nave di Freedom Flotilla la «Rachel Corrie», con a bordo la Premio Nobel per la pace, l'irlandese Mairead Maguire, e il suo connazionale Denis Halliday, ex vice segretario generale delle Nazioni Unite è in avvicinamento alle coste di Gaza. «Siamo partiti per consegnare questo carico alla popolazione di Gaza e quello intendiamo fare è forzare il blocco di Gaza... Non abbiamo paura», fa sapere dalla nave, Mairead Maguire. La nave è carica di materiale da ricostruzione, 20 tonnellate di carta e molti altri prodotti che Israele rifiuta alla popolazione della Striscia. «Di navi ne dovrebbero arrivare cento al giorno per portarci via di qua», sussurra Zaira, dieci anni che tiene per mano il fratellino Yasser, tre anni. A Gaza le prime vittime sono i bambini. Bambini come Shayma, 13 anni, la cui casa è stata distrutta 18 mesi fa dai bombardamenti israeliani e ancora oggi vive con sei fratelli in una baracca di lamiere. Fredda d'inverno, torrida d'estate. «Ho smesso di fare le cose che mi piacevano, disegnare, giocare – dice Shayma -. Non mi piace neanche più guardare la televisione». Shayma ha solo tredici anni, ma il suo sguardo, la sua voce raccontano di una infanzia sfiorita nell'inferno di Gaza. «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, avevo buoni voti, adesso non lo sono per niente e ho paura che non riuscirò più a diventare dottore...». Anche Mahmud, 15 anni, ha perso la casa e ora vive in una tenda: «Non ho più sogni. Vorrei sentirmi come se avessi di nuovo una casa». Dalla prigione non si esce. Nella prigione si può solo morire. Anche se non hai alcuna colpa. Anche se hai solo sette mesi. Con le lacrime agli occhi, Yasmeen mi mostra una foto di Muhammad, il suo bambino. Due occhioni neri, un sorriso che apre il cuore. Ma il cuore di Muhammad Akram Khader non batte più. La sua morte – spiega Mu'awiya Hassanein, direttore generale dei servizi di Pronto soccorso nella Striscia è avvenuta a causa di un rigonfiamento del cervello, che richiedeva cure disponibili solo fuori Gaza a causa dell'embargo.
Muhammad è morto dopo che alla sua famiglia non è stato permesso di ricoverarlo in ospedali israeliani.
«Noi bambini diversi» Cosa sia crescere a Gaza, lo racconta Sani Yahya: un missile sparato da un F16 israeliano fece saltare per aria la festa del suo quindicesimo compleanno, uccidendo alcune delle sue sorelle e cugine. A Sany quell'attacco è costato il suo braccio sinistro: «Noi, bambini di Gaza, non siamo come gli altri –dice Sany che incontriamo a casa dei suoi nonni, alla periferia di Gaza City-. Da sempre dormiamo tutti insieme, abbracciati gli uni gli altri nello stesso letto per paura degli F16 che sorvolano di continuo le nostre case. Non parlo solo di adesso, di questa guerra. Noi siamo cresciuti così: senza luce e senz’acqua ogni volta che gli israeliani decidono di tagliarci l’energia; con l’eterna paura degli attacchi di punizione per i missili di Hamas e delle incursioni nelle nostre case. La mia scuola è stata bombardata tre volte in due anni. Non abbiamo diritto ad imparare né a sognare un futuro migliore. Nemmeno alla mia festa di compleanno avevo diritto...”. Il 31 luglio 2009, sulla spiaggia di Gaza, tremila bambini fecero volare in cielo gli aquiloni. Avevano sognato di volare con loro. Superando l'assedio, rompendo l'embargo. Volare via da quell'inferno chiamato Gaza.

giovedì 3 giugno 2010

La prossima Intifada

il Fatto 1.6.10
La prossima Intifada
Ripresi gli scontri nella Striscia, a Gerusalemme est tensione con gli israeliani e solidarietà ai “fratelli” di Gaza
di Roberta Zunini

Dei circa trecentomila arabi che vivono a Gerusalemme, più di cinquantamila risiedono nel quartiere di Silwan, a ridosso della città vecchia, vicino alla Moschea di Al Aqsa. Silwan, come Sheik Jarrah, Bet’Aniha e Shu’fat, fa parte di quella zona che l’Onu definisce Gerusalemme Est, territorio occupato palestinese, assieme a Cisgiordania e Gaza. Per Israele invece Gerusalemme Est è parte integrante della municipalità. L’annessione unilaterale, con la proclamazione di Gerusalemme “capitale unica e indivisa “ fu sancita nel 1980 da una legge della Knesset, che formalmente venne subito respinta dalla comunità internazionale. Resta il fatto che gli abitanti arabi di Gerusalemme Est non hanno ottenuto un cambiamento di status. Non sono cioè diventati cittadini ma solo residenti permanenti di Gerusalemme. E’ anche per questo che si sono sempre sentiti più vicini agli arabo palestinesi di Gaza che non agli arabi che vivono in territorio israeliano e hanno il passaporto israeliano. “Lunedì, però, forse per la prima volta ci siamo sentiti un unico popolo. Ci siamo tutti sentiti di nuovo veri fratelli. Abbiamo scioperato tutti assieme – ci dice Selim Aman, ingegnere meccanico – per protestare contro il trattamento disumano a cui sono sottoposti da anni i nostri fratelli di Gaza e per manifestare il nostro disgusto nei confronti del massacro di chi voleva portare loro aiuto. Parteciperò sicuramente ad altre manifestazioni di piazza se ce ne saranno, anche se vuol dire rischiare la vita, perché i soldati, come avete visto, non fanno sconti a nessuno”.
Il Huadi Silwan information center è uno spazio di cannucciato e assi che si trova tra la moschea di Al Aqsa e l’ingresso della City of David, il parco archeologico dove, secondo la Bibbia, si troverebbero anche la dimora e il giardino di re David. L’appalto dei lavori di scavo della City sono stati affidati dal governo israeliano a un’associazione di coloni ebrei, El Ad. “Lunedì, dopo che si era diffusa la notizia del massacro dei pacifisti, qui davanti ci sono stati scontri proprio tra coloni armati di fucili e ragazzi palestinesi con le tasche pesanti di pietre” ci racconta l’assistente sociale arabo Jawad Siam, che gestisce il Silwan information center assieme ad Hagit Ofra, una signora ebrea dell’organizzazione umanitaria Peace Now. A sentire gli abitanti di Silwan, la situazione è esplosiva e non è un caso che, sempre ieri, un gruppo di palestinesi abbia appiccato il fuoco alla propria abitazione, occupata da tempo da una famiglia di coloni. Hamad – che ancora soffre dei postumi di una fucilata alle gambe, sparata da un giovane colono ortodosso che camminava con un M16 a tracolla – ci spiega che ciò è accaduto pochi giorni dopo la sentenza della corte israeliana che intimava ai coloni di andarsene. “I coloni però non se ne volevano andare e le forze dell’ordine israeliane tardavano a intervenire. E’ allora che i legittimi proprietari della casa assieme ad alcuni amici, tra cui mio cugino, hanno dato fuoco all’abitazione per costringere i coloni ad andarsene. Il coraggio di buttare fuori i coloni però gli è venuto proprio ieri”. Anche Adnan Husseini, il Governatore di Gerusalemme dell’Autorità Nazionale Palestinese ci dice che c’è un forte nervosismo oltre che tristezza tra i palestinesi. “E’ una frustrazione che sta corrodendo la speranza, la rabbia è contenuta da troppo tempo ma escludo che possa esplodere una terza intifada. Ciò che è accaduto potrebbe invece aprire una nuova pagina della nostra storia, non negativa. Ormai la comunità internazionale non può più far finta di non vedere quanto sia spietata l’occupazione e spero abbia capito che noi palestinesi siamo di nuovo uniti. Voglio sperare che questo sacrificio dei pacifisti venga colto dal mondo e ci aiuti ad ottenere un nostro Stato”. Ma queste sono le parole della diplomazia. E la vita reale non passa per l’ufficio del Governatore.
E la “vita reale” ha troppo spesso il volto della morte. Una forte esplosione, ieri, ha colpito la città palestinese di Beit Lahya, nell’estremità nord della Striscia di Gaza, uccidendo tre persone. La radio militare israeliana ha reso noto che la deflagrazione è stata provocata da un missile lanciato da un velivolo israeliano e che i morti erano miliziani dell’ala armata del Fronte Popolare, una delle fazioni radicali attive nell’enclave controllata dagli integralisti di Hamas. La stessa fonte afferma che l’attacco è seguito dopo il lancio di due razzi Qassam, esplosi senza fare vittime nei pressi di Ashqelon, nel sud di Israele. Altri due palestinesi, invece, erano morti, nella mattina, in uno scontro a fuoco con una pattuglia militare israeliana, nella zona centrale della Striscia di Gaza.